Il labirinto delle perdute

Si intitola Il labirinto delle perdute l’ultimo lavoro di ricerca e scrittura di Ester Rizzo che Navarra Editore ha pubblicato per le Officine.  
Il mito racconta che il labirinto è una struttura drammaticamente ingegnosa e complessa in cui si entra ma da cui non si riesce più a uscire; una prigione fatta di intrecci di corridoi, biforcazioni e svolte in cui è facile perdersi e da cui ci si salva solo grazie a un filo lungo e tenace che dall’ingresso giunge al cuore della struttura. In un labirinto fatto di memorie mancate e racconti omessi Ester Rizzo è voluta entrare svolgendo il suo filo di parole e narrazioni. Una moderna Arianna decisa a recuperare alcune delle tante figure femminili che la storiografia ufficiale e i suoi molti cantori hanno nascosto. Nei meandri del labirinto queste donne sono state spinte in maniera intenzionale, con logica spietata e secondo «un perfido disegno ‒ spiega l’autrice ‒ che le vuole a tutti costi sottrarre alla conoscenza», siano esse vittime di violenza fisica o morale, donne ribelli e battagliere o perseguitate da pregiudizio e oscurantismo. Artefice del solido labirinto è stata la cultura patriarcale con le sue leggi, le sue imposizioni, le sue prescrizioni. 
Una moderna damnatio memoriae si è abbattuta su Teresa Meroni, Tecla Burdassi, Natalina Quercioli, Erina Branchi, Teresa ed Elvira Denti, Rosa Cecchi, Maria Polidori, colpevoli di aver manifestato, insieme a molte donne e a molti uomini, contro l’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Nel 1915 in Val di Bisenzio in Toscana – ma le manifestazioni si ripeterono ovunque in Italia ‒ queste donne urlarono il loro no alla guerra, la loro contrarietà a quel massacro annunciato. E continuarono a urlare anche dopo il 24 maggio del 1915 quando la guerra, più lunga e sanguinosa di quanto la retorica di Stato avesse raccontato, portò alla scarsità di generi di prima necessità e all’aumento dei prezzi. Gridavano il loro dolore e la loro rabbia in un misto di tragedia familiare e lotta di classe, lanciavano pietre e improperi contro le forze dell’ordine, pagarono con il carcere e, in seguito, con l’oblio. Di cosa erano colpevoli? Di essere irriducibilmente non interventiste, di non credere nell’azione bellica come via risolutiva nelle questioni internazionali, ma soprattutto di non aderire al modello della donna-madre-moglie austera, silente e ossequiente capace di sopportare ogni forma di dolore per la morte degli uomini al fronte.  
Alle voci urlanti nel libro si contrappone il mutismo doloroso delle donne vittime di stupro da parte dei militari, vinti o vincitori, di tutte le guerre, da quelle più antiche alle più recenti. Un silenzio tragico nato dall’impossibilità di trovare anche una sola sillaba «per descrivere la ferocia subita», donne «intente a recuperare in silenzio i cocci dei loro corpi e delle loro menti straziate». Sono state milioni le vittime di stupro nel corso di tutte le guerre, in ogni tempo e in ogni regione del mondo; donne perseguitate sul cui corpo si sono svolte battaglie per ribadire «il potere della forza» dei vincitori e perpetrare la vendetta dei vinti. 
Al mutismo delle tante vittime di violenza durante la Prima e la Seconda guerra mondiale si è sommato il silenzio dei loro familiari, che hanno preferito tacere piuttosto che raccontare e denunciare l’orrore: la cultura patriarcale trasformava quelle violenze in grave offesa all’onore e all’onorabilità delle famiglie e dell’intera comunità. Tacere era meglio che essere emarginate, nel silenzio si individuava una possibile via per cercare di dimenticare. Anche le istituzioni avrebbero preferito il silenzio alle cronache su quei crimini di guerra, come ha testimoniato la Madre Costituente Maria Maddalena Rossi che nelle aule parlamentari svelò la tendenza generale a voltare la testa da un’altra parte. «So che vi è chi si finge scandalizzato perché noi prendiamo la difesa di queste donne […] credo piuttosto che ci si debba scandalizzare perché vi è […] chi vorrebbe coprire questa piaga». La nazione italiana era pronta a far proprio il dolore delle donne colpite dalla morte di un/una familiare, ma era incapace a dare consolazione a chi aveva subito violenza. «Per queste non c’è conforto possibile. Si devono nascondere come se si sentissero infette anche moralmente. A queste donne si vorrebbe vietare di parlare della loro sventura, di riunirsi, di reclamare, in nome della pubblica moralità» denunciò con vigore Maria Maddalena Rossi. 
L’orrore non ha confini né tregue. Agli inizi degli anni Novanta del Novecento il mondo seppe che una parte del conflitto dell’ex Jugoslavia venne combattuto sul corpo delle donne. Gli stupri di gruppo avvennero ovunque, tutte le parti in lotta agirono con violenza sui corpi femminili, anche se le azioni organizzate dall’esercito serbo seguirono la pianificazione di una vera e propria pulizia etnica. Furono soprattutto “Le donne in nero di Belgrado”, un’associazione femminile serba, a impegnarsi dopo il conflitto perché la spessa coltre dell’oblio non coprisse tanta brutalità. Furono soprattutto loro a volere nel 2015 il Tribunale delle donne per raccogliere le numerose testimonianze delle vittime e «il dolore per l’impunità dei torturatori e per la misoginia delle istituzioni». Con infiniti recettori sulla pelle, nel cuore e nella mente, le donne della parte nemica sentirono e capirono lo strazio inflitto alle altre donne in un’empatia di genere che le rese sorelle. 
Il lungo filo che Ester Rizzo svolge nella sua narrazione unisce in un’unica drammatica condizione le donne afgane, le bambine asiatiche in Cina, Pakistan, India e Bangladesh, dove i rapporti demografici contano cento milioni di esseri femminili in meno ‒ l’equivalente di un’intera nazione popolosa composta unicamente da bimbe nate e subito scomparse ‒ e le donne di Colle Urlante, nella provincia cinese dello Shanxi, «trattate come macchine per procreare». Realtà fatte di rigide strutture patriarcali, fanatismi religiosi, superstizioni, sofferenza, ignoranza, povertà a creare una sorta di “fine pena mai” come condanna al reato di essere nate femmine. 
Nella trama di storie collettive e vicende individuali del libro, l’autrice attraversa i secoli e si muove in regioni diverse del mondo, alcune molto vicine a noi altre ben più lontane. Le creature della sua narrazione sono state divorate da quattro grandi buchi neri: oblio, violenza, perdita dell’onore e pregiudizio. Sono scomparse dalla memoria le contadine siciliane che combatterono per l’occupazione delle terre incolte, donne scomode e sconvenienti che «sparigliavano le carte» in una partita politica che le avrebbe volute silenziose e acquiescenti. Sono state trascinate nel buco nero dell’oblio anche le pescatrici delle Eolie, le donne della Rivoluzione Francese, l’esploratrice britannica Gertrude Bell e le vicende di Livia De Stefani, scrittrice siciliana che «pi esseri ‘na fimmini, bona arraggiuna», come affermava un capomafia. Il buco nero della perdita dell’onore ha risucchiato in un vuoto di memoria Leonie D’Aunet, prima donna a raggiungere Capo Nord ma più nota per essere stata l’amante di Victor Hugo, le prostitute dei “casini di guerra” o quelle che esercitavano al di fuori delle case chiuse e che le autorità definivano “Veneri vaganti”. Infine le streghe, perdute negli abissi atavici del pregiudizio, cancellate dalle «fiamme appiccate da ignoranza e paura. Arse vive perché “sapienti”». Tutte storie diverse fra loro che hanno come denominatori comuni la paura e l’ostilità verso tutte quelle donne «che osano reclamare libertà e autonomia. Il mondo le ha sempre temute e ha tentato di cancellarle senza capire di quanta ricchezza e umanità è rimasto orfano». 
Ester Rizzo scrive nell’introduzione che il suo lavoro vuole essere «una traccia su cui camminare per cercare le altre ancora perdute». Il ricco elenco bibliografico e sitografico è un invito a farlo. Ma come commenta nella prefazione Marinella Fiume, altra attenta studiosa di storie e anime femminili “perdute”, le fonti per riuscire a riportarle alla luce non sempre sono quelle tradizionali. È necessario rovistare e indagare negli archivi di Polizia, in quelli dei tribunali, dei manicomi e dei conventi, negli archivi di famiglia e nei carteggi privati. «Per questo salvare il salvabile è per noi donne un’impresa che ha che fare con la sfera etica, un valore da trasmettere alle generazioni future». Non resta che sottoscrivere e cominciare a cercare. 

Ester Rizzo
Il labirinto delle perdute
Navarra Editore, Officine, Palermo, 2021
pp. 192

***

Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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