Il 19 dicembre 1861, l’anno in cui si costituisce il regno d’Italia, nasce a Trieste Aron Hector Schmitz, più noto con lo pseudonimo di Italo Svevo. La città adriatica è all’epoca il porto di Vienna e sarà annessa all’Italia solamente alla fine della Prima guerra mondiale, dopo oltre cinquecento anni di soggezione alla casa d’Austria, iniziata con la dedizione del 1382. È una città di frontiera e come tale è multietnica, multireligiosa, multilinguistica e ha come “lingua franca” il dialetto triestino. Lo pseudonimo scelto da Schmitz rispecchia in qualche misura il carattere multiculturale della sua “triestinità” ― situata allo snodo tra civiltà latina e civiltà germanica, con la significativa esclusione della componente slovena ― e alimenta un mito, abilmente costruito dallo stesso scrittore, ma smentito dal suo stesso epistolario.
Il Profilo autobiografico di Svevo si apre con la definizione di Trieste come «crogiolo assimilatore di elementi eterogenei». In realtà, sulla base di precisi riscontri documentali, pare acclarato che il testo, pubblicato postumo nel 1929, si debba alla penna di Giulio Cesari, amico dello scrittore, e che l’etichetta autobiografica sia semplicemente una trovata pubblicitaria. Siamo in un gioco di specchi, in un mito a più mani, che non è peraltro appannaggio del solo Schmitz.
Un altro intellettuale triestino, Giani Stuparich, commentando la situazione culturale della sua città, afferma che «A Trieste le cose vanno diversamente». Svevo coltiva un rapporto piuttosto ambivalente con la propria “triestinità” che vede sia come condanna, sia come punto di forza, a seconda che voglia tutelarsi da rimproveri e recriminazioni, in particolare sulla lingua, o, al contrario, dar rilievo all’atipicità della propria figura di “letterato di provincia”, eccentrico e marginale rispetto ai principali centri dell’elaborazione e produzione culturale in Italia e al tempo stesso esposto e aperto alle più nuove e avanzate correnti culturali europee. Inoltre, la Trieste di Svevo, definita da Montale «personaggio-città», è tangibilmente presente nella sua produzione letteraria fin dagli esordi. Nel paesaggio urbano descritto dallo scrittore è ricorrente il colore grigio, il colore neutro di chi prende le distanze dai sentimenti e dalla vita ― gli inetti ― e sta dunque a simboleggiare la dicotomia tra salute e malattia.

Quella di Svevo è una città «triste» ― affine a quella che Umberto Saba coglie nella sua «scontrosa grazia» e che Scipio Slataper definisce «terra senza pace, senza congiunture» ― che nasce da un dato storico e autobiografico insieme, ma è fissata sulla carta con variazioni immaginate che conducono chi legge al processo di costruzione di una Trieste moderna dai mille Aron.
Hector Schmitz nasce in una famiglia ebraica benestante, quinto degli otto figli sopravvissuti su sedici nati, da Francesco, commerciante di vetrami di origine tedesca che si è costruito da sè la sua fortuna, e da Allegra Moravia, figlia di Abramo, macellaio di origine friulana. Francesco è un vero patriarca, secondo il ritratto delineato nel Diario di Elio Schmitz (1863-1886) ― fonte di molte notizie biografiche sul più noto fratello Hector ― che ne evidenzia l’infaticabilità, ma soprattutto il rispetto e il timore richiesti dalla sua autorità; i due fratelli non osano mai contraddirlo apertamente. Hector, i fratelli Adolf (1860-1918) ed Elio frequentano la scuola elementare israelitica tenuta dal rabbino maggiore di Trieste, poi la scuola privata commerciale di Emanuele Edeles, infine, nel 1874, il padre-patriarca invia lui e Adolfo, raggiunti nel 1876 da Elio, in un collegio presso Würzburg, il Brüssel’sche Institut di Segnitz am Main, diretto da Samuel Spier, con un passato impegno politico socialdemocratico. In Baviera, Hector, cresciuto sui romanzi francesi, si appassiona in particolare alla lettura di Goethe e Schiller.

Tornato a Trieste nel 1878, il ragazzo vorrebbe perfezionare l’italiano a Firenze, ma il padre lo iscrive all’istituto superiore commerciale “Pasquale Revoltella”, che frequenta per due anni e nel quale insegna dal 1893 fino agli inizi del Novecento. Nel tempo libero, Hector si dedica alla scrittura e, con lo pseudonimo di Emilio Samigli, firma i suoi primi testi teatrali e tutte le sue collaborazioni giornalistiche a L’Indipendente, dal 1880 al 1890. Sul quotidiano irredentista pubblica anche due racconti: Una lotta (1888), che anticipa i temi dell’inettitudine e della precoce senilità, e L’assassinio di via Belpoggio (1890), ispirato a Delitto e castigo.
Nel 1879 muore la sorella Noemi, poi il padre subisce un grave dissesto economico, che nel 1883 lo porta a chiudere la propria attività; nel 1886 muore anche l’amato fratello Elio, molto affine a Hector, il cui Diario intesse una fitta rete intertestuale con le opere maggiori di Italo Svevo ― in particolare Una vita e Una burla riuscita, in cui l’immagine di Elio Schmitz si riflette nel protagonista del romanzo, Alfonso Nitti, e in un personaggio della novella ― tanto che alcuni critici lo collocano alle origini della creatività sveviana e scoprono nell’opera dello scrittore le tracce di un’autobiografia travestita o vicaria.
Nel 1880 Hector inizia a lavorare alla filiale triestina della Unionbank di Vienna e lì rimane per diciotto anni, frequentando nel tempo libero la Biblioteca civica, per leggere i classici italiani, inglesi e francesi.

Nel 1887 inizia a scrivere il romanzo Un inetto, di cui poi l’editore cambia il titolo in Una vita, e lo pubblica a proprie spese e con lo pseudonimo di Italo Svevo, nell’autunno del 1892, ma con data 1893. Il romanzo tratta del caso fallito di inurbamento di Alfonso Nitti, aspirante scrittore e impiegato della ditta Maller, che seduce Annetta, la figlia del principale. La seduzione avviene per via letteraria, attraverso la scrittura di un romanzo a quattro mani, in modo analogo al corteggiamento da parte di Elio Schmitz della Signorina U, che non corrisponde ai suoi sentimenti: i due si trovano il sabato mattina per suonare insieme.
Il protagonista del romanzo si sottrae alle nozze riparatrici, cui si presta Macario, cugino della ragazza, e torna al proprio paese natale scegliendo di suicidarsi tramite esalazioni di gas. Il romanzo passa quasi del tutto inosservato.
Il 1° aprile 1893 muore il padre e il 4 ottobre 1895 la madre. Nel dicembre 1895 Hector si fidanza con Livia Veneziani, di religione cattolica, figlia di Gioachino, proprietario di una rinomata fabbrica di vernici sottomarine, e di Olga Moravia, cugina della madre del fidanzato.

Nonostante l’ostilità di Olga all’unione della giovane con un modesto impiegato, il matrimonio civile si celebra il 30 luglio 1896 e quello religioso nell’agosto del 1897, dopo l’abiura di Ettore all’ebraismo e il suo battesimo. Gli sposi si stabiliscono nella grande casa della famiglia di lei, villa Veneziani.
Il 20 settembre 1897 nasce Letizia, la loro unica figlia, che sposerà nel 1919 l’irredentista istriano Antonio Fonda Savio, da cui ha tre figli, tutti destinati a cadere in guerra.
Il 1° novembre 1897 esce sulla Critica sociale di Filippo Turati un racconto, La tribù, testimonianza dell’orientamento socialista dell’autore. Il suo, peraltro, è un socialismo che non si traduce in azione politica; Svevo si limita a prenderne forma e argomenti per la sua insoddisfazione e crea eroi letterari che sono «uomini del rifiuto e della negazione».
Fra giugno e settembre 1898 è pubblicato a puntate su L’Indipendente il suo secondo romanzo, Senilità, originariamente titolato Il carnevale di Emilio, di cui aveva iniziato a scrivere diversi capitoli nel 1893. Protagonista è Emilio Brentani, trentacinquenne impiegato in una società di assicurazioni triestina e autore di un romanzo giovanile. La sua senilità non è tanto anagrafica, quanto psicologica: Emilio non è in grado di vincere la propria inettitudine. Nel romanzo si confrontano due coppie dai caratteri opposti: da un lato Emilio e la sorella Amalia, il suo doppio al femminile, dall’altro lo scultore Stefano Balli ― che richiama alcuni tratti del pittore Umberto Veruda (1868-1904), grande amico di Schmitz ― di cui si invaghisce, non corrisposta, Amalia, e Angiolina Zarri ― che adombra la figura di Giuseppina Zergol, una ragazza del popolo con cui lo scrittore ha una relazione nei primi anni Novanta e che finisce cavallerizza in un circo ― entrambi alti, forti e dagli occhi azzurri.
L’esito è tragico; Amalia comincia a usare l’etere, finendo per ammalarsi di polmonite, per poi morirne, mentre Angiolina fugge a Vienna con il cassiere di una banca, macchiatosi di furto. Ricordando anni dopo la vicenda, il protagonista vede le due donne fuse in un’unica persona, che ha l’aspetto di Angiolina e il carattere di Amalia. Dopo la prima pubblicazione, il romanzo è subito edito in volume, a spese dell’autore. È un altro fiasco.

Risalgono allo stesso anno l’abbandono del socialismo e della letteratura. Nell’ambiente borghese di Hector, un prodotto che nasce dal gioco, come appunto la letteratura, non è benvisto, poiché viola le leggi di un mondo dominato dalla produzione di merci, tanto che, in Una burla riuscita, l’autore fa dire, a proposito delle favole di Mario Samigli, che quella «non era letteratura perché letteratura è una cosa che si vende e si compera».
Scrivere è un vizio da coltivare segretamente e da nascondere al mondo, che solo il successo può rendere socialmente accettabile; come scrive Svevo stesso in una lettera del 1925: «In famiglia (non parlo di mia moglie) per credere nella letteratura dovrebbero vedere dei denari». Dunque «l’impiegato Schmitz» abbandona la letteratura ― o meglio, dichiara di abbandonarla ― e nel 1899 passa dalla banca alla ditta del suocero, con un consistente aumento di stipendio. Cominciano i suoi viaggi di affari, in Francia, Germania e Inghilterra e, in una pagina di diario del dicembre 1902, dichiara di avere rinunciato a «quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura», ma, oltre al violino, rimangono le letture notturne e la scrittura di pagine lasciate nel cassetto.

Per guarire dal vizio di scrivere, Italo Svevo, che è il doppio e l’io segreto di Hector Schmitz, ha bisogno di capirsi meglio e, per farlo, può solo scrivere: ricorre dunque alla forma spuria del diario, ai racconti e alle commedie. Nel 1907 Schmitz inizia a prendere lezioni private di inglese – la cui conoscenza gli è necessaria per l’attività commerciale – da James Joyce, con il quale nasce una profonda e duratura amicizia. Con l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, la famiglia Veneziani si disperde e a Trieste restano solamente Hector e la moglie Livia, a guardia di una fabbrica che lavora a ritmo ridotto.
Questa pausa nell’attività riporta l’autore triestino alla scrittura e alla letteratura. Inoltre, si accosta a Freud e compie pure un esperimento di autoanalisi, meno fallimentare di quanto lui stesso dichiari. Lo scrittore non ha grandi nozioni di psicanalisi, ma le usa come uno strumento di ricerca prestato dalla scienza alla letteratura, poiché è consapevole che in quel momento storico pensare l’umano a prescindere da Freud non è più possibile; come scrive in Soggiorno londinese: «Ma quale scrittore potrebbe rinunziare di pensar almeno la psicanalisi?». Svevo, dunque riconosce esplicitamente un legame tra la scienza psicanalitica e la propria opera; sempre in Soggiorno londinese dichiara che, nonostante la sua antipatia per questa disciplina, «la psicanalisi non m’abbandonò più».

Nel 1919, ispirandosi al pacifismo di Alfred Hermann Fried, premio Nobel per la pace nel 1911, e di Walter Schücking, scrive un saggio, pubblicato negli anni Cinquanta con il titolo Sulla teoria della pace, riedito nel 2015 con l’originario titolo La Lega delle Nazioni. Sempre nel 1919, in un momento di ispirazione forte e travolgente, inizia a scrivere La coscienza di Zeno, romanzo che sarà dato alle stampe nel 1923, e Svevo comincia a ricercare il successo, cioè l’assoluzione che renda accettabile che Schmitz abbia fatto letteratura.
A questo scopo, manipola la storia di Hector Schmitz e lo tratta come uno dei suoi personaggi letterari, costruendo in tal modo il «mito personale» di Italo Svevo, cui si è accennato prima.
La Coscienza ha come protagonista l’anziano uomo d’affari triestino Zeno Cosini, che in parte adombra Svevo e Schmitz, autore di un diario della propria vita a fini terapeutici per combattere il vizio del fumo. Zeno, tuttavia, non nutre fiducia sia nella psicanalisi, sia nella propria guarigione poiché, come scrive nell’explicit: «La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti.
A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure». Inoltre, il protagonista ritiene di essere guarito grazie al successo nel commercio, ma, poiché «la vita attuale è inquinata alle radici», la malattia non è individuale, ma di un’intera civiltà al suo tramonto. La rigenerazione è possibile solo attraverso la distruzione totale: «Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo.
Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie». Il finale rappresenta in qualche modo il testamento di Zeno e riporta le sue conclusioni: il mondo è condannato alla distruzione e l’umanità alla malattia, la salute è solo degli animali, mentre gli esseri umani hanno costruito ordigni, uno dei quali provocherà l’annientamento.
Per fargli dispetto, il dottor S. ― non è senza interesse notare che S in tedesco si pronuncia es, come il pronome neutro di terza persona singolare che Freud utilizza per designare l’inconscio ― pubblica il diario. Il testo è dunque in prima persona e pertanto il narratore non è onnisciente, oltre a essere inattendibile, come dichiara il dottor S. che nella Prefazione gli dà appunto del bugiardo. Salta perciò il patto narrativo, con cui chi legge sospende l’incredulità e si affida ciecamente alle parole del testo e le prende per vere, anche se non lo sono affatto. Come è possibile credere a un narratore definito bugiardo dal suo analista?
Nella Coscienza vi è una collaborazione costante e decisiva della psicanalisi, che è, anche, materiale per una finzione. Uno degli episodi centrali del romanzo, strutturato in capitoli corrispondenti a nuclei tematici, è la morte del padre di Zeno, che, proprio mentre sta morendo, schiaffeggia il figlio.
Dopo, il protagonista prova bisogno di riparazione, necessità di assolversi e desiderio di vendicarsi e, contemporaneamente, compaiono nella vicenda dei sostituti della figura paterna, quali l’amministratore Olivi, il suocero e i medici. Il narratore che dice «io» conferisce alla prospettiva ristretta ― già presente nei due precedenti romanzi, narrati in terza persona da un narratore esterno, ma con focalizzazione interna ― margini più flessibili, perché la coscienza del passato da parte di Zeno deve essere costruita e la sua consapevolezza parziale dà molto risalto al tempo della narrazione, risospingendo tutto il passato nella finzione e causando una fondamentale ambiguità cronologica nel romanzo.
L’ordine degli avvenimenti narrati non coincide con il loro ordine cronologico e il presente del narratore serve, a seconda dei casi, come connettivo o cesura. I quattro anni che vanno dalla morte del padre di Zeno a quella di suo cognato Guido (1913-1916) sono quelli decisivi e sono collocati al centro di due parentesi che comprendono periodi molto lunghi, dei quali si conservano invece pochi episodi. A questo quadriennio sono dedicati i quattro quinti del testo. I punti di narrazione coincidono con il presente di chi narra, facendo sì che emerga la struttura diaristica implicita e si costituisca una distanza problematica tra eroe e narratore.
Svevo affronta il problema di mettere in scena Zeno ― un personaggio che riceve uno schiaffo dal padre morente e avverte sia la preoccupazione di assolversi, sia il bisogno di confessarsi – rendendo la sua parola sospetta. I lapsus servono proprio a dare voce al protagonista che mente, non sapendo, però, costruire una menzogna credibile.
I sogni di Zeno, per cui Svevo ha letteralmente saccheggiato Freud, svolgono un ruolo importante nel romanzo in quanto tutti rimandano al testo e mettono in scena la non-coscienza del protagonista, analogamente ai suoi disturbi somatici, come lo zoppicamento, verso cui attua azioni di disturbo, assai simili alla censura cosciente dei sogni.
In questo modo, Zeno tenta di contrastare tutto ciò che sfugge alla sua amministrazione della verità e del falso. Ma, con l’inserimento da parte di Svevo della possibilità della menzogna, Zeno non è più da nessuna parte e il romanzo moltiplica le sue direzioni possibili.

Nel 1929 è pubblicato incompleto L’Imperio, l’ultimo romanzo di Federico De Roberto, autore assai lontano da Svevo, ma partecipe della medesima temperie culturale. Secondo Mario Lavagetto «il malato di Zeno Cosini e i geoclasti di Federico Ranaldi [nell’Imperio, ndr] vedono la luce suppergiù negli stessi anni; costituiscono una risposta al medesimo universo sociale; sono una rappresentazione della medesima crisi dell’uomo e del suo mondo» e testimoniano l’impossibilità di entrambi gli autori a pensare oltre il proprio mondo, se non in termini di annientamento. Nei suoi romanzi Svevo mette in scena degli inetti, sul piano sociale e letterario, ma, se la letteratura non rinuncia al proprio valore conoscitivo, può tradire lo scrittore ambiguamente negativo.
Sempre secondo Lavagetto, che in un suo noto saggio contrappone l’impiegato Schmitz a Italo Svevo, «La parabola di Ettore Schmitz ci dice anche questo: la sua controfigura – quella che firma i libri e dai libri riceve fisionomia e stato civile – non lo asseconda». La Coscienza viene accolta con indifferenza dalla critica italiana; è solo grazie a Joyce che inizia il successo francese di Svevo. Su Le Navire d’argent del 1º febbraio 1926 Benjamin Crémieux pubblica il suo saggio su Italo Svevo e brani da lui tradotti della Coscienza, con un passo di Senilità tradotto da Valery Larbaud. Tuttavia, già nell’autunno del 1925, Eugenio Montale aveva pubblicato nel periodico milanese L’Esame un Omaggio a Italo Svevo e su L’Ambrosiano appare l’anno successivo Rivelazioni: Italo Svevo di Giuseppe Prezzolini.

In tarda età Svevo, ormai autore consacrato dalla critica, si dedica completamente alla scrittura con novelle, saggi e commedie, fra cui va segnalata almeno La rigenerazione. Sono da ricordare il racconto Una burla riuscita, pubblicato in Solaria (febbraio 1928), Corto viaggio sentimentale, Vino generoso e La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, che hanno come tematiche la vecchiaia, la scrittura, l’eros e la morte, con personaggi dai tratti autobiografici.
Una burla riuscita ha per protagonista un inetto, Mario Samigli, che si nutre di sogni di gloria letteraria ed è vittima del perfido inganno di un invidioso patologico. L’opera è addirittura una parabola dell’esistenza di Svevo, come paiono confermare alcuni indizi quali il nome del protagonista, calco evidente di Emilio Samigli, pseudonimo usato da Schmitz per i suoi articoli sull’Indipendente e sul Piccolo, il rapporto tra letteratura e favole e perfino un frammento in prima persona inserito nel testo in cui il narratore fa esplicito riferimento alla Coscienza di Zeno.
Alcune delle favole di Mario Samigli derivano direttamente da quelle di Svevo e svolgono sia la funzione di espandere i nuclei narrativi, sia di connotare la “coscienza divisa” del protagonista, innestate nel racconto con varie modalità: come elaborazione consapevole di un’esperienza di Mario oppure come mezzo terapeutico o, ancora, come prodotto di una consapevolezza del protagonista e, infine, in alcuni casi, sembrano nascere da sé. Per Samigli, secondo Mario Lavagetto, le favole sono dei «feticci» che nascondono la realtà e, al contempo, la rivelano. Chi legge sa in anticipo come termina la vicenda, dunque la sua attenzione si concentra sul conflitto tra la percezione soggettiva che il protagonista ha della sua parte e la parte che effettivamente svolge nella vicenda; inoltre, la voce del narratore si mescola a quella di Mario, prendendosene gioco.
Appartiene invece alla produzione saggistica la Storia del genere umano, in cui riecheggiano, tra gli altri, Giacomo Leopardi e il suo utilizzo del mito per sceneggiare aforismi, Arthur Schopenhauer e il Charles Darwin dell’Origine della specie, di cui però Svevo non accetta l’evoluzione da specie a specie ― il predecessore dell’uomo è l’uomo ― virando invece sul darwinismo sociale. L’essere umano, secondo il letterato triestino, diversamente dagli animali è costruttore di ordigni, che condizionano sia lo sviluppo somatico, sia la storia, e possono essere strumenti oppure idee. La perdita della primitiva felicità dipende dalla negazione della natura, proprio come in Jean Jacques Rousseau, e, quindi, l’unica salvezza è negare quella negazione: per tornare alle origini, il mondo deve, perciò, regredire al caos primigenio.
Dal 1928 Svevo progetta un quarto romanzo, Il vegliardo, del quale rimangono cinque spezzoni narrativi (Un contratto, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio e Prefazione), cui si legano altri frammenti. L’opera ripropone come voce narrante lo Zeno della Coscienza, ormai un settantenne ritiratosi dagli affari, e segue i suoi i rapporti con i figli, con il nipote Umbertino e con un’ultima amante, dal significativo nome di Felicita.
Il 12 settembre 1928 un incidente di macchina causa all’anziano scrittore la rottura di un femore: trasportato all’ospedale di Motta di Livenza, muore il giorno successivo per un enfisema polmonare ed è poi sepolto nel cimitero triestino di Sant’Anna.
Grazie alla donazione di carte e oggetti ― tra cui il violino ― appartenuti a Svevo da parte della figlia Letizia alla Biblioteca civica “Attilio Hortis” del Comune di Trieste, è stato inaugurato, il 19 dicembre 1997, il Museo sveviano che conserva, oltre alle lettere e alle foto di famiglia, gli autografi della maggior parte delle opere, con l’esclusione di quelli dei tre romanzi, andati perduti.
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Articolo di Claudia Speziali

Nata a Brescia, si è laureata con lode in Storia contemporanea all’Università di Bologna e ha studiato Translation Studies all’Università di Canberra (Australia). Ha insegnato lingua e letteratura italiana, storia, filosofia nella scuola superiore, lingua e cultura italiana alle Università di Canberra e di Heidelberg; attualmente insegna lettere in un liceo artistico a Brescia.