Fantascienza, un genere (femminile). Pat Cadigan

«Avevamo inventato una vita segreta integrale nella quale eravamo gemelle dal pianeta Venere»; il soggetto rinvia alla scrittrice di science fiction Pat Cadigan e a Rosemarie De Caria, bambine che nel 1960 avevano sei o sette anni: grazie alla propria straordinaria natura di «shape-shifting» (mutaforma), le piccole godevano di un rapporto privilegiato con i Beatles, allora gli esordi della carriera e già assai celebri, ai quali talvolta si sostituivano durante concerti e registrazioni. 

L’adorabile confessione si deve alla stessa Pat Cadigan, risale a un’intervista del 2010 (quando l’amica d’infanzia è scomparsa da tempo e certamente − «I’m sure of it» − è ora su Venere) e dimostra due tratti forti della personalità di Patricia (questo il nome all’anagrafe): «una vita mentale terribilmente attiva» − pari a quella Allie, protagonista di Mindplayers – e l’amore per la musica, fondante nella vita di lei, perché «c’è un mondo multimediale, là fuori, e ti tocca usare tutti i tuoi sensi» (da una lunga intervista del 1993), per comprenderlo, sezionarlo e ricomporlo come fa l’autrice nei suoi testi. 

Patricia Oren Kearney nasce il 10 settembre 1953 a Schenectady, New York, ma trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Fitchburg, Massachusetts. Appartiene a una famiglia molto povera: «ero una studente molto intelligente che viveva nella parte sbagliata della città, e un sacco di bambine e bambini dotati che crescono in luoghi deprivati non ne escono mai. Sei giudicato dal tuo indirizzo». Parole di una bella intervista del 2000, nella quale aggiunge di aver frequentato il college grazie a una borsa di studio, opportunità improbabile per una ragazza, per la quale, nel 1970, non vi era la possibilità, ad esempio, di essere ingaggiata nella squadra di calcio universitaria e avere accesso agli studi: la forte consapevolezza di genere è un’altra delle caratteristiche di Pat Kearney, come donna e come scrittrice. 

Frequenta dunque l’Università di Amherst, Massachusetts, ove studia teatro e conosce il primo marito, Rufus Cadigan, e l’Università del Kansas, ove segue il corso di scrittura di fantascienza con James Gunn, autore e didatta del genere, laureandosi nel 1975. L’anno successivo, la 34a Convention mondiale di fantascienza si tiene a Kansas City, Missouri: il compito di ospitare il grande Robert Heinlein tocca proprio a Pat, che sceglie di dedicare creatività ed energia alla science fiction, lavorando prima in Nickelodeon Graphics per lo scrittore Tom Reamy, fino alla prematura morte di lui nel 1977, poi impiegandosi come autrice ed editor in Hallmark Cards e al contempo curando le riviste Chacal e Shayol con il secondo marito Arnie Fenner (dal quale ha un figlio, Rob). Inizia a pubblicare racconti nel 1978 e a riscuotere consensi qualche anno più tardi, quando alcuni suoi testi sono candidati per l’assegnazione dei celebri Nebula e Hugo Award (che tuttavia, per decenni, non vince). 

Pat Cadigan in una fotografia di autore non noto scattata intorno alla metà degli anni Ottanta 

La produzione di Pat Cadigan in ambito fantascientifico è ampia ma non  smisurata: i romanzi Mindplayers (1987), Synners (1991), Fools (1992), tutti tradotti in lingua italiana ma di non facile reperibilità; i due romanzi della serie di Dore Konstantin Tea from an Empty Cup (1998) e Dervish is Digital (2000), che hanno per protagonista un’agente della futuribile TechnoCrime – Artificial Reality Division; nonché media novelizations e companion novels, ovvero trasposizioni in romanzo di serie televisive o pellicole cinematografiche e testi di accompagnamento a queste, pubblicati soprattutto dopo che nel 1987 l’autrice si dedica alla scrittura a tempo pieno; e, naturalmente, oltre un centinaio di testi di misura più contenuta, romanzi brevi e racconti, i primi pubblicati a sé, i secondi su rivista o ancora confluiti principalmente in due raccolte che ne comprendono complessivamente una trentina, Patterns (1989) e Dirty Work (1993), tradotti in Italia in ordine sparso e non sempre pubblicati in modo decoroso.

Roadside rescue (1985) è compreso nell’antologia Urania Millemondi Estate 1998 Fantasex. Racconti erotici e amori alieni, con il titolo Soccorso stradale, che traduce pressoché alla lettera l’originale; non del tutto convincente, in particolare nella resa della creatura da un altro mondo, il racconto presenta tuttavia alcune caratteristiche che diverranno costanti nella produzione di Cadigan: oltre alla narrazione in prima persona (in questo caso la voce è maschile, in altri femminile), compaiono l’innesto per comunicazioni simbiotiche tra umani e alieni; la perversione di nutrirsi (e godere) della paura e della rabbia dell’altro, con la consapevolezza che sono questi gli stati emotivi che più spesso portano a commettere crimini e aberrazioni; l’ambiguità di genere e la complessità di ciò che è considerato o meno pornografia (e di cui comunque «la gente ha bisogno»). 

Più maturo Angel (1987), apparso nell’antologia Urania Millemondi Inverno 1998 La macchina che uccide. I crimini del futuro raccontati dai grandi maestri, con il titolo Angelo, a marcare l’ambiguità tra nome proprio e creatura celeste che percorre il testo, nel quale il protagonista è un essere alieno e reietto che affianca per un tempo indeterminato l’io narrante, umano eppure altro di cui inizialmente è celato il genere (si rivela poi androgino): un essere capace di sdoppiarsi in ‘Angelo’, il compagno di strada, e ‘l’Angelo’, la creatura salvifica che sa ottenere con la dolcezza dagli altri, se non tutti quasi, ciò che occorre per la quotidiana sopravvivenza o poco più. E tuttavia la capacità di Angelo ha un che di inafferrabile e perverso: «È l’intensità, non se è buono o cattivo. L’universo non conosce il buono o il cattivo, solo il più o il meno», afferma Angelo, e ancora: «Né giusto né sbagliato […]. Solo energia, come il resto dell’universo». Un vampiro che beve energia, trasferito su Terra per aver commesso uno dei «crimini che non si capiva cosa fossero», un vampiro che dà piacevole dipendenza, al quale accompagnarsi nella discesa nella notte, in un’atmosfera distorta di squallore e degrado, una Walk on the Wild Side (il leggendario pezzo di Lou Reed inciso nel 1972, caro a Pat Cadigan), una passeggiata trasgressiva nel «lato oscuro non solo della nostra società, ma di tutti noi». 

Copertina dell’album di Lou Reed Transformer (1972); Walk on the Wild Side è il quinto (e ultimo) pezzo del lato A del vinile 

La raccolta presenta diciotto racconti di altrettanti autori: Pat è l’unica donna. Ed è l’unica donna − con il testo Rock on − anche all’interno di Mirrorshades (1986), l’antologia a cura di Bruce Sterling che a sua volta comprende undici racconti di altrettanti autori e che è considerata il manifesto del filone cyberpunk, o meglio della sensibilità cyberpunk. 

Cyberpunk è parola anglosassone che nasce negli anni Ottanta del secolo scorso dalla fusione di due lemmi, pure anglosassoni: cyber (innesto tra umano e macchina a diversi gradienti, anni Sessanta) e punk (dozzinale e trasgressivo in modo ostentato, anni Settanta). Il termine indica «un vasto e ramificato evento culturale che meglio di qualsiasi altro è in grado di interpretare il paesaggio globale, multiforme e tecnologizzato, nel quale vive l’umanità alle soglie del 2000, dall’intelligenza artificiale all’ingegneria genetica, dalle reti informatiche alla realtà virtuale» (Piergiorgio Nicolazzini).

In diverse occasioni, Pat Cadigan rifiuta l’etichetta cyberpunk, non in quanto tale ma in quanto etichetta, con motivazioni che è opportuno esplicitare per non incorrere in grossolane semplificazioni: «Non voglio necessariamente essere ingabbiata, perché quando il cyberpunk sarà superato, non voglio essere percepita come tale. Tecnicamente, non sono cyberpunk. Scrivo di cose cyberpunk ma non perché sono cyberpunk. Scrivo cose che interessano a me», così nell’intervista del 1993 nella quale, poco dopo, aggiunge che il corpo delle donne da sempre è invaso dalla tecnologia (maschile), con riferimento al controllo delle nascite, ovvero alla pillola contraccettiva e alla sterilizzazione temporanea. In altra intervista del 2006 – quando ormai il filone si è dissolto, o integrato, all’interno dei generi science fiction e mainstream (temi come la realtà virtuale o la trasformazione del corpo sono diffusi e trasversali) – afferma di non aver mai voluto scrivere intenzionalmente cyberpunk, piuttosto di essere «sempre stata interessata dall’impatto della tecnologia sugli esseri umani» e di aver scritto di questo, considerando anche che quando il genere aveva esordito «il computer desktop era ancora un’idea piuttosto nuova. Ora tutti ne hanno uno» e dunque «il cyberpunk non è morto, è solo molto più parte dell’esistenza quotidiana di tutti». Ancora una volta, poi, Cadigan effettua un interessantissimo affondo nelle politiche di genere: alle giovani donne che negli anni Duemila dichiarano di non essere femministe e che, pur essendo single, possiedono una casa, un’automobile, un lavoro e che per avere una carta di credito non hanno bisogno della garanzia di un padre, un marito, un fratello, Pat oppone che questo è possibile «perché il femminismo ha cambiato la cultura»: lei, invece, nata nel 1953, nel 1977 non poteva ottenere una carta di credito senza che il marito cofirmasse la richiesta.

Copertina della prima antologia cyberpunk Mirrorshades, a cura di Bruce Sterling, Arbor House 1986 

Mindplayers viene pubblicato nel 1987: è un romanzo ostico, di lettura non agevole (per quanto ben tradotto da Nicoletta Vallorani per ShaKe Edizioni Underground nel 1996), ma molto, molto bello, originale e profondo. È il primo romanzo di Cadigan, scritto con determinazione quando l’autrice ha ancora un lavoro a tempo pieno e un bimbo piccolo: è finalista al Philip Dick Award e in effetti il debito culturale nei confronti del grande visionario è evidente (non solo il celebre romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep, 1968, ma anche il commovente racconto Mr. Spaceship, 1953); oltre a Dick, Pat menziona tra i propri modelli di riferimento Ray Bradbury (si veda per esempio il bellissimo racconto I Sing the Body Electric!, 1969) e James Ballard (in particolare The Atrocity Exhibition, 1970); non solo fantascienza tra le letture considerate illuminanti, ma anche Daniel Dennett (filosofo della scienza, della biologia, della mente) e Brenda Laurel (creatrice di video game, sostenitrice dell’inclusione e della diversità).

La vicenda si svolge in Kansas (è menzionata la città di Wichita), in un futuro indeterminato e allucinato nel quale sono portate alle estreme conseguenze la manipolazione e la ricostruzione dei corpi («Alla fine, si vede di tutto: tutti i modi con cui le persone giocano con i propri corpi. Verniciature, decolorazioni, certi tipi di trapianti, alterazioni che sono al limite della mutilazione») e delle menti, a fini edonistici o terapeutici («Certe persone volevano essere qualcuno, certe persone non volevano essere nessuno, certe persone volevano essere tutti e certe persone volevano che tutti fossero loro. Una cosa dannatamente complicata»). Protagonista e voce narrante è Allie, Alexandra Victoria Haas, giovane tossica che, in compagnia dell’amico pusher Jerry Wirerammer – anima nera e giocosa che appare, si inabissa e riemerge lungo tutto il romanzo, sperimenta per la propria psiche brividi illegali e per questo è catturata dalla Polizia Mentale e posta di fronte alla scelta (obbligata) tra la detenzione dura e la formazione come mindplayer, terapeuta che grazie a un’interfaccia tra cervello e computer può accostare la propria mente a quella del/la paziente (oppure entrarvi?) per rintracciarne le ragioni del disagio, medicarle e rimuoverle. Il procedimento di connessione è scenografico: consiste nel cavarsi letteralmente gli occhi, e nel cavare quelli di chi si sottopone alla cura, per stabilire il contatto (per questo quasi tutti gli esseri umani hanno ormai occhi artificiali: «Gli occhi organici non sono fatti per essere tirati dentro e fuori e ben presto ti troveresti con un paio di uova marce che danneggerebbero il tuo nervo ottico»); ancora, i mindplayers possono specializzarsi in diversi rami terapeutici, dunque Allie può divenire «cacciabrividi, operatrice alla campana, potenziatrice di sogni, cercatrice di pathos, venditrice di nevrosi […]. Stabilizzatrice di realtà». La giovane, poi soprannominata «La Sfinge» per la propria imperturbabilità, diviene cercatrice di pathos, impiegata per ricercare emozioni sotterrate nella mente di artisti. Questa la cornice dell’opera, nella quale si inseriscono i “quattro passi nel delirio” compiuti da Allie in altrettanti cervelli di pazienti donne e uomini che le vengono assegnati dalla corporation in cui è assunta: lo scrittore Marty Oren (con la moglie Sudella Keller), la poeta Kitta Wren (defunta e in dissoluzione), il musicista Rand Gladney (“succhiato” da malviventi, ovvero derubato della propria psiche spezzettata e rivenduta, e rigenerato), i compositori Jord Coor e Revien Lam (le cui menti sono state prima congiunte poi divise). Cadigan è magistrale nella descrizione dei mondi onirici ossessivi e bizzarri con cui Allie entra in contatto, alterando gli stati di coscienza propri e altrui in atmosfere che evocano la dimensione dello spazio interiore ballardiano. Quattro pazienti, quattro percorsi, quattro racconti che vanno a comporre il romanzo; quattro esperienze dalle quali Allie riemerge (il che non è scontato) profondamente mutata: «Si viene trasformati, inquinati, macchiati, colorati, alterati. E non si è mai più gli stessi», si rischia di essere fagocitati, inglobati dalla mente, dalle menti con cui si entra in contatto, di sprofondare nell’abisso della loro follia: per questo, come avverte l’amica Fandango, è necessario che le e i terapeuti si proteggano grazie alla vita personale, bene intimo e prezioso, che la protagonista, invece, si nega per buona parte della storia. Una protagonista che pure è una donna credibile e reale, con i suoi amori, le sue sofferenze, le sue relazioni amicali e lavorative; sono ben riusciti i personaggi dei mentori che la affiancano, dal legale Paolo Segretti, all’amico d’elezione McFloy, al terapeuta e marito Jascha, al manager Nelson Nelson, ma tra tutti è indimenticabile Jerry Wirerammer, che fa commercio, legale e illegale, di sé, della propria immagine, della propria mente, fino alle estreme conseguenze: «Esisto ancora, in qualche modo. Qua e là. Non so bene cosa succeda là, naturalmente, ma comunque sono qui. Non totalmente, voglio dire, ma quasi totalmente: è uno strano tipo di esistenza, ma funziona».

Altra caratteristica della prosa di Pat Cadigan − costruita mediante frasi brevi e sincopate, espressioni idiomatiche e gergali, repentini cambi di prospettiva – è la capacità di creare ambientazioni memorabili: ancora the wild side, il lato oscuro della metropoli, bassifondi squallidi e quartieri malavitosi, ai margini di una notte claustrofobica e senza fine, nella quale, se non piove sempre come in Blade Runner, la luce non sa comunque aprirsi un varco, una notte che pullula di una bizzarra fauna (umana?), in cerca di piaceri e illusioni. Non un solo elemento della natura nel paesaggio di Mindplayers: «Mio marito, Chris, e io non potremmo sopravvivere al di fuori di un’area urbana. Più cemento! Più edifici! Più persone! Più mattoni!», dichiara l’autrice nel 2000, quattro anni dopo essersi trasferita dagli Stati Uniti a Londra.

Pat Cadigan nel fotogramma di una ripresa video effettuata nel corso della conferenza Seduced & Abandoned:
The Body in the Virtual World
 (ICA conferences, 12 marzo 1994) 

La medesima ambientazione desolata e opprimente si trova in Fool to believe, romanzo breve del 1990, tradotto e pubblicato in Italia nel 1994 all’interno di una monumentale antologia cyberpunk per la cura di Piergiorgio Nicolazzini, con il titolo (da interpretare alla lettera) Chi credi di essere? La protagonista − il personaggio che dice io – è ancora una volta una giovane donna (forse) borderline: innesti cerebrali, realtà alternative, ricordi indotti rimescolano i piani narrativi disorientando chi legge che, tuttavia, nonostante ambiguità e ripensamenti interpretativi, giunge alla fine della vicenda con la certezza di trovarsi a riflettere su un piccolo capolavoro, ove universo virtuale e mondo reale si mescolano e si rimescolano. Le personalità che convivono all’interno dell’io narrante sono due, anzi tre: Mersine, agente della Polizia Mentale incaricata di risolvere un caso di “succhiamento” di cui è vittima un artista emergente, la cui mente ridotta in frattaglie è duplicata, rivenduta e scaricata in altre, avide di riceverne un pezzetto; Marya, coatta poco avvenente e violenta, innestata come copertura nella psiche di Mersine, che non sa di essere tale e si crede autentica; e Marceline, che emerge a storia quasi conclusa, forse per scioglierla, o forse no, perché nulla è come sembra una pagina prima, un rigo prima, e nonostante l’espediente di individuare le tre anime della protagonista mediante caratteri tipografici diversi, il risultato è quello dello straniamento più assoluto, al quale contribuisce un coro di uomini, donne, androgini, più che improbabili: Carotone, Ercole, Bikini di Pelliccia, Smoking Viola, Capelli Stopposi… (a proposito, forse questa umanità tanto improbabile non è: un viaggio sulla metropolitana milanese intorno a mezzanotte ne è la prova).

Pat Cadigan in una fotografia di autore non noto scattata forse nei primi anni Duemila 

Home by the sea (1991, La casa sul mare) testimonia la contaminazione dei generi horror e weird con la science fiction operata da Cadigan. «Di questo si tratta: l’universo ha dato le dimissioni»: il tema della fine del mondo e del conseguente smarrimento di un’umanità senza domani genera un catalogo di orrori che compete con le torture praticate dai sedicenti scienziati nazisti sulle persone internate nei campi di sterminio; nel rendere esplicite mutilazioni e sevizie, Cadigan talvolta si ferma appena prima dell’eccesso, talvolta no, e questo non giova al testo. L’idea centrale, che ricorre in più racconti dell’autrice, è quella del vampirismo, del nutrirsi dell’altro, o dell’altra, che finisce per acconsentire alla lenta perdita di sé, con rassegnazione ma anche con un brivido di piacere; il testo è memore di alcune delle avventure più cupe di Northwest Smith, scaturite dalla penna della grande Catherine Moore, ma risulta infinitamente più splatter e non è tra i più riusciti di Pat.

Synners (1991) è stampato in Italia nel 1998 con il titolo Sintetizzatori umani: l’edizione è purtroppo irreperibile nelle biblioteche pubbliche (ahinoi, il pregiudizio sulla fantascienza!) e ha raggiunto sul mercato alternativo quotazioni importanti, che possono pregiudicarne l’acquisto. Massimo Citi, in una bella recensione apparsa su librinuovi.net il 1° settembre 2015, lo definisce «un romanzo di valore assoluto». La sinossi è indubbiamente accattivante: «I Synners sono individui capaci di innestarsi direttamente sulla rete telematica e produrre video musicali “espressione diretta dell’attività onirica”. Ovviamente la scoperta, frutto del lavoro di una piccola casa indipendente, viene subito monopolizzata da una colossale major che non si preoccupa più che tanto di verificarne eventuali rischi ma cerca di sfruttarla il più rapidamente possibile, puntando sulle possibili applicazioni erotiche di una connessione che permette di trasformare le fantasie sessuali in realtà virtuale». Nella società del capitale senza freni business is business, sembra suggerire Pat Cadigan, al di là di ogni implicazione etica.

Copertine dei primi tre romanzi di Pat Cadigan, da sinistra: Mindplayers, Gollancz 1988; Synners, Grafton 1991; Fools, Spectra 1992 

Fools (1992), apparso in Italia nel 2000 con il titolo Folli, è il terzo romanzo dell’autrice e costituisce l’estensione di Fool to believe, di cui espande l’intreccio, rimasto essenzialmente il medesimo, ambientato in una dimensione ingannevole che sfuma e muta continuamente. Un altro testo di ardua lettura, che premia chi si avventura tra le sue pagine e che tuttavia non può fare a meno di solidarizzare con il recensore del New York Times Gerarld Jones, quando scrive che «per la sua incomprensibilità» l’opera ha «pochi rivali nella moderna fantascienza». E prosegue: «Cadigan racconta la storia in prima persona; la domanda è “Quale persona?” […]. La vicenda ruota intorno a qualcuno chiamato Marva o Marceline o Mersine o Marya, che potrebbe essere un’attrice mascherata da agente sotto copertura della Polizia Mentale o un’agente sotto copertura che finge di essere un’attrice o un’attrice che finge di essere un’attrice o un’attrice che finge di essere uno dei suoi personaggi o qualsiasi combinazione di quanto sopra». 

Pat Cadigan in una fotografia di autore non noto scattata presumibilmente nei primi anni Duemila 

Nel 1996, come si è detto, Pat Cadigan si trasferisce in Gran Bretagna con il figlio; vive con il terzo marito in una casa nella parte settentrionale di Londra. Qui scrive i due romanzi della serie di Dore Kostantin e il romanzo breve per giovani adulti Avatar (1998), apparso in Italia nello stesso anno con il titolo Corpo virtuale: probabilmente in considerazione dell’età dei destinatari, Cadigan traccia una vicenda lineare, con un numero limitato di personaggi, calandola in una realtà familiare come quella di Bonner Springs, Kansas, ove la comunità vive in autonomia secondo regole morali condivise. Il tredicenne Max è vittima di un banale incidente che ne immobilizza totalmente il corpo ma ne lascia intatta la coscienza: vivrà e percepirà le sensazioni visive, uditive, olfattive grazie a Sarah Jane, migliore amica e compagna di scuola, alla quale è collegato attraverso un terminale in grado di trasmettere la realtà esterna all’interno della propria mente, entrando in simbiosi con lei. È notevole la capacità dell’autrice di immedesimarsi nella psiche di un giovanissimo, di marcare l’abisso tra universo adolescenziale e mondo adulto, di esprimere il fascino che il web esercita su ragazzi e ragazze, attirati e catturati in un luogo che non c’è ma nel quale è possibile vivere stranianti avventure, come Alice in Wonderland o Dorothy in The Land of Oz. «Ogni cosa è collegata al Web, in un modo o nell’altro: anche noi»; la rete dispone di «mistici, filosofi, indovini – zingari e non – […] alchimisti pazzi, maghi sibille, astrologi, lettori di tarocchi, seguaci dell’I Ching e credo che, nascosto da qualche parte, ci sia anche un supplente di matematica che dà lezioni di statistica applicata ai giochi d’azzardo», rivela a Max la tarantola paziente che funge da guida nel web, ove il protagonista avrebbe la possibilità di rimanere per sempre. Mondo Reale o mondo virtuale? Il coraggio di accettare il principio di realtà e la consapevolezza di poter sempre «scegliere fra il bene e il male» aprono il testo al migliore dei finali possibili. 

Nel 2012 Pat Cadigan dà alle stampe il racconto In Plain Sight (titolo italiano In piena vista), un frammento di vita futura nel quale porta all’estremo il ruolo del narratore o narratrice nel romanzo o racconto moderno: in merito alla vicenda sembra infatti saperne meno dei suoi personaggi, colti in una giornata qualunque in un luogo qualunque degli States. Goku Mura è un agente di Interpol 3, un sottoposto di Dore Konstantin (evidentemente il racconto appartiene a questa serie), chiamato a chiudere un caso di truffa da parte di una giovane delinquente, Pretty Howitzer, ai danni di un’anziana donna, Emmy Eto, meno sprovveduta di quanto la società sia disposta a credere («Lei non ha idea delle porcherie che rifilano alla gente della mia età. Nostalgia e religione, religione e nostalgia, come se a un anziano non interessasse altro»); gli affondi sulla terza età, unitamente a quelli sull’incomprensibile complessità delle relazioni umane e sulle diverse realtà – legale, artificiale, aumentata – sono il punto di forza del testo: «è tutta una questione di vedere. È così che riescono a ingannarci, no? Non con quello che ci mostrano, ma con quello che ci inducono a vedere» osserva Emmy/Pat. Ed è impossibile darle torto. 

Illustrazione con Pat Cadigan da «Locus Magazine» n. 670 del novembre 2016 

Il 2012 è anche l’anno del racconto The girl-thing who went out for the sushi (titolo italiano La ragazza che uscì per il sushi), con il quale la scrittrice vince l’Hugo Award l’anno successivo, sezione novelette, dopo oltre trent’anni di attività. Un testo riuscito ma forse non all’altezza di altri precedenti. Uscire per il sushi su Giove, ove si svolge la storia, significa sottoporsi a un complesso intervento chirurgico per modificare il proprio corpo e assumere l’aspetto di animali marini (nautili, piovre, granchi…): è quello che farà Arkae, «genio bipede implume reginetta di bellezza» proveniente da Terriccio (Dirt nell’originale), dispregiativo di Terra e dei suoi abitanti, bipedi «strettamente binari» che pensano che l’universo ruoti intorno a loro e che, dicono le creature sushi, «se ne staranno rannicchiati su Terriccio e affogheranno nella loro merda. Finché non faranno la sola cosa per cui l’universo li ha cagati, cioè estinguersi». Si tratta dunque di un apologo trasparente sulla diversità, sul passaggio da un corpo a un altro, da un genere a un altro, di un elogio delle identità non binarie e di un potente j’accuse contro chi, come i duepassi di Terriccio, è incapace di accettare l’altro e vomita contro di lui, di lei, «parole come abominioatrocità e mostri subumani»; al contrario, chi ha compiuto la scelta forte della trasformazione è legato da vincoli di comprensione e solidarietà. In ultima analisi, Cadigan traspone in questa vicenda surreale dinamiche e difetti umani, esasperando vizi di forma evidenti nella società contemporanea: il potere divorante dei media, il controllo occhiuto dei governi, ma anche l’insopprimibile nostalgia per una libertà mai pienamente vissuta. 

Pat Cadigan anziana in una fotografia di Andrew Lawrie/Lawrie Photography 

Ancora nel 2012 Pat perde la madre, anziana e a lungo inferma, tanto che la cura di lei non consentiva all’autrice di trovare «spazio e tempo per pensare a lungo» (da un’intervista del 2014) e scrivere testi di misura superiore a quella del racconto. L’anno successivo, però, le viene diagnosticato un tumore (con una recidiva combatte ancora a fine 2020). Come scrive il 27 giugno 2013 in un blog dedicato, la notizia ha su di lei lo stesso effetto del colpo di manganello («billy club») in testa che le fu dato da un poliziotto durante la manifestazione contro la guerra in Vietnam il 1° maggio 1971 a Washington DC: «blam!».
Durante la crisi tra Stati Uniti e Cuba, nell’ottobre 1962, la bimba Pat Cadigan aveva chiesto alla madre che la stava mettendo a letto se quella sarebbe stata la fine del mondo: «lei rispose che comunque non avremmo evitato di alzarci la mattina dopo per andare al lavoro e a scuola. “Niente è mai così facile, Putsckha. E ora dimenticatelo («fuhggedaboudit», in slang newyorkese) e dormi”».

In copertina. Gino Andrea Carosini, Pat Cadigan.

***

Articolo di Laura Coci

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Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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