Descrivere il rapporto, da sempre inscindibile, fra donne, moda, società e diritti femminili: questo era il mio obiettivo fin da quando, a metà del mio corso di laurea magistrale, ho iniziato a immaginare l’argomento della mia tesi di laurea. La storia della moda, e in particolare della moda femminile, mi ha sempre interessato particolarmente: già Baudelaire, nel 1863, nel suo libro il pittore della vita moderna attribuiva allo studio degli abiti del passato (e del presente) un ruolo primario e fondamentale nel capire le evoluzioni culturali, storiche e sociali delle diverse epoche.
Un vestito racconta la cultura e i modi di vivere della società (sia intesa nella sua accezione macroscopica che nel contesto dei sotto-gruppi e delle diverse comunità che coesistono su un territorio), le tendenze etiche, religiose, sociali, e persino politiche che si respirano in un contesto. Se poi si analizza la moda dalla prospettiva degli studi di genere, si può scoprire quale sia il ruolo pensato per il femminile in una data epoca e società, intuire quanto le donne aderiscano effettivamente ai modelli astratti più diffusi (e più o meno imposti), e rintracciare quindi il diffondersi di idee, movimenti, proposte di contro-cultura. Essendo la moda storicamente, e soprattutto dal XIX secolo, pensata come il dominio della donna, tanto da divenire suo simbolo e metafora, si può intuire quanto essa giochi un ruolo primario nella costruzione dell’identità femminile, sia a livello individuale che sociale.
Se da una parte la moda ha rappresentato uno strumento di oppressione nelle mani della società patriarcale (pensiamo al corsetto, alle crinoline e ad altri strumenti femminili coercitivi e opprimenti, la cui connotazione maschilista e riconducibile all’idea di “donna-oggetto” è stata approfonditamente studiata da femministe come Charlotte Perkins Gilman), dall’altra ha dato alle donne la possibilità di autodeterminarsi e rispondere a quelle imposizioni proprio attraverso il mezzo con cui venivano attuate: attraverso la moda, le donne si sono potute esprimere, hanno potuto operare delle scelte (possibilità a loro preclusa in altri ambiti della vita sociale, saldamente nelle mani maschili), hanno potuto definire il loro grado di accettazione delle regole morali e sociali condivise e diffuse. E si sono potute persino ribellare allo status quo degli equilibri di genere. Attraverso un vestito si possono costruire e decostruire sensi e ideali, e quindi la moda è spesso diventata nella storia uno strumento nelle mani delle donne per decostruire i segni della subalternità del genere femminile, per comunicare all’esterno la propria volontà di indipendenza dal controllo patriarcale, e, quindi, per costruire e veicolare modelli di genere alternativi.
Proprio quel sistema pensato per allontanare le donne dalla vita pubblica e relegarle al mondo della superficialità casalinga e privata, è stato sfruttato da queste per attuare un’operazione di riappropriazione culturale (un po’ come oggi avviene quando le comunità emarginate scelgono di riappropriarsi di alcune parole e concetti, cambiandoli di segno: pensiamo alle parole “ne*ro”, “putt*ana, fro*cio) attraverso cui porsi nella sfera pubblica in modo attivo e non più passivo. Questo è accaduto sia attraverso l’industria dell’artigianato tessile (la creazione, la lavorazione e la vendita al dettaglio dei vestiti) che attraverso l’utilizzo del proprio corpo come “tela vuota” da riempire di significati artistici, politici e sociali, e quindi tramite la scelta di cosa indossare e come farlo. La donna attraverso la moda è divenuta, nei secoli, creatrice e artista, del vestito come di sé stessa, squarciando così, almeno in parte, il velo che le impediva di autodeterminarsi e partecipare attivamente alle dinamiche sociali.
Nel XVII secolo le donne spagnole che sceglievano di indossare il “guardainfante” (una sorta di sottogonna spaziosissima in osso di balena su cui gravitava un forte stigma sociale dovuto a dicerie misogine e persino dei veri e propri divieti legislativi), prendevano così posizione a livello sociale, morale e persino politico. L’indumento era considerato infatti “scandaloso”, ma le donne continuavano ad indossarlo, ribellandosi al potere maschile attraverso la moda, uno dei pochissimi settori della società attraverso cui si potevano esprimere. Lo stesso capitò all’inizio del XIX secolo con la moda della “chemise à la reine” lanciata dalla Regina Maria Antonietta, considerata anch’essa scandalosa e inappropriata per le gran dame francesi, perché lasciava intravedere direttamente il corpo ed era priva di orpelli (nella mia tesi approfondisco meglio le sue caratteristiche e il legame con il Mother Hubbard). Sempre il XIX secolo vide la diffusione di un altro indumento “alternativo”, il pantalone femminile (la moda dei “Bloomers”), fortemente osteggiato dagli uomini a causa della paura di una connessione fra l’uso dell’indumento e l’affrancamento della donna e il profilarsi di un ipotetico ribaltamento dei ruoli di genere.
Questi sono solo alcuni circoscritti esempi che dimostrano quanto lo studio della storia della moda offra un approccio privilegiato per la lettura delle questioni di genere del passato. Gli studi del costume e quelli di genere procedono infatti su binari strettamente paralleli, e persino a tratti intersecati. Nonostante l’apparente semplicità e banalità di abito inizialmente ideato per il contesto della casa, il Mother Hubbard, oggetto della mia tesi, è uno degli indumenti più controversi e difficili da inquadrare (oserei dire ambigui) della storia del XIX secolo. Come si noterà dalla lettura del lavoro, si tratta di un indumento che in epoca vittoriana accompagnò le donne americane nei più svariati contesti, sia nella continuità che nella rottura dei tradizionali schemi e ruoli di genere del secolo. Il mio interesse per la veste è cresciuto man mano che acquisivo tutta la documentazione, storica e contemporanea, che dimostrava la sua importanza non solo sociale e stilistica, ma anche politica.
In particolare a colpirmi è stato lo scandalo che la “gown” ha provocato in tutti gli States sul finire del XIX secolo, divenendo per alcuni anni protagonista della questione politica legata al femminile, ai diritti delle donne e all’accesso di queste alla politica (è stato utile in tal senso analizzare e approfondire la satira politica americana dell’epoca, che per anni non mancò di associare strettamente Mother Hubbard, diritti civili e donne in politica).
Ho, quindi, compreso a fondo quanto mi trovassi di fronte a un indumento “rivoluzionario” quando ho scoperto l’ondata di odio da cui fu colpito, che in diversi Stati sfociò in leggi punitive e sanzionatorie per chi lo indossava.
Particolarmente rilevante fu la rilevanza che acquisì nel contesto della corsa alle presidenziali delle prime candidate donne. Il Mother Hubbard divenne un vero e proprio simbolo della donna libera, che desiderava rompere gli equilibri di genere ed accedere alla vita pubblica e alla politica. Data la connessione da sempre esistita fra donna libera e indipendente e prostituta, i suoi detrattori strumentalizzarono l’utilizzo del vestito da parte di alcune prostitute per rafforzare il legame ideale fra l’abito e la prostituzione.
Quindi, negli articoli di giornale, nei testi delle leggi statali, nei cartoon satirici, persino nelle canzonette popolari, gli uomini si servirono del Mother Hubbard per screditare le donne in politica, per ridurle a delle macchiette, e più subdolamente, per suggerire un nesso fra le donne indipendenti e attive socialmente e le prostitute di strada. Tutto ciò portò non solo alla messa al bando dell’indumento in molte zone del paese (soprattutto in quelle dove veniva più utilizzato, ovvero negli stati di frontiera), e quindi all’arresto di donne colpevoli di averlo indossato, ma anche ad un diffuso stigma sociale che sfociò in diverse occasioni in molestie di strada (nel quarto capitolo vengono analizzati diversi articoli di giornale e aneddoti popolari in proposito).
Devo ammettere che non è stato facile reperire la documentazione inerente il Mother Hubbard: le fonti sono del tutto assenti in Italia, e scarseggiano anche nei testi americani. Il Mother Hubbard è infatti un “house gown” complessivamente poco studiato ed estromesso, a causa della sua informalità, dal canone della storia del costume del 19th secolo, ovvero, dalla letteratura scientifica e dalla storia delle esposizioni museali. Infatti, dell’ampio dibattito di cui fu protagonista e della sua connotazione rivoluzionaria pare non siano rimaste molte tracce, perché negli anni perse lentamente le sue caratteristiche più contraddittorie e controverse: agli inizi del XX secolo non vi era più traccia di leggi suntuarie né di satire che lo riguardavano, ma era attestato come un abito usato solamente nei contesti della casa e dell’ospedale (con il nuovo secolo sono sopravvissute quindi solo le sue declinazioni meno problematiche, ovvero quelle legate alla maternità, all’infanzia e alla cura delle invalide). Successivamente, con il passare dei decenni, l’abito scivolò lentamente nell’oblio, fino a divenire sconosciuto al grande pubblico contemporaneo (anche se, come si vedrà, molte delle caratteristiche tipiche del Mother Hubbard sono state ereditate da diversi indumenti del secolo scorso, sopravvivendo fino ai nostri giorni).
Se da un lato la scarsità di studi recenti sull’indumento e l’apparente introvabilità delle fonti mi ha in un primo memento scoraggiato, dall’altro mi ha convinto della necessità di approfondire lo studio di un vestito che fu fondamentale nella vita delle donne americane dell’epoca vittoriana. Mi allettava l’idea di proporre, attraverso la mia tesi, una riflessione sul significato di una veste femminile del passato ancora poco studiata in generale e del tutto sconosciuta in Italia (i saggi sul Mother Hubbard si contano sulle dita di una mano).
L’intenzione alla base del lavoro, o, per usare un gergo di scienza, “l’ipotesi”, era quella di dimostrare come questa larga veste “da casa” informale, di scarso valore economico, fosse stata protagonista e funzionale nel processo di autoaffermazione delle donne dell’epoca, sia in relazione alla liberazione dalle tipiche costrizioni dell’abbigliamento ottocentesco femminile, sia, di pari passo, all’ingresso delle donne nella sfera pubblica e politica.
Ho creduto, dunque, che il Mother Hubbard possa aiutarci a svelare le complesse dinamiche che interessarono il mondo femminile dell’America di quegli anni e, almeno in parte, a comprendere l’intricata realtà di un’epoca caratterizzata da importanti e profonde trasformazioni. E’ proprio la moda informale a svelarci dettagli della concreta realtà di persone a noi lontane nel tempo e anche nello spazio, soprattutto nel contesto di un secolo che prevedeva un alto livello di formalità e codificazione.
La moda “reale”, se così si può dire, ovvero quella più rilevante dal punto di vista sociologico, è quella lontana dai grandi eventi e dagli incontri formali, dagli abiti scrupolosamente conservati negli armadi per essere tramandati da generazione in generazione, ma risiede nei vestiti di tutti i giorni, che accompagnano l’individuo nelle sue attività quotidiane. Quei vestiti che spesso, come il Mother Hubbard (di cui abbiamo pochissimi esempi), non superano la prova del tempo, e vengono relegati dai più in un ambito della storia del costume poco interessante.
La moda informale, soprattutto in un contesto storico estremamente formale, è quella che più sfugge alle etichette e agli obblighi della convenzione sociale e che lascia quindi spazio alla creatività individuale, offrendo la giusta “ambiguità” persino per espressioni di controtendenza e ribellione, come fu appunto il caso del nostro vestito.
Quindi, l’analisi del Mother Hubbard, tanto diffuso fra le donne da non comparire in molte lettere e documenti storici perché “scontato”, ci consente di addentrarci a fondo nella vita quotidiana, reale e vissuta della stragrande maggioranza delle donne americane, attraversando i confini di classe sociale, provenienza geografica (il Mother Hubbard venne indossato in ogni Stato degli USA), età, condizione di salute e vocazione culturale e politica.
Per capire la rilevanza sociale e semiotica del vestito si deve nuovamente sottolineare come si tratti di un abito controverso, forse il più controverso ed eclettico del secolo. Il discrimine che lo rendeva più o meno accettabile era rappresentato dal contesto in cui veniva usato: veniva lodato se indossato all’interno delle mura domestiche, ma fortemente contrastato, anche tramite lo strumento legislativo, qualora indossato per strada, o in altri contesti pubblici. La fine del XIX secolo, ripetiamo, fu un’epoca caratterizzata da una profonda ridefinizione del ruolo femminile, e dunque dei confini entro cui la donna si muoveva. Essa infatti si spostò sempre più dalla dimensione interna, privata, prevista dall’etichetta vittoriana, verso quella esterna, pubblica, da sempre detenuta dal genere maschile. In questo metaforico spostamento e abbattimento di barriere teso all’emancipazione, la moda informale fu di notevole importanza. Indossare una “gown” da casa per la strada non solo era considerato disdicevole, ma provocatorio e sessualmente ambiguo. Il corsetto e la veste formale rappresentavano in quel secolo il sigillo dell’onestà e rispettabilità della donna (concetti fondamentali socialmente). Le donne scelsero quindi di rischiare di mettere in discussione davanti alla società questi importanti connotati per essere libere, innanzitutto di muoversi. Una veste come il Mother Hubbard era certamente funzionale alla libertà di movimento, grazie al suo taglio ampio e morbido. Una delle maggiori differenze di questo indumento rispetto alla moda formale era data proprio dall’assenza di restrizione sul punto vita, e quindi dalla possibilità di indossarlo senza corsetto (vero e proprio strumento di tortura del secolo). L’outfit venne dunque considerato dalle americane una valida opzione rispetto alla soffocante moda vittoriana: le caratteristiche menzionate permisero loro di muoversi (a livello pratico e figurato) più liberamente nel contesto lavorativo e sociale in cui si stavano affermando. La moda, per l’epoca metafora e metonimia della condizione femminile, è stata nel XIX secolo fortemente legata al processo di autoaffermazione delle donne. Esse desideravano vestiti adeguati al nuovo ruolo che reclamavano, quello di individui indipendenti e attivi all’interno della collettività. Quindi, le donne usarono la veste per sentirsi libere. Libere di riposarsi nella propria abitazione. Libere di poter lavorare nelle campagne degli Stati di frontiera senza l’imposizione del corsetto e di lunghe e pesanti gonne. Libere di esprimere l’adesione a movimenti culturali, sociali e artistici anticonformisti e critici nei confronti della società vittoriana (come il movimento estetico), o, semplicemente libere di essere comode.
La tesi procede seguendo un doppio binario metodologico: quello dei fashion studies e dei gender studies. L’intersezione delle due aree disciplinari, semanticamente affini, ha dato vita a un ritratto che vuole svelare l’altro lato, generalmente poco valutato, dell’universo femminile dell’epoca vittoriana negli Stati Uniti. Ovvero, il lato ribelle e anticonformista che non si rassegnava allo status quo e che esprimeva la propria individualità e autodeterminazione anche attraverso una moda “altra”, coerente con la libertà reclamata.
Si è visto come il Mother Hubbard si collochi in una posizione liminale in un’epoca caratterizzata da forti mutazioni e da grandi contraddizioni, e sfugga ad ogni classificazione. La sua storia e le contaminazioni culturali che lo segnarono sono utili per meglio comprendere le diverse stratificazioni sociali e culturali di una realtà in fieri, come quella degli Stati Uniti di fine 1800. Attraverso un procedimento deduttivo che va dal particolare al generale, il Mother Hubbard racconta tante storie di un’America in cui le donne erano alla ricerca della propria identità, e di nuovi spazi e nuovi ruoli. Le donne americane dell’epoca vittoriana avevano voglia di esistere non solo più come madri e mogli, ma come protagoniste della vita pubblica e come individui utili alla crescita della nazione. Patriottismo e libertà femminile sono inestricabilmente legati nel dibattitto sulla dress reform: le donne desideravano accedere a spazi, ruoli e abiti diversi da quelli proposti da un’Europa ormai percepita come troppo lontana (culturalmente e geograficamente), e si orientarono su valori tutti americani come l’individualismo e l’importanza data alla determinazione, all’abnegazione e al lavoro. Le autrici dei testi della riforma si definivano lavoratrici instancabili e pretendevano che la moda si adeguasse alla loro realtà di donne sempre più attive e indipendenti. Reclamavano una moda alternativa a quella egemone di stampo francese, pensata, a loro dire, per donne inattive il cui unico scopo era divenire oggetto del piacere maschile. Lavoratrici erano, infatti, le molte delle donne agricoltrici che, negli stati di frontiera, ancora tutti da conquistare, si recavano nei campi o nelle fattorie con il Mother Hubbard. Grazie alla sua ampiezza e comodità, e soprattutto all’assenza del corsetto, infatti, esse erano finalmente libere di muoversi senza inutili impedimenti.
Il Mother Hubbard racconta una storia di emancipazione e, al tempo stesso, di quotidianità femminile. Venne indossato nel privato della propria abitazione come per le strade o ai parties, e, per la sua praticità, fu utilizzato da bambine, anziane e da donne incinte o malate, da donne della working class, ma anche da sofisticate e ricche signore. Venne indossato anche dalle prostitute, che lo considerarono una pratica opzione per attrarre clienti e consumare velocemente rapporti. Venne indossato, quindi, da donne di ogni classe sociale, ogni età e ogni zona del Paese. Fu scelto come alternativa alle restrizioni e ai pericoli per la salute proposti dalla moda tradizionale.
Il capitolo II è interamente dedicato al movimento estetico e mostra come le donne seguaci della nuova ondata artistica adottarono il Mother Hubbard, seppur attraverso rivisitazioni e variazioni. Queste donne desideravano una moda che si adattasse alle loro forme naturali e che permettesse loro di divenire soggetti, non più oggetti, della vita e dell’arte. Il movimento si caratterizzò per una forte contestazione della morale vittoriana, e il Mother Hubbard (e più in generale la veste estetica) fu uno dei mezzi attraverso cui si esperì un certo ribaltamento dei ruoli di genere tradizionali. La controversa veste venne indossata sulle strade di molte città medio-piccole degli Stati di frontiera. Le donne la scelsero anche quando il suo impiego potesse esporle, per via di leggi istituite ad hoc, al pericolo di salate multe e di arresti, nonché di subire molestie.
Il Mother Hubbard non piacque agli uomini, che provarono in ogni modo a scoraggiare le loro donne dall’indossarlo: ricorsero alla giurisprudenza, alle molestie di strada, alla ridicolizzazione pubblica sulla stampa e persino all’invenzione di aneddoti sulla pericolosità dell’indumento.
Si è visto come negli anni 1880’s in America si diffusero in diverse città manifestazioni organizzate da uomini che indossavano il Mother Hubbard per deridere l’emancipazione femminile, e per opporsi e ridicolizzare una delle donne più emancipate del Paese: la candidata alle presidenziali Belva Lockwood. L’associazione di questa donna con il Mother Hubbard divenne tanto frequente e sentita da trasformarsi in un noto passatempo folkloristico nazionale. In quegli anni la situazione divenne a tal punto paradossale, e spia di una trasformazione culturale e sociale in atto, che si instaurò un doppio standard: mentre gli uomini erano soliti riunirsi e indossare il Mother Hubbard per deridere le donne libere, le donne che lo indossavano quotidianamente per le strade rischiavano l’arresto.
Il dato più interessante si trova forse proprio nell’enfasi persecutoria nei confronti dell’indumento attuata dai singoli uomini, da gruppi sociali e talvolta da intere città, alla cui radice si può riconoscere la paura. Ovvero, la paura del cambiamento, della possibile perdita di un privilegio e di uno status quo millenario. Il timore, quindi, della ridefinizione dei ruoli e dei confini di genere, e dell’affermazione dei diritti di una “donna nuova”.Il Mother Hubbard fu odiato, disprezzato e proibito perché venne assurto a simbolo di un capovolgimento dell’ordine costituito.
A titolo introduttivo, ho pensato possa essere utile una breve disanima dell’impostazione della tesi, strutturata in introduzione, capitoli, conclusioni, bibliografia e sezione iconografica.
Di seguito una sintesi dei diversi capitoli: il primo capitolo intende delineare quale fosse il quadro generale della moda femminile formale in epoca vittoriana, e soprattutto approfondire le istanze di rinnovamento proposte dalle fautrici del movimento della dress reform in America. Ci si sofferma in particolare, attraverso ampie citazioni, sui testi cardine del movimento a favore della liberazione della donna dai fardelli della moda formale. Si dedica particolare attenzione a delineare la peculiare base culturale, sociale, religiosa e patriottica a partire da cui si sviluppò il movimento negli Stati Uniti. Inoltre, attraverso le stesse parole delle protagoniste della dress reform, vengono esposte le conseguenze fisiche e sociali che gli indumenti maggiormente usati nel XIX secolo, uno fra tutti il corsetto, causavano. Sono, quindi, descritte alcune delle patologie maggiormente diffuse fra le donne a causa di una moda considerata pericolosa. Questa viene infatti definita dalle autrici consultate come «merciless dictator».
Il secondo capitolo si sofferma sul movimento estetico, descrivendone le origini nell’ambito artistico anglosassone, e la concezione della moda femminile alternativa che esso sostenne. Nell’esporre le somiglianze fra movimento estetico e movimento della dress reform, si approfondisce il ruolo del Mother Hubbard all’interno di entrambi i movimenti.
Il terzo capitolo introduce le caratteristiche del Mother Hubbard e racconta le sue nebulose origini. Si approfondisce dunque la sua genesi, specificando come si sia trasformato da veste per bambine a vestito per adulte. Si passa dunque a enumerare i diversi contesti in cui le donne erano solite indossare il Mother Hubbard, un outfit fortemente legato alla quotidianità e utilizzato a prescindere dalla condizione economica, culturale, lavorativa e geografica. Particolare attenzione verrà indirizzata all’associazione di questa gown con il mondo della prostituzione, e al contraddittorio sentimento che esso suscitava nella collettività.
Il quarto capitolo, infine, si basa principalmente sulla stampa dell’epoca ed evidenzia il legame fra la rappresentazione pubblica e simbolica della veste e l’ingresso delle donne in politica. Ci si sofferma, dunque, sulla parabola delle prime candidate alla presidenza degli Stati Uniti, sulla loro campagna elettorale e sul conseguente dibattito pubblico in cui l’indumento giocò un ruolo simbolico di primo piano: il Mother Hubbard divenne il mezzo attraverso cui ridicolizzare le donne che tentavano di allontanarsi dai ruoli tradizionali prestabiliti per loro e di accedere quindi alla sfera pubblica, da sempre associata al maschile. In particolare si fa riferimento alla satira e alle vignette della stampa che contribuirono al radicarsi nella collettività dell’associazione fra la candidata Belva Lockwood e il Mother Hubbard.
Diverso spazio è dedicato alla descrizione della pratica del cross-dressing e al suo legame con l’indumento. Vengono menzionate così tutte quelle manifestazioni che si diffusero a partire dalla candidatura di Belva Lockwood nel 1884 e che videro la partecipazione di uomini vestiti con il Mother Hubbard. Tali raduni erano caratterizzati da una vena goliardica volta ad affermare valori e ruoli di genere tradizionali e a ridicolizzare le donne che da questi si allontanavano.
La seconda parte del capitolo, descrive la repressione sociale e legale nei confronti delle donne che indossavano il Mother Hubbard per le strade. Seguendo soprattutto gli articoli della stampa locale degli Stati di frontiera del far west, si analizzano i diversi casi in cui tale outfit venne dichiarato fuori legge e in cui le donne che lo indossavano vennero arrestate. In conclusione viene messa in evidenza la reazione delle donne che scelsero di ribellarsi a simili provvedimenti, e che continuarono a indossare il Mother Hubbard e a protestare contro le ingiuste leggi che limitavano la loro libertà, pur consapevoli del rischio di essere socialmente isolate e addirittura molestate. Si evidenzia così come questa gown fosse idealmente legata, nell’immaginario collettivo, a tutte quelle donne che scelsero di sfidare le regole della società e di rendere i confini e i ruoli di genere più fluidi e porosi possibile.
Oltre a introduzione, conclusioni, bibliografia e al corpus costituito da quattro capitoli, vi è nella parte finale un’ampia sezione dedicata alle immagini, assolutamente imprescindibile in una tesi incentrata sulla moda e sull’arte. In questa sezione si possono ammirare le immagini dei pochi esempi di Mother Hubbards rimasti, quelle delle sue rivisitazioni nel contesto dell’ondata artistica dell’“estetismo”, alcuni esempi di vestiti del 1900 che ereditano importanti caratteristiche dal Mother Hubbard, nonché alcune delle più significative vignette che puntavano a ridicolizzare Belva Lockwood, la prima candidata ufficiale degli Stati Uniti.
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Articolo di Nilowfer Awan Ahamede

Nata a Roma nel 1994, dopo la maturità classica si è laureata in “arti e scienze dello spettacolo” presso l’università La Sapienza. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale di “fashion studies”. Si interessa di fotografia e ha vinto alcuni concorsi del settore artistico.