La donna nel Medioevo. Condizione sociale, attività e costumi 

L’intera società medievale, un millennio circa, poggia su un’impalcatura essenzialmente patriarcale. Le donne sono sottoposte prima al padre o al capofamiglia maschio; in seguito, da sposate, rimangono assoggettate al marito per tutto il resto della propria esistenza. 
Fisicamente deboli e moralmente fragili, le donne nel Medioevo sono considerate esseri da proteggere, sia dagli altri che da sé stesse. Tutte indistintamente sono sottoposte alla sorveglianza e alla tutela degli uomini. 

Donne che preparano la pasta. Immagine tratta dal Tacuinum sanitatis (XIV secolo).

Con la diffusione del cristianesimo, le donne vengono emarginate dal culto, dall’istruzione e dall’insegnamento. «Mulieres in ecclesiis taceant», prescrive categoricamente San Paolo nella prima Epistola ai Corinti. In uno dei periodi più cupi per la sua affermazione personale, la donna vive in un triplice stato di sottomissione – le tre obbedienze: padre, marito, figlio – ma può anche essere sottomessa al fratello, al cognato o, in mancanza di altri parenti maschi, al duca o a un signorotto. Insomma, è una creatura considerata bisognosa di protezione e di guida. In una società come quella cristiana, che relega in secondo piano le donne, si discute ancora se la donna sia o meno dotata di un’anima, come l’uomo, oppure se ne sia priva, come gli animali. 
Nel Medioevo, a parte alcune protagoniste di rango elevato, la donna comune, fisicamente debole perché fin da bambina nutrita male e vestita peggio dei suoi fratelli, chiusa in casa, dedita poi a figli e figlie e a tessere e cucire, vive un’esistenza molto precaria, dipendente in tutto dall’uomo. Le contadine lavorano sodo per mantenere la famiglia, spesso numerosa. Si sposano giovanissime, il più delle volte contro la loro volontà, partoriscono dagli otto ai dieci figli/e, una prole numerosa da accudire, nutrire, educare. Molti bambini/e, affidati alle sorelle più grandi (sei-sette anni) o alla nonna, muoiono prematuramente di malattia, malnutrizione o per incidenti: morsi di animali selvatici, annegamento, ustioni o cadute causano la morte di molti bimbi e bimbe tra un anno e i quattro.  

Frammento Speculum Virginum dalla fine del XIII secolo o all’inizio del XIV secolo

La donna dedica molta parte del tempo a cucinare. Il camino, come lo intendiamo noi, non esiste, c’è solo un focolare privo di canna fumaria, il fumo esce dal tetto. I bimbi/e più piccole aiutano le mamme a prendere l’acqua dai pozzi. Per evitare le infezioni, l’acqua non si beve mai pura, ma aromatizzata con spezie, frutta, erbe e aceto. Tipiche attività femminili: raccogliere l’acqua e la piccola legna, accendere il fuoco, pulire la casa e gli abiti (se di tessuto con cenere, la lana viene semplicemente spazzolata), filare (utilizzando fuso e conocchia), cucire, preparare la birra, spegnere gli inizi d’incendio. Le donne sposate assistono i mariti nelle varie attività contadine e artigianali. 

La vita nei campi è abbastanza dura. Le donne sono generalmente considerate alla pari degli uomini nei lavori agricoli: è un’uguaglianza di genere in anticipo sui tempi, che però spesso non significa altro che povertà e miseria condivisa dai due sessi. Al di fuori della famiglia e del villaggio il 4% delle donne muore a causa di incidenti agricoli rispetto al 19% degli uomini. In campagna sono riservate alle donne mietitura, fienagione, essiccazione del fieno, creazione di covoni di paglia, aerazione del foraggio, potatura delle vigne, spremitura dei grappoli d’uva, raccolta di ortaggi, erbe medicinali, frutta, conservazione o lavorazione dei prodotti della terra. Se la famiglia possiede animali da cortile (galline, maiali e capre), è compito delle donne dar loro da mangiare e preparare burro e formaggio. Spesso le donne vendono uova, frutta, verdura, prodotti conservati, tessuti e utensili d’artigianato prodotti dal marito. 

Incontro amoroso mentre la donna sta al telaio
(1340 circa)

Le più povere fanno spesso le venditrici ambulanti e pranzano all’aperto negli stessi luoghi di mercato o in città lavorano presso le famiglie più ricche in qualità di servitrici o lavandaie. Vi sono prove che le donne, oltre a cucinare e a svolgere le normali faccende domestiche, praticano anche altre attività come la macinazione, la fermentazione della birra, la macellazione e la filatura; oltre alla produzione di farina, carne, formaggi e tessuti sia per il consumo diretto ma anche per la vendita. Anche se la produzione di stoffa, di birra e di latticini è soprattutto appannaggio delle donne, i lavoratori tessili e i birrai col tempo diventano sempre più numerosi, in special modo grazie al mulino ad acqua, al telaio orizzontale e all’invenzione della birra salata aromatica. Nel frattempo le donne vengono sempre più relegate a compiti di basso costo nell’ambito della filatura. Oltre a lavorare autonomamente sulle proprie terre le donne in certi casi possono anche farsi assumere come impiegate o lavoratrici salariate. In ogni caso ricevono sempre la metà della paga rispetto agli uomini, anche se entrambi svolgono lavori del tutto simili. 

Nei primi secoli del Medioevo, l’aspettativa di vita alla nascita è notevolmente inferiore rispetto a quella dei maschi, a volte non più di 25 anni. Conseguentemente in alcune regioni si contano fino a 4 uomini per ogni 3 donne. L’aspettativa di vita migliora gradualmente col passare dei secoli, soprattutto a causa di una migliorata qualità dell’alimentazione. Le contadine devono sottostare a numerose restrizioni da parte dei loro signori feudali. Se una donna risulta incinta senza essere sposata, o se ha avuto relazioni sessuali al di fuori del matrimonio religioso, il signore ha diritto a un risarcimento. Le coppie possono convivere senza sposarsi previo il permesso del loro signore. Il 90% della popolazione europea vive in campagna e l’economia medievale è quasi esclusivamente agricola. Mancando le macchine, le attività si svolgono grazie al lavoro umano. La maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici non riceve, comunque, un salario in quanto lavora quasi sempre sulla propria terra e produce da sé i beni necessari per i propri consumi.  Nel complesso gli uomini godono di maggiori possedimenti rispetto alle donne. Nella penisola scandinava i figli ereditano il doppio delle figlie femmine, mentre i fratelli tra di loro ricevono quote uguali. Nella Francia settentrionale, in Bretagna e nel Sacro Romano Impero i figli e le figlie hanno un’eredità in parti uguali a prescindere dal sesso. Le proprietarie di terreni, nubili o sposate, possono concedere o vendere il terreno come da loro ritenuto più idoneo; inoltre gestiscono le proprietà quando i loro mariti sono costretti a partire per la guerra, i viaggi politici o i pellegrinaggi. Tuttavia con il passare del tempo alle donne sono dati in dote beni mobili, come il denaro, invece della terra. Anche se almeno fino all’anno Mille la proprietà terriera femminile aumenta, in seguito comincia progressivamente a diminuire poiché sempre più donne abbandonano la campagna per andare a lavorare in città con un salario in qualità di servitrici o in altri tipi di impieghi quotidiani. 

Una donna al lavoro in una piantagione insieme a un uomo

Molto diversa è la vita delle donne nobili, castellane o feudatarie, che durante l’assenza dei mariti si occupano di tutto, anche della difesa del castello in caso di attacchi nemici. Le aristocratiche vivono fin da piccole nel gineceo, imparano a tessere, cucire i capi di vestiario per l’intera famiglia e a ricamare, vengono concesse in sposa molto giovani (a partire dai sette anni) e secondo la consuetudine dell’epoca sono costrette a vivere con la famiglia del fidanzato, in attesa dell’età consentita per maritarsi. Il corpo femminile, prima e durante il matrimonio, è sotto il rigido controllo non solo del marito, ma anche della suocera e delle domestiche, per evitare adulteri e assicurare alla casata eredi legittimi. La donna adultera è punita con la condanna a morte, mentre i mariti possono impunemente tradire la moglie. Addirittura all’amante e ai figli illegittimi è permesso vivere nello stesso castello con la moglie, che deve passivamente accettare il palese adulterio del consorte. Tuttavia le nobili, una volta convolate a nozze, hanno alle loro dipendenze un’intera schiera di persone e tengono in mano le redini del feudo: controllano il capocuoco per i pasti quotidiani, cuochi, panettieri, cameriere, ordinano le spezie orientali, ispezionano le lavanderie, controllano la preparazione del burro, formaggio, vino e la salatura della carne. I matrimoni non durano quasi mai più di dieci-quindici anni, poiché gli uomini perdono spesso la vita in guerra, e le donne muoiono di parto. In media, mettono al mondo tra gli otto e i dieci figli, lasciandoli spesso orfani. Perciò gli uomini preferiscono avere mogli molto più giovani di loro. 

Durante l’età comunale, le donne ricche urbanizzate possono diventare commercianti come i loro mariti o addirittura finanziatrici; le donne della borghesia lavorano nelle industrie tessili e nella fabbricazione della birra. Anche nelle città, specialmente nell’alto Medioevo, le donne comandano servitori di ogni sorta, numerosi quanto nelle campagne, a seconda della ricchezza e attività della famiglia. Aiutano i mariti nella vendita di prodotti artigianali, un po’ di tutto: manici di balestre, tasche da sella, cinture di cuoio, speroni, saponi, pergamene, spezie importate dall’Oriente, tessuti e filati di lana. Per gestire il commercio è necessario sapere leggere, scrivere e far di conto. Nascono così scuole per ragazze borghesi tenute da beghine o suore dei diversi ordini che desiderano rompere il monopolio ecclesiastico e maschilista della cultura. Le artigiane presenti in alcune città, proprio come i loro equivalenti maschi, si organizzano in gilde. La lettura del Ménagier de Paris , trattato composto (manoscritto) verso il 1393 da un anziano borghese benestante parigino con lo scopo di educare la moglie quindicenne, è indicativo della considerazione in cui è tenuta la donna nella borghesia francese del periodo. 

Anche se le mogli sono obbligatoriamente sottomesse all’autorità maritale, esse riescono a mantenere ancora certi diritti. Le contadine, le schiave e le serve in generale hanno bisogno del permesso e del consenso del loro padrone per potersi sposare; sono in vigore varie punizioni qualora non si rispetti una tale regola. Alla morte di un coniuge le vedove possono ereditare la proprietà quando hanno ancora dei figli minori o se vengono create disposizioni in tal senso. La legge stabilisce che l’erede maschio erediti la terra del padre defunto e, nel caso in cui non vi sia nessun figlio maschio, la proprietà spetta alla figlia maggiore. Tuttavia alcune vedove non si risposano e conservano il possesso della terra fino alla morte, garantendo così la propria indipendenza; anche vedove più giovani, che avrebbero tutto il tempo per risposarsi, scelgono invece di rimanere indipendenti. Dopo che la peste nera del 1348, una delle più nefaste epidemie della storia, stermina una gran parte della popolazione europea e porta di conseguenza a una grave mancanza di manodopera, le donne riempiono le lacune professionali nel settore agricolo e tessile. 

L’abito di tutti i giorni è composto da una camicia bianca o una tunica in lino chiamata interula o sotano, con maniche lunghe aderenti ai polsi. Sopra la camicia si indossa una seconda tunica lunga fino ai piedi, la “gonnella”, spesso decorata con ricami, galloni e inserti di stoffa di colore diverso. Il corpetto slancia la figura e disegna la forma dei fianchi, del ventre e della schiena. Ha una scollatura rotonda, ampia, dalla quale fuoriesce la camicia e le maniche lunghe svasate a partire dal gomito. Gli abiti hanno lunghi strascichi di stoffa preziosa e colorata, che vengono avvolti sul braccio. La tunica è drappeggiata in vita o ai fianchi e provvista di cintura ricamata di cuoio intrecciato, di seta o di lino, sapientemente allacciata. 
Come reggiseno si usa un velo di mussolina che stringe il petto. Nessuno, ricco o povero che sia, uomo o donna, indossa le mutande, conosciute dai Romani, ma di cui si è perso l’uso. Si pensa, infatti, che ostacolino il prendere aria delle loro parti intime. 
Sopra la tunica si porta il mantello, rettangolare o circolare, un indumento prevalentemente riservato ai nobili e che può essere di vari tipi, anche se la forma più comune è quasi sempre a ruota, di mezza lunghezza e senza maniche. In genere è di tessuto pesante foderato di pelliccia o ricamato. Le scarpe alte o basse, chiuse o aperte, con o senza linguetta, sono di cuoio, di feltro, di seta ricamata e appuntite, foderate di pelliccia. La moda preferisce i piedini piccoli, i tacchi abbastanza alti, il passo ondeggiante e accuratamente studiato. 
Molto diffusi i profumi. Si iniziano a importare dall’Oriente perle di grande valore, zaffiri, rubini, smeraldi e diamanti con i quali si realizzano gioielli: collane, orecchini, anelli, fermagli e fibbie. 
Durante il Basso Medioevo, si allunga la sopravveste fino a dar vita a uno strascico e si diffonde l’abitudine di tenerne sollevato un lembo per sottolineare l’accostamento di colore con la veste sottostante. 

Il monastero, unico rifugio per le donne non sposate, in un dipinto di John Everett Millais, La valle del silenzio, 1858

Nei primi secoli del Medioevo il gentil sesso non appare mai in pubblico a capo scoperto. La spiritualità religiosa dell’epoca sottrae agli sguardi le fattezze corporee e le chiome femminili, fonte di tentazione. Nel chiuso mondo feudale dell’alto Medioevo manca qualsiasi rappresentazione della figura muliebre a capo interamente scoperto. Per cinquecento anni e più, le donne, almeno le maritate, non si fanno più vedere i capelli. Le poche figurazioni artistiche mostrano donne coperte da veli dalla testa ai piedi, altre che rialzano in testa un lembo del mantello (come le romane dei primi secoli) o nascondono i capelli sotto candide bende, che sono il simbolo più eloquente della totale subordinazione al marito. 
Veli, scialli, lembi di mantelli coprono per intero o quasi le capigliature, certamente lunghissime. Ogni donna sembra una monaca. Le dame altolocate nascondono i capelli sotto frontali, corone, diademi, ghirlande, nastri, galloni, cuffie ingioiellate, turbanti di seta, veli di stoffe preziose, riversando su accessori di estrema preziosità l’amore per il lusso che non può manifestarsi nell’acconciatura, in obbedienza ai dettami cristiani che vogliono i capelli nascosti allo sguardo dell’altro sesso, come attualmente presso le popolazioni di più stretta osservanza coranica. L’infatuazione per gli ornamenti diventa una tale mania che papa Sergio I (687-701) in una bolla prescrive alle donne col massimo rigore di limitare gli ornamenti da testa all’essenziale e pettinarsi il più semplicemente possibile. 

Col secolo XII entriamo nel basso Medioevo. La vita riprende con nuovo ritmo, specie nelle città. Al feudalesimo subentra l’età dei liberi Comuni, autentiche città-stato. Le arti si destano da un sonno secolare, le fanciulle trovano il coraggio di sciogliersi le trecce e godono a farsi ammirare copiose cascate di capelli nelle cui luminose volute si specchiano i riflessi di un cerchio osato sul capo: corona è il suo altisonante nome. Molte riscoprono la leggiadria, tutta femminile, d’intrecciare ai capelli una coroncina di fiori. 
«Per una ghirlandetta ch’io vidi / mi farà sospirare ogni fiore. / I’ vidi a voi, donna, portare / ghirlandetta di fior gentile», scrive Dante colpito da una fanciulla graziosamente agghindata come tante sue coetanee. Alludendo al contrasto tra il verde della coroncina di mirto e il manto dei capelli più biondi dell’oro, Alighieri rivela altrove: 
«Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba 
trae dalla mente nostra ogn’altra donna 
perché si mischia il crespo giallo e ‘l verde…». 
Le donne maritate sono meno osé e continuano a coprirsi col velo o ad avvolgere il capo, accuratamente rasato (per evitare i fastidiosissimi pidocchi) con larghe bende bianche che coprono pure la fronte e le guance fino al mento. I capelli sono ancora tra le parti del corpo che non è bene, per una signora, scoprire. 

Beatrice Portinari è rappresentata con l’acconciatura e abbigliamento tipico del XIII secolo in un quadro di Cesare Saccaggi (1903).

I capelli tornano a rivedere la luce del sole dalle teste delle dame francesi, le più frivole e spigliate d’Europa. C’è di che rallegrarsi gli occhi con un bel paio di trecce grosse e pesanti che scendono fino alle ginocchia o ancora più giù…  Molte gentildonne disseppelliscono la mania delle pettinature architettonicamente costruite (come nella Roma imperiale), imbottite con ciocche e trecce posticce. Dal pulpito con voce roboante Gilles d’Orléans fa tremare le donne: «Vedete le loro teste: portano i segni dell’inferno, portano le corna, i capelli dei morti!». 
Ma non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. La maggioranza delle signore oneste, che si fregiano dell’epiteto di “madonna” portano il monacale soggolo, una benda inamidata di candido lino che avvolge collo e mento, passa sotto la gola e scende sul petto. 
Semplici e pudiche le trecce glorificano la figura femminile. Il Trecento è il secolo d’oro delle trecce. Nei primi decenni del secolo le fanciulle trattengono i capelli con un vivace cerchietto in tessuto arrotolato intorno al capo, il frenello. Petrarca canta e decanta della sua Laura «le bionde trecce sopra il collo sciolte… e le trecce d’or che dovrien far il sole / d’invidia molta ir pieno». 
Le trecce esaltano la tendenza all’allungamento tipica del Gotico. Il biondo fa impazzire i poeti. In realtà, non è tutto oro puro quello che luccica in testa. Per averlo, le donne ricorrono a ogni sorta di intrugli e misture dei più svariati ingredienti. Si usano tinture a base di zafferano, succo di henné e ginestre, tuorli d’uovo. Tanti sono i rimedi per imbiondire i capelli. Francesco da Barberino ritiene che «il tenerli allo scoverto, e spezialmente al lume della luna, fa biondi i capelli». Bencivenni ne ha un altro: «Se voi volete i capelli imbiondire e farli belli e gialli, prendete fiori di ginestre… e li bollite in lisciva e colate, e poi ve ne lavate il capo». 
Le ricche signore non s’appagano d’intrecciare ai capelli ghirlande di rose, viole, garofani, fiori di timo e rosmarino, ma si cingono il capo con corone sempre più preziose, guarnite di gemme e perle, a volte anche d’oro zecchino. 
A Firenze, nel 1330, poiché le donne eccedono «in soperchi ornamenti di corone, ghirlande d’oro e d’argento, e di perle e pietre preziose, e reti e intrecciatoi di perle, e altri divisati ornamenti di testa di grande costo», si dispone con una legge suntuaria «che niuna donna non potesse portare nulla corona né ghirlanda né d’oro né d’ariento né di perle né di pietre né di seta, eziandio di carta dipinta, né rete né trecciere di nulla spezie se non semplici». 
Verso la metà del secolo, le donne sposate, ormai tutte a testa scoperta, portano trecce vere e finte arrotolate a chiocciola sulle orecchie. Spesso le raccolgono in una preziosa reticella d’oro o in seta, la crespina.  
Madama Vanità non risparmia le suore. Dovrebbero portare il velo severamente appuntato fino alle sopracciglia in modo da nascondere completamente la fronte. Eppure, nonostante i rigorosi richiami di sinodi e vescovi, sono non poche le religiose che alzano i veli e si scoprono la fronte. Qualche superiora, più audace, appunta spilloni d’oro nei capelli e porta anelli d’oro alle mani. 

Miniatura del Maestro dell’Incoronazione della Vergine , tratta da un manoscritto del De mulieribus claris di Boccace , 1403 circa, BNF

Vi sono donne che fanno le barbiere di professione e tagliano barba e capelli ai signori con eccessiva spigliatezza e disinvoltura, tanto che Francesco da Barberino nel suo Reggimento e costumi di donna, fra i tanti consigli, mette in guardia gli uomini dall’affidarsi a mani poco esperte o maldestre. 
«E prima ti dirò della barbiera, 
che tu ne truovi per camino assai. 
Se tu serai barbiera, 
attendi al tuo bagnare e al tuo rasoio; 
non fare atti né viste con coloro 
che vengon per radersi da te;  
né colle mani lavando usar malizia; 
e quando raderai per me’ la gola, 
non pensar tu d’attorno a vanitade». 

Nei lunghi secoli del Medioevo la Chiesa condanna i cosmetici e i trattamenti destinati alla bellezza del corpo ritenendoli strumenti diabolici, e vuole il viso della donna semplice e naturale.  
«Vid’io venir da lo specchio / la donna sua sanza ‘l viso dipinto»: così Dante fa dire nel Paradiso al suo trisavolo Cacciaguida riguardo a una gentildonna fiorentina del XII secolo. 
Sul finire del Duecento ricompare la lisciatura, come viene chiamato il trucco, e con la biacca viene di moda un rossetto molto dannoso, il bambagello. Cecco Angiolieri ci presenta la moglie tutta intenta alla toeletta mattutina, affascinante da far girar la testa agli uomini a operazione conclusa. 
«Quando mie donn’esce la man’ del letto 
che non s’ha post’ancor del fattibello, 
non ha nel mondo sì laido vasello, 
che, lungo lei, non paresse un diletto; 
così ha ‘l viso di bellezze netto; 
infin ch’ella non cerne al burattello 
biacca, allume scagliuol e bambagello: 
par a veder un segno maladetto! 
Ma rifassi d’un liscio smisurato, 
Che non è om che la veggia ‘n chell’ora, 
ch’ella nol faccia di sé ‘nnamorato». 
Nel XIV secolo i cosmetici sono di nuovo diffusissimi, soprattutto a Firenze. Franco Sacchetti vede nelle dame e donzelle della sua città le maestre insuperabili dell’arte del trucco. 
«Chi sono questi moderni dipintori e correttori? Sono le donne fiorentine. E fu mai dipintore, che sul nero, o del nero facesse bianco, se non costoro? E nascerà molte volte una fanciulla, e forse le più, che paiono scarafaggi; strofina di qua, ingessa di là, mettila al sole, e’ fannole diventar più bianche che ’l cecero. Serà una figura pallida e gialla, con artificiati colori la fanno in forma di rosa. Quella che per difetto, o per tempo, pare secca, fanno divenire fiorita e verde». 

In copertina. Aspetti di vita quotidiana femminile. La lavorazione del lino (Tacuina sanitatis, XIV secolo. Particolare).

***

Articolo di Florindo Di Monaco

Florindo foto 200x200

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.

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