Il titolo del bel libro di Katiuscia Carnà e Sara Rossetti, Corpi e identità (Villaggio Maori edizioni), rimanda immediatamente ai nessi costitutivi dell’esistenza dei viventi.
Corpo che ho, corpo che sono. Il nostro corpo è attore che si muove sulla scena del mondo, è elemento essenziale della condizione umana, è deposito delle percezioni/sensazioni/esperienze biografiche e dell’immaginario sociale. È fissato nelle immagini, descritto dalla letteratura, gestito nei rituali, orientato dalle abitudini, previsto dagli standard e dai canoni, normato dalle leggi.
Agente e agito; negato, censurato, represso, espropriato, demonizzato; sublimato, esaltato, divinizzato; oggettivato, mercificato, marchiato; controllato, addestrato, disciplinato; nascosto, mostrato, esibito, rivestito, coperto; tinto, dipinto, modellato, trasformato; medicalizzato, monitorato, manipolato, virtualizzato… sempre e ovunque è il primo oggetto su cui una cultura incontrando la natura imprime i propri segni e al contempo per ciascuno e per ciascuna il primo marcatore dell’identità di sé.
Sui corpi umani in quanto costrutti indirizzati da ruoli, calati in relazioni e contesti, destinatari di risorse, si scontrano forze che tentano di estendere i loro domìni. Su questo le scienze sociali si interrogano da sempre, con maggior slancio e rigore da quando le donne hanno imparato a maneggiare le discipline per dar conto di una dissimmetria sistematica che proprio dalle differenze dei corpi trae origine e giustificazione.
Storiche e sociologhe ci hanno insegnato che le pratiche della cura e dell’esibizione del corpo, considerate tradizionale terreno femminile, rimandano al potere e al controllo (maschile e comunitario) e per contro alla libertà e all’autodeterminazione (dei soggetti/donne). L’abito con i permessi e i divieti è capace di trasformare il corpo desiderato e proibito, ammirato e violato, in una scacchiera di zone di repulsione e di attrazione, facendosi in questo senso profondamente politico. Il vestiario che crea un gioco di alternanze tra copertura e scopertura è orientato da subito secondo il genere, a ribadire come “naturale” un’identità tra fatto biologico e fatto sociale: il corpo femminile genera una matrice di senso che dev’essere immediatamente percepita come diversa da quella maschile. In realtà essa è fondata non tanto sul corpo che si veste, quanto sulla reazione degli altri al suo vestire.
Ci è voluto poi uno sguardo trasversale per mostrarci che la rigidità dei codici che regolano la visibilità, le pratiche e gli ornamenti dei corpi si è spostata in questi nostri tempi globalizzati, aggiungendo alle divisioni fra generi e classi sociali le divisioni fra culture.
L’interesse per i percorsi migratori femminili ha stimolato in anni recenti numerose pubblicazioni. Mancava tuttavia un aspetto importante nella definizione e ridefinizione sia dell’identità delle migranti sia degli sguardi autoctoni su di loro: un lavoro di studio sui criteri e sulle modalità di gestione della presentazione esteriore di sé e della ricerca estetica, con le scelte e i condizionamenti, le pressioni e i gusti, le storie che costellano l’esperienza di ciascuna nelle diverse fasi della vita. È lo scopo di questo libro.
La scelta di intervistare donne provenienti dall’immenso subcontinente indiano attualmente residenti in Italia è nata dalla familiarità con le loro comunità da parte delle autrici, che già avevano dato vita a un’altra riflessione sull’interculturalità, Kotha, donne bengalesi nella Roma che cambia (2018, Ediesse). Il risultato è stata una condivisione di racconti di sé difficile da ottenere per altra via. La difficoltà è stata cercare categorie tali da proporre domande simili per un territorio così vasto, attraversato nei secoli da tradizioni, religioni, governi, organizzazioni differenti che spesso gli occhi occidentali identificano in una sola categoria che sbrigativamente omologa provenienze, culture, status, identità.
La centralità del corpo femminile nella storia del concetto di bellezza non è una novità: il libro ne fa una rapida sintesi, soffermandosi innanzitutto sulla sua evoluzione nel nostro Paese, sulla rappresentazione europea dell’alterità e sulla visione di età moderna che con la colonizzazione ha posto come oggetto di esotica curiosità le misteriose donne d’Oriente.
Stretto è il legame delle pratiche di bellezza con le tradizioni religiose e le religiosità: necessario quindi il capitolo che cerca nel buddhismo, nel cristianesimo, nell’hinduismo, nel sikhismo, nell’islam i precetti morali e le indicazioni pratiche che orientano le scelte delle credenti fino ad assumere valori spirituali. Non va dimenticato che a ogni ricerca identitaria le religioni offrono la risposta più conosciuta, più immediata e più forte. Come questa ricerca venga declinata nella quotidianità dalle diverse generazioni è l’oggetto dei capitoli centrali del libro, pagine densissime di spunti che è impossibile sintetizzare e che certo non si confinano nella diatriba tutta eurocentrica velo sì/velo no. Ogni simbolo è polisemico, come mostra il bell’apparato iconografico.
Persistenze culturali subìte o volute; mimetizzazioni al nuovo ambiente o riappropriazione delle tradizioni; negoziazione, ibridazione o rifiuto; tensioni e resistenze, auto ed etero definizioni, proiezioni e memorie… grande rispetto per queste donne imprigionate dalla storia e dalla geopolitica entro rappresentazioni conflittuali, che incorporano fisicamente e simbolicamente la linea di demarcazione tra privato e pubblico, che devono mobilitarsi tanto nella società quanto in famiglia su un doppio fronte.
A me questo libro è stato utilissimo. Mi ha mostrato con inequivocabile chiarezza che nell’incontro con femminismi “altri” il concetto di differenza, centrale nel pensiero delle donne, va spostato dall’irriducibilità tra maschile e femminile fino a comprendere le differenze tra le donne stesse, le pluralità delle storie, dei percorsi, delle appartenenze e delle condizioni.
Una parte del femminismo occidentale muove dal presupposto che la liberazione delle donne si identifichi soltanto con l’estensione e la piena applicazione del modello liberale, rappresentato come insidiato dal pluralismo culturale e dalla “barbarie” del mondo non-occidentale. Così rinuncia alla vocazione del pensiero femminista a sottoporre a critica le tradizioni normative, comprese le proprie. Così corre il rischio di una riedizione in chiave globalizzata del paternalismo benefattore.
Anche il femminismo insomma può incappare nelle dicotomie cui si era ribellato. Qual è lo spazio di autonomia di cui dispone una donna adulta nella determinazione del proprio bene? Chi lo decide? Ha il diritto di parlare a partire da sé ed essere ascoltata anche quando afferma princìpi diversi dai nostri?
C’è una consigliera comunale di Podemos che in Catalogna, con in testa il velo islamico, ha sposato in municipio due omosessuali. Il mondo va avanti.

Katiuscia Carnà e Sara Rossetti
Corpi e identità. Donne dal Subcontinente indiano all’Italia
Villaggio Maori, 2021
pp. 328
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Articolo di Graziella Priulla

Già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.