Maria Grazia Cutuli, la giornalista di guerra che perse la vita in Afghanistan per amore della verità  

Era il 19 novembre del 2001 quando Maria Grazia Cutuli, 39 anni, giornalista del Corriere della Sera, veniva uccisa in Afghanistan, insieme con altri tre colleghi sulla strada per Kabul, mentre facevano il loro lavoro nelle condizioni più difficili, da cronisti e testimoni dei fatti pronti a raccontarli ai lettori. La giornalista nata a Catania e che in Sicilia aveva iniziato il mestiere, prima a La Sicilia poi a Telecolor e a L’Ora, morì a causa di diversi colpi alla schiena che le furono fatali. Era da un mese in Afghanistan e, negli ultimi giorni coprì la zona di Jalalabad con servizi anche sui covi di Al Qaeda distrutti dalle bombe americane, raccontando il ritrovamento di alcune fialette di “Sarin”, il terribile gas nervino che veniva usato dai terroristi giapponesi nel metrò di Tokyo. 

La vita, la carriera, la morte 
Nata in una terra bruciata dal sole e dalle mafie, proprio lì aveva iniziato il mestiere. Laureata con lode in filosofia all’Università degli Studi di Catania, iniziò la sua carriera come collaboratrice del quotidiano La Sicilia e dell’emittente televisiva Telecolor, per i quali si era occupata di spettacoli. Successivamente si trasferì a Milano, dove lavorò prima al periodico Centocose, edito da Mondadori, e poi a Epoca: proprio qui diventò giornalista professionista, iniziando poi una collaborazione con l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati. Grazie a questa esperienza maturò una conoscenza approfondita della politica estera, scoprendo che questa era la sua vera passione. A metà degli anni novanta passò al Corriere della Sera, dal quale ottenne quattro contratti a termine a partire dal luglio 1997, fino a essere assunta a tempo indeterminato il 2 luglio 1999. Era il 13 settembre 2001 quando – dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 di New York – venne inviata in Afghanistan. Si trovava in un convoglio con altri tre colleghi quando furono attaccati da uomini armati a 90 chilometri da Kabul. La Cutuli, 39 anni, era con il reporter dello spagnolo El Mundo, Julio Fuentes, con il cameraman australiano, Harry Burton, e il fotografo afgano Azizullah Haidari, entrambi dell’agenzia di stampa Reuters. Con loro c’era anche un interprete afgano. 
I funerali si sono tenuti a Catania il 24 novembre. Il corpo, sepolto al cimitero di Santa Venerina. Per il suo assassinio venne condannato a morte il 29enne Reza Khan. Sentenza eseguita, nonostante il parere contrario della famiglia della reporter, nell’ottobre del 2007. Altri due cittadini afghani, Mamur e Zan Jan, furono condannati nel novembre 2018 in appello a 24 anni di reclusione. Alla memoria della giornalista è stata dedicata una scuola mista vicino Herat. 

Carlo Verdelli, oggi editorialista del Corriere ma all’epoca vicedirettore del giornale, ha lavorato con Maria per molto tempo e proprio durante il suo periodo in Medio Oriente. La racconta così, in una lettera aperta pubblicata sul Corriere il 20 novembre 2018, a 19 anni dalla morte della reporter: 
«È passato così tanto tempo, Maria Grazia, ma a me continua a sembrare che quella telefonata l’abbiamo fatta oggi. È stata l’ultima volta che ci siamo sentiti, prima che ti sparassero alla schiena ai bordi di una strada che da Jalalabad doveva portarti a Kabul, Afghanistan, prima guerra dopo le Torri Gemelle, prima tua trasferta importante da inviata del Corriere della Sera. Eri appena riuscita a entrare in una madrasa e a raccontare, unica occidentale, il clima acceso che in quei giorni di furore agitava le scuole islamiche. Ti chiamai per complimentarmi ma anche per concordare il tuo ritorno in Italia. Eri lì già da un paio di settimane, un collega era pronto a partire per sostituirti. Lo scontro con i talebani sarebbe andato avanti per mesi e ci eravamo organizzati con un sistema di staffette. Cominciai col chiederti come stavi. 
«Benissimo. Sto lavorando a una storia forte, un deposito di gas nervino in una base di Osama bin Laden». 
«E quando l’avresti pronta?». 
«Per adesso è solo una traccia, ho ancora bisogno di tempo. Ma ce la faccio, vedrai che ce la faccio». 
«Stai molto attenta, Maria Grazia, ma tanto. Comunque passa gli appunti a chi ti darà il cambio. Hai il volo lunedì, giusto?». 
Ci fu un silenzio lungo, come se fosse caduta la linea
«Maria Grazia, ci sei ancora? Mi senti?» 
«Sì, ti sento, ma devo chiederti una cosa». 
«Dimmi pure» 
«Ho compiuto gli anni, sai. Trentanove». 
«Allora auguri. Torna che ti concedi una festa come si deve». 
«È proprio questo il punto. Ecco, mi piacerebbe un regalo, non so come dirtelo diversamente. Sì, un regalo». 
«E cioè?». 
«Lasciatemi qui ancora un po’, cancellate il volo. Non posso venire via proprio adesso. Ti prego, un paio di settimane ancora»
«Non se ne parla. Hai fatto la tua parte, ora tocca a un altro. Quando è il momento, ripartirai per Kabul». 
«Perdonami se insisto ma è importantissimo per me. Dammi fiducia. Il regalo per il mio compleanno. Non me ne importa niente della festa, non farò nessuna festa. Fatemi seguire quella pista. Sento che è giusta, sarà un gran colpo per il giornale. Dai, cazzo, per favore». 
Conoscevo Maria Grazia Cutuli da quando in Mondadori, prima a Centocose e poi a Epoca, aveva cominciato a mostrare un’insofferenza crescente per tutto ciò che le impediva di dedicarsi alla passione unica che l’accendeva: precipitarsi dove la terra brucia, capire i fuochi, raccontare i tormenti della gente, le ferite, i dolori. Bosnia, Ruanda, Cambogia, Iraq. Se non ce la mandavano, era capace di prendersi le ferie e di andarci a spese proprie. Una specie di febbre priva di vaccino, che lei per prima non si sognava di curare e che anzi coltivava, aumentando le esperienze sul campo e raffinando le conoscenze. Quando nel 1997 arrivò al Corriere, con una serie di contratti a tempo, vita e mestiere già coincidevano fino a sovrapporsi, a confondersi. Che importanza poteva avere un compleanno nella sua Catania, o con gli amici di Milano dove ormai viveva, rispetto a essere sulla scena madre del mondo, in quel novembre 2001? Esserci non tanto per dire di esserci stata. Esserci per onorare la presenza con un più di giornalismo, e quindi con un più di rischio. 
Hai ottenuto il regalo, Maria Grazia. L’ultimo articolo che hai scritto è stato proprio quello sul gas nervino. Poi una banda di assassini con lunghe tuniche, barbe e turbanti ti ha catturata in un agguato insieme ad altri tre colleghi, nessuno italiano. Stavi sulla macchina che guidava una colonna di reporter e fotografi. Vi hanno fatti scendere. Pare che tu sia stata la prima ad essere uccisa. 
A distanza di 19 anni, come se ancora fosse oggi, non mi perdono di averti detto sì l’ultima volta che ci siamo sentiti per telefono». 

A Maria Grazia non importava niente dei compleanni, delle feste, sentiva dentro di sé il bisogno di essere parte integrante di una realtà che doveva essere raccontata, che non poteva essere ignorata. La Cutuli rimane uno degli esempi più forti di una professionista che ha dato la vita per ciò in cui credeva, senza pensarci nemmeno un secondo. Se oggi ci rendiamo conto che il giornalismo con i suoi rappresentanti è diventato un banco al mercato, dove si fa a gara a chi urla di più per vendere il pesce, la storia di Maria ci dice come invece dovrebbe essere il nostro mestiere: fatto di domande, racconti, a volte rischio, ma passione. Senza passione, ogni cosa muore, si spegne, si accartoccia su sé stessa. Maria ce lo ricorda, a vent’anni dalla sua morte, oggi più forte che mai.  

Più proiettili alla schiena: sarebbe stata uccisa così Maria Grazia Cutuli, è quanto emerge dall’autopsia sul cadavere eseguita dai medici legali dell’Università La Sapienza di Roma incaricati di stabilire le cause della morte. Nella schiena della ragazza, secondo quanto si è appreso, sono stati trovati numerosi frammenti metallici: segno, questo, che la donna è stata colpita da più proiettili. Sul cadavere, inoltre, i medici legali avrebbero riscontrato l’assenza di tracce di violenza, ma alcuni ematomi che gli stessi esperti attribuiscono alla caduta in terra di Maria Grazia dopo la sparatoria. 
Dalle prime indiscrezioni sembra escluso che la giornalista sia stata colpita alla nuca. L’esame autoptico è cominciato verso le 16 ed è durato quattro ore: per prima cosa sono intervenuti gli agenti della polizia scientifica per i rilevamenti fotografici e dattiloscopici. Si è passati poi all’esame esterno, condotto in prima persona dal direttore dell’Istituto di medicina legale Paolo Arbarello e dai professori Giancarlo Umani Ronchi e Costantino Ciallella. Era presente anche il direttore dell’istituto di medicina legale dell’università di Tor Vergata, Giusto Giusti. La salma è poi partita alla volta di Catania a bordo di un aereo privato Saab Cargo, messo a disposizione dal quotidiano milanese. Accompagnavano le spoglie della giornalista uccisa in Afghanistan i fratelli Mario e Donata, l’inviato del Corriere, Felice Cavallaro, e la giornalista catanese Michela Giuffrida, inviata di Telecolor, la tv regionale dove Maria Grazia aveva iniziato la sua carriera. 

Slargo Maria Grazia Cutuli, Catania. Foto di Giovanni Savio

Ad attendere le spoglie della giornalista, della famiglia c’erano gli zii, Nanda e Nando D’Amore, con al fianco la giunta comunale quasi al completo, guidata dal vice sindaco Raffaele Lombardo: «Siamo qui per testimoniare il cordoglio della città, per stringerci attorno ai familiari di Maria Grazia Cutuli, che è stata una cittadina che ha avuto grandi meriti professionali e umani perché è stata sempre impegnata anche nella difesa dei diritti dei più deboli», ha detto Lombardo e ha ricordato che a lei sarà intitolata la Casa dei Popoli, una struttura sociale per immigrati. 

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Articolo di Elisa Mariella

Giornalista professionista dal luglio 2016, appassionata e cultrice della lettura e della letteratura in ogni sua sfumatura. Moderatrice presso l’Aurelia Books.

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