Nella direzione opposta alla vocale schwa: perché la parola femminicidio, che mostra il genere, è necessaria?
L’italiano – con parere contrario dell’Accademia della Crusca – sembra pronto a evolvere: a testimoniarlo è la sterzata inclusiva data dall’utilizzo, almeno nella lingua scritta, della vocale intermedia schwa (ə), introdotta con l’intento di neutralizzare il genere – “nascondendo”, così, il maschile e il femminile – per integrare, appunto, chi è nonbinary, non binario, termine ombrello coniato per indicare le persone che non si identificano in alcun genere o che sentono di appartenere a entrambi, oppure, che si riconoscono come identità fluide.
La virata culturale che accompagna il nascente atteggiamento linguistico è senz’altro incoraggiante – sebbene gli addetti ai lavori storcano il naso ritenendolo una forzatura poiché, in italiano, gli unici generi grammaticali ammessi sono il maschile e il femminile, non l’agognato neutro – eppure, l’insistenza per opacizzare il genere e, dunque, per considerare un più ampio (e realistico) ventaglio identitario, ha innescato in me il desiderio di riflettere sulla stessa lingua che, sebbene oggi aspiri a essere inclusiva, concretamente ancora fatica ad ammettere un reale binarismo, a mostrare un genere: quello femminile; anzi, è incline a nasconderlo.
Perché, per esempio, è importante usare, tra le altre, la parola femminicidio – che volutamente esprime il genere – se esiste già, ed è onnicomprensivo, il termine omicidio? Non è un vezzo linguistico, ma un’assunzione di responsabilità: l’uso proprio o improprio delle parole contribuisce a formare e a deformare la visione dell’Altro e dell’Altra.
È quella linguistica, infatti, la prima categoria d’analisi che ho utilizzato per riflettere, nella mia tesi di laurea dal titolo Femminicidio: amore e violenza, sulla questione. Il primo capitolo, intitolato Femminicidio: le parole e i numeri dell’amore e della violenza, esordisce con un quesito posto dall’Accademia della Crusca circa le motivazioni che hanno dettato l’ingresso, e aggiungerei la permanenza, nel nostro panorama linguistico, del termine femminicidio che è, a tutti gli effetti, un neologismo, oggetto di giudizi contrastanti per quanto concerne la necessità del suo utilizzo.
Del termine femminicidio propongo prima l’analisi metalinguistica, evidenziando la correlazione semantica di questa voce con la parola femmina partendo dall’antecedente latino femina, e viro, a seguire, sull’analisi sociolinguistica, ripercorrendo la sua gemmazione negli Stati Uniti, con la criminologa Diana Russell, in Centro America, con l’antropologa Marcela Lagarde e, infine, in Italia.
Maggiore, ovviamente, è l’attenzione che pongo sulla fattispecie italiana: a tal proposito, da un lato menziono le attestazioni più antiche del termine femminicidio e dall’altro offro alcuni spunti sull’impiego attuale (e necessario!) di questa voce e del fenomeno di genere che descrive. Mi riferisco, soprattutto, all’operato dei media, che quotidianamente distorcono l’immagine delle donne che raccontano,insinuando, nei fruitori di notizie, il sospetto che le vittime siano, in qualche maniera, responsabili della propria morte.
Viene attuata una manipolazione dei fatti che causa l’inevitabile compromissione della lucidità di giudizio della coscienza collettiva: quest’ultima, prima di qualsiasi manovra ulteriore, ha bisogno di essere rieducata a riconoscere i contenuti manomessi e ad acquisirli nuovamente con le parole esatte. Il corretto utilizzo della lingua può apparire come la punta dell’iceberg del fenomeno, ma è il primo atteggiamento da correggere, se si intende produrre un risveglio culturale che orienti le masse.
Il femminicidio, le implicazioni psicologiche e antropologiche di questa “patologia culturale”
Gli argomenti che la psicologia e l’antropologia offrono – tenendo conto che si tratta di scienze focalizzate, rispettivamente, l’una sullo studio dei processi psichici; l’altra sullo studio dell’essere umano come singolo/a, oppure, come inserito/a in un gruppo – sono stati compenetrati, nell’arco della stesura, perché, a mio avviso, parimenti coinvolti, per citare Isabella Merzagora Betsos, in questa “patologia culturale” che è il femminicidio.
Ho studiato il fenomeno collocandolo nel contesto della coppia: descrivo lo scadimento della coppia romantica in coppia patologica, quindi, dell’amore in violenza.
Il secondo capitolo intitolato The bright side: l’amore rappresenta, infatti, una panoramica sull’amore.
Perché amiamo? Chi amiamo?
A cominciare da questi interrogativi – le “eterne” domande cui tutti, con ostinazione, cerchiamo una risposta – il capitolo scandaglia una per una le fasi che interessano la costruzione del legame di coppia: attrazione, innamoramento, amore e attaccamento.
Vasco Rossi, nella canzone Senza parole, canta: «ho capito perché non si comanda al cuore». Finalmente, l’ho capito anch’io: perché non si comanda al cervello! Nel capitolo sull’amore, infatti, presto attenzione alle “accensioni” e agli “spegnimenti” cerebrali – il titolo the bright side vuole essere, infatti, una provocazione – che interessano ciascuna tappa del rapporto a due per appurare se, a livello biologico, esistono dei fattori predisponenti alla violenza. Indago, a tal proposito, gli effetti collaterali scaturenti dall’attivazione e dalla disattivazione delle zone del cervello coinvolte nel processo amoroso; riflettendo prima sul ruolo che, in termini di sfumature comportamentali, esercitano testosterone ed estrogeni, gli ormoni sessuali maschili e femminili, poi su quello dell’ossitocina e della vasopressina che sembra siano, rispettivamente, i neurormoni dell’amore e della gelosia.
Analizzo, per concludere, la fase clou del rapporto di coppia, quella dell’attaccamento, specificando in che modo lo stile d’attaccamento, ossia il rapporto di sintonizzazione stabilito nelle relazioni precoci tra l’infante e l’adulto, la madre in primo luogo, possa influenzare l’interazione tra partners nelle relazioni future, romantiche e potenzialmente patologiche.
È, per l’appunto, sul filo di lana tra coppia romantica e patologica che nasce il terzo capitolo, intitolato The dark side: la violenza, orientato a cogliere gli aspetti oscuri – negati o sommersi – della violenza.
Partendo dal proemio dell’Orlando Furioso – «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese io canto» – capolavoro di Ludovico Ariosto, introduco il concetto della violenza di coppia, con cui alludo ai maltrattamenti che si verificano nell’intimità di una relazione sentimentale quando un partner – nella maggior parte dei casi l’uomo – tende a imporre il proprio dominio sull’Altro, o meglio, l’Altra. Sono da supporre, a fondamento di questa distruttiva dinamica relazionale, motivazioni biologiche o culturali? Dal mio punto di vista, entrambe. E, tra quelle culturali, è lecito leggere la violenza come una semplice riproposizione del patriarcato, struttura fondata sullo svilimento biologico della figura femminile, oppure, è da valutare un’effettiva crisi di genere dettata da una presa di coscienza, da parte degli uomini, dell’alterità femminile, ovvero, dell’esistenza della donna e del suo valore?
Affronto tali interrogativi esponendo quali sono, a mio giudizio, le possibili motivazioni sottostanti la violenza di coppia e, al contempo, indico quali sono le modalità e, soprattutto, le differenti tipologie – psicologica, fisica, sessuale, economica, morale – entro cui essa si manifesta.
Premesso che, all’interno della coppia, si assiste a un’escalation delle violenze, sia in termini di frequenza che di intensità, e che questo crescendo può sfociare nel femminicidio, è lecito chiedersi:
Perché le donne non se ne vanno?
Perché gli uomini lo fanno?
Provo a rispondere – per richiamare il titolo di un album di Caparezza – con le mie “verità supposte” adducendo, come motivazione dello scadimento della coppia romantica in coppia patologica, quindi dell’amore in violenza, e della violenza, giunta all’acme, in femminicidio, una “crisi di genere”. A provocarla sono, a mio avviso, gli effetti che il processo di emancipazione femminile ha prodotto sull’Altro sesso, quello maschile, imponendo una presa di coscienza dell’esistenza dell’Altra e, soprattutto, del suo valore.
È venuto meno – la crisi che ritengo sia in atto lo testimonia – lo stereotipo della donna sottomessa imposto agli albori della civiltà e rimasto inalterato fino ai giorni nostri, ed è emersa una nuova condizione, quella della donna autonoma, che non si era mai verificata in precedenza.
Probabilmente lo scardinamento degli stereotipi di ruolo – utilizzati, per me, come palliativi identitari – sono all’origine dell’isteria che si esplica, nel tentativo di ripristinarli, attraverso la violenza di genere. È un mondo, il nostro, che, con l’utilizzo della vocale schwa, cerca l’inclusione ma, nella realtà dei fatti, deve ancora accettare l’alterità femminile per dirsi realmente binario!
Qui il link alla tesi integrale.
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Classe 1994. Laureata in Lettere, specializzata in Scienze dell’Informazione, della Comunicazione e dell’Editoria; Assistente alla Comunicazione e Interprete LIS. Impegnata, attualmente, in un nuovo percorso accademico come Educatrice Professionale: studio, da sempre, come entrare in relazione con l’altra/o, perché rappresentano lo specchio di chi sono io.
Grazie, molto interessante!
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