Per celebrare l’anniversario della nascita, avvenuta il 24 gennaio del 1862, di Edith Newbold Jones, conosciuta al grande pubblico come Edith Wharton, una delle figure più importanti della letteratura americana, di cui molto è già stato scritto, vorrei partire da un film di Martin Scorsese del 1993, L’età dell’innocenza, un piccolo capolavoro ispirato al libro omonimo che la rese famosa e che è ancora oggi studiato nelle scuole. In questo film, fedele al romanzo in modo quasi maniacale, Scorsese pare allontanarsi dai temi soliti, prevalentemente legati all’universo maschile, e ricostruisce la New York benpensante, bigotta e puritana di fine Ottocento, con un’ambientazione che a tratti ricorda Il Gattopardo di Visconti e per cui la costumista Gabriella Pescucci vinse il Premio Oscar. Opera pluripremiata, raggiunge l’obiettivo di dissacrare senza pietà, attraverso lo sguardo di Edith Wharton, un mondo, quello dei ricchi notabili newyorkesi, che da tempo ha perso l’innocenza, vive di consuetudini e costumi superiori alla legge, di etichetta e galateo che disciplinano i sentimenti umani, frivolezze, matrimoni combinati al solo scopo di incrementare le ricchezze familiari e relega la donna al ruolo di fattrice, una volta sposata, per la quale si reputa che l’istruzione non sia necessaria. A pensarci bene, questo film non si discosta, se non per l’ambientazione, dai precedenti e successivi di Scorsese, in cui il regista con lontane origini palermitane ripetutamente descrive la violenza dei condizionamenti dell’ambiente in cui una persona è costretta a vivere, segnatamente, nei suoi primi lavori, le gang di Little Italy.

Dalla pellicola al libro il percorso è stato naturale e penso che questo sia uno dei pregi dei film, delle fiction e delle serie che si ispirano ai testi: incuriosirci e spingerci a leggere per conoscere più da vicino personaggi, autori e autrici che hanno portato alla realizzazione. L’età dell’innocenza, il cui titolo è stato suggerito a Wharton da un dipinto di Joshua Reynolds, è l’occasione, come in molti altri suoi scritti, per mostrare il declino della vecchia aristocrazia di New York, l’“elaborata futilità” di un mondo fondato sul potere dei soldi e dei profitti finanziari, in cui il lavoro pare scomparso, se non nelle descrizioni della servitù, e in cui i rapporti interpersonali sono uniformati a regole imposte dalle convenzioni, che qui hanno una rilevanza superiore persino alle leggi. Wharton, soprannominata dai suoi amici “l’angelo della devastazione” e “l’aquila”, racconta l’aristocrazia immobiliare come una tribù (termine da lei usato) tutta impegnata ad eliminare l’elemento di disturbo, quello che potrebbe mettere in crisi l’impalcatura perbenista e borghese delle convenzioni che imprigionano la libertà individuale.
Attraverso la trama del romanzo si può scorgere tanto della vita di questa donna eccezionale rispetto ai tempi in cui è vissuta. Newland Archer, avvocato newyorkese, rampollo di una famiglia bene, sta preparandosi al matrimonio combinato con May Welland, nel film bruna e nel libro bionda, interpretata da Wynona Ryder, giovane appartenente a una famiglia ricca della città. I due si sono parlati pochissimo, come è tradizione, ma va bene così in una New York in cui la vita è tutta permeata dalle apparenze e dal buon gusto di nascondere i propri pensieri, non esplicitandoli mai. «Essi vivevano tutti in una sorta di mondo geroglifico, dove ciò che era reale non veniva mai detto o fatto e neppure pensato, ma era semplicemente rappresentato attraverso un sistema di segni arbitrari», osserva Wharton. Archer è un giovane apparentemente molto integrato nella società che frequenta, di cui condivide il perbenismo e gli atteggiamenti elitari. A sconvolgere la sua vita e a mettere in discussione tutta la costruzione artificiale su cui questo mondo al tramonto si regge, sarà l’apparizione di Madame Olenska, cugina di May, tornata dall’Europa a New York dopo il matrimonio fallito con il Conte Olenskj, uomo violento ed infedele. Madame Olenska, che nel libro è bruna ed ha in sé qualcosa di esotico, mentre nel film è bionda e viene impersonata da Michelle Pfeiffer, ha avuto il coraggio di lasciare il marito, da cui vuole addirittura il divorzio, contemplato dalle leggi statunitensi ma osteggiato dal bigottismo dell’ambiente ”bene” newyorkese.

Ospitata da un’altra figura eccentrica e per certi aspetti aperta come Mrs. Manson Mingott, zia di Ellen e di May, vedova amministratrice del patrimonio familiare, che per prima intuisce l’attrazione di Archer per Madame Olenska e le lascia una parte di eredità in modo che possa, nel momento più difficile, mantenersi da sola, Ellen dunque, cosmopolita e spirito libero, con la sua vita da bohémien rappresenta la persona da emarginare perché ha avuto il coraggio di lasciare il marito, tuttavia non ostracizzato da questi benpensanti, e di scegliere una vita diversa, a partire dagli abiti che indossa e dalle persone che frequenta. Fra queste Mr. Beaufort, spregiudicato banchiere, in privato criticato per i suoi costumi ma accettato dal “bel mondo” per le sue ricchezze, almeno fino a quando la buona sorte lo accompagnerà. Archer gradualmente acquisisce la consapevolezza della fatuità del mondo cui appartiene, di cui la stessa May è una rappresentante perfetta, e della gabbia in cui è stritolato, prima quella della famiglia e poi quella della società; farà pure i conti con il sentimento che prova per Madame Olenska, cercando per ben due volte di uscire dalla prigione in cui è costretto, ma entrambe le volte sarà sopraffatto da eventi che lo costringeranno a rinunciare. Olenska è colei che «vive nell’attimo in cui è felice». Per Archer sarà invece colei che «gli ha fatto intravedere dei lampi di vita vera, poi gli ha detto di continuare a viverne una falsa». Ma Madame Olenska, la “diversa”, quella che si veste di rosso mostrando le spalle, invece di indossare, come le altre, «una stretta armatura di seta e stecche di balena, con le maniche lunghe, la cui leggera apertura sul collo era riempita di balze di pizzo», quella che non sa fingere, che è sincera, che vuole essere sé stessa, sa che la loro è una storia impossibile in una società infarcita di convenzioni e restìa ad ogni cambiamento. «Per noi? Ma non esiste nessun noi in quel senso! Siamo vicini l’uno all’altra soltanto stando lontani. Così possiamo essere noi. Altrimenti siamo soltanto Newland Archer, il marito della cugina di Ellen Olenska, ed Ellen Olenska, la cugina della moglie di Newland Archer, che cercano di essere felici alle spalle di quelli che confidano in loro». «Ah, io sono al di là di questo» gemette lui. «No, non lo sei! Non lo sei mai stato. Io sì».
E in una cena finale, data in onore della partenza di Madame Olenska per l’Europa, in cui sarà ben chiaro sia a Newland che a Ellen che l’attrazione tra loro era ormai nota a tutto il mondo delle feste newyorkesi e alla stessa moglie May, i due faranno i conti con la violenza di questa società. Come scriverà Edith Wharton: «C’erano cose che andavano fatte, e se fatte, andavano fatte bene e fino in fondo; e una di queste, nel codice della vecchia New York, era il raduno tribale intorno a un’appartenente della famiglia che stava per essere eliminata dalla tribù». E ancora: «Era il sistema della vecchia New York, quello di uccidere senza spargimento di sangue; il sistema adottato da gente che temeva lo scandalo più dei malanni, che anteponeva la rispettabilità al coraggio, che giudicava che niente fosse più incivile delle scenate, tranne il comportamento di coloro che le provocavano». Il libro si caratterizza per una accurata e quasi maniacale esposizione delle cose. Piatti, bicchieri, zuppiere, posate, oggetti d’arredamento, quadri, capi di abbigliamento sono descritti con minuzia, a significare l’importanza che l’aristocrazia newyorkese dà all’ostentazione della ricchezza.

Il romanzo si chiude a Parigi, venticinque anni dopo la partenza di Ellen. La moglie di Archer è morta, ma ha chiesto al figlio Dallas, uno dei tre nati nel matrimonio, di andare a fare visita a Madame Olenska, insieme ad Archer, riferendogli del profondo affetto che legava i due. Ma anche in quest’ultima circostanza Archer non agirà. Preferirà stare seduto su una panchina ad osservare la finestra dell’appartamento in cui vive Madame Olenska, senza avere il coraggio di affrontarla, e si vedrà scorrere davanti «i rimpianti imbambolati, i ricordi di una vita inarticolata». Archer è il prototipo dell’inetto, colui che vede e capisce tutto con lucidità ma non fa nulla. «Sapeva di aver perso qualcosa, il fiore della vita».
Molto della vita e delle esperienze di Wharton si intravvede nelle vicende e nei personaggi raccontati nell’opera. L’autrice di L’età dell’innocenza era nata in una famiglia assai ricca, i Newbold-Jones, perfettamente introdotta in quella società che avrebbe massacrato nei suoi libri e secondo la quale l’unico scopo nella vita di una donna era fare un buon matrimonio. Per sua fortuna, a quattro anni, Edith, unica femmina dei tre figli avuti dalla coppia, si trasferì con la famiglia in Europa, a causa di problemi legati alla svalutazione del dollaro. In Francia, Germania e Italia apprese il francese, il tedesco e l’italiano, grazie alla sua predisposizione per le lingue, e si educò alla bellezza, nell’arte, nella letteratura, nell’architettura. Tornata nel 1872 in America, fu finalmente ammessa alla biblioteca del padre, sotto la guida di Anna Catherine Bahlman, che già era stata sua insegnante di tedesco. Le voci degli autori e delle autrici dei libri furono, come da lei stessa ammesso, la sua principale compagnia durante l’infanzia. A quattordici anni, con lo pseudonimo di Davide Oliveri, scrisse il primo libro, senza l’appoggio della madre, che le impedì inspiegabilmente una serie di letture, tra cui Edgar Allan Poe, «quell’ubriacone depravato di Baltimora», o Herman Melville, tagliato fuori dalla migliore società cui pure apparteneva «per la deplorabile vita da bohémien che conduceva». A 17 anni Edith entrò nel mondo dei party e dei balli, che cominciò a starle presto stretto.

A 23 anni nella società misogina in cui viveva, dopo avere interrotto un fidanzamento, era già definita old maid, sinonimo di “vecchia zitella”, per questo, seppure di malavoglia, nel 1885 capitolò e sposò un banchiere di tredici anni più vecchio di lei, Edward Robbins (Teddy) Wharton, che oggi definiremmo “diversamente giovane” e a cui inizialmente la legavano «la febbre per i viaggi», l’amore per gli animali, e significativamente per i cani, e l’interesse per l’architettura. I due viaggiarono moltissimo. Stanchi della frivolezza di Newport, nel 1901 acquistarono The Mount, una tenuta a Lenox, in Massachussets. Edith, che aveva anche grandi attitudini per il design e l’architettura, ne progettò la costruzione e i giardini, insieme all’architetto con cui aveva scritto La decorazione della casa.
Vi abitò fino al 1911, alternando i soggiorni in campagna a quelli in una piccola residenza di New York, che si divertì ad arredare, facendo di The Mount il luogo di incontro di artisti, poeti, scrittori, intellettuali, con cui amava confrontarsi e con alcuni dei quali intrattenne delle amicizie profonde, tutte maschili, che nutrirono e arricchirono il suo animo. «Cos’è la nostra personalità, avulsa da quella degli amici a cui siamo legati dal destino? Non posso pensare a me stessa a prescindere dall’influenza delle due o tre più grandi amicizie della mia vita, e ogni momento della mia crescita è segnato dalla loro influenza stimolante e illuminante. Da un’infanzia e una gioventù di completo isolamento intellettuale – così completo che mi aveva abituato a non sentirmi mai sola, eccetto che in compagnia – entrai, sui trent’anni in un’atmosfera di rara comprensione e di un cameratismo intellettuale straordinariamente ricco e vario» scrive Wharton nella sua autobiografia, Uno sguardo indietro. Ma The Mount, che oggi è un luogo assai visitato, servì a Edith anche per praticare l’arte del giardino e il giardinaggio, per i quali, nonostante la forte passione per la scrittura, si sentiva molto più dotata.

Il rapporto col marito si stava progressivamente deteriorando: i primi segni della malattia mentale, le sue crisi ricorrenti, il problematico rapporto col denaro e le numerose relazioni convinsero Edith Wharton ad andarsene e a chiedere il divorzio, che ottenne nel 1913. Come non vedere nella sua biografia alcuni tratti di Madame Olenska? L’ostilità e la resistenza della famiglia del marito ad ammetterne la malattia mentale furono occasione di dolore e problemi per Wharton che però fermamente perseguì nella volontà di divorziare, pur mantenendo il cognome da coniugata. Cercò allora consolazione dai momenti di depressione e tristezza, già conosciuti in precedenza, nella scrittura, nel suo rapporto con la natura e nelle parole degli amici. «Ah, bella conversazione ― non c’è niente di simile, vero? L’aria delle idee è l’unica aria che vale la pena respirare».
Tra il 1906 e il 1909, Edith Wharton aveva conosciuto e frequentato il giornalista spregiudicato, bisessuale, libertino e grande seduttore Morton Fullerton, secondo molti studi l’unico amore della sua vita. Un interessante libro, L’educazione sessuale di Edith Wharton di Gloria C. Erlich, pubblicato dalla California University Press nel 1992, ne analizza la vita erotica, fortemente inibita in adolescenza e giovinezza ed esplosa, inevitabilmente, nella mezza età e indirizzata verso un tipo di uomo così diverso da quelli da lei abitualmente frequentati. Wharton, alla fine dell’affair, impose a Fullerton di distruggere il loro epistolario, ma il giornalista conservò tutte le lettere che nel 1988 furono pubblicate in un volume, Lettere a Morton Fullerton.
Attratta dalla bellezza, dall’arte, dai giardini e dall’architettura, instancabile viaggiatrice, soprattutto in Europa (Francia, Italia, Spagna e Inghilterra) ma anche nel Mediterraneo e nell’Egeo, di cui si innamorò, Edith Wharton aveva scoperto l’arte di “inventare” fino da piccola e scrisse, tra il 1897 e il 1937, un libro all’anno, in totale 48 opere. Tra i suoi libri più famosi La casa della gioia, Ethan Frome, forse il più bello, quello dopo il quale finalmente sentì di possedere gli strumenti della scrittrice, Tetralogia di New York, Un figlio al fronte, I bambini e Arrivano gli dei. Curiosa del mondo, pare sia stata la prima donna a raggiungere il Monte Athos, fino a quel momento precluso al genere femminile, e ancora la prima ad entrare in un harem in Marocco.
La fama arrivò quando aveva 59 anni con L’età dell’innocenza con cui si aggiudicò il Premio Pulitzer nel 1921, interrompendo la serie dei riconoscimenti dati a uomini. Dopo la separazione dal marito, Wharton si era trasferita permanentemente in Francia, nonostante lo scoppio della Prima guerra mondiale. Qui aveva approfondito la conoscenza di Henry James, cui la legava da tempo un sodalizio spirituale e intellettuale fortissimo, e qui fondò una rete di organizzazioni umanitarie e di aiuto alle persone in difficoltà, tra cui dei laboratori per lavoratrici disoccupate e senza assistenza, case per convalescenti dalla tubercolosi, ostelli americani per rifugiati e scuole per bambine/i che fuggivano dal Belgio devastato dal conflitto. Per questa sua attività di benefattrice già nel 1916 era stata insignita della Legion d’Onore dal governo francese. Fu tra i pochi scrittori, scrittrici e giornalisti/e ammesse alle linee del fronte divenendo una testimone diretta della realtà della guerra.

Le sue due case francesi divennero luoghi frequentati da giornalisti e autori che contribuirono ad accrescerne la fama.
Negli ultimi anni della sua vita si era dedicata al giardinaggio, alla scrittura e alle conversazioni. Le tante amicizie maschili da lei coltivate con passione rappresentarono forse tutte insieme il ruolo del marito che avrebbe voluto per sé, mentre quasi completamente assenti furono quelle femminili.
Nel 1923 andò a Yale per ritirare la laurea ad honorem.
Donna carismatica, amante dei cani e delle automobili, intellettualmente fervida, vorace e insaziabile lettrice e viaggiatrice (pare abbia attraversato l’Atlantico 40 volte), mai divenuta madre biologica ma forse “antenata” di tanti scrittori e scrittrici attraverso i suoi libri, lasciò incompleta l’ultima opera, I bucanieri. La sua carriera di romanziera non fu mai particolarmente capita e apprezzata dalla famiglia; come lei stessa ha ricordato: «Per la nostra società provinciale, la professione di scrittore era considerata qualcosa tra la stregoneria e una forma di lavoro manuale… Ma io sono sicura che l’elemento principale della loro riluttanza nei confronti della letteratura, era il terrore dello sforzo intellettuale che avrebbe potuto richiedere». E ancora: «Nessuno dei miei parenti parlava mai con me dei miei libri, né per elogiarli né per criticarli – semplicemente li ignorava; e nell’immensa tribù dei miei cugini di New York… l’argomento era evitato come se si trattasse di una vergogna familiare, che si poteva perdonare, ma non dimenticare…». Eppure Gore Vidal ebbe a scrivere di lei: «Ci sono solo tre o quattro romanzieri americani che possono essere pensati come “major”. Uno di questi è Edith Wharton».
Morì l’11 agosto del 1937 nella sua casa di Pavillon Colombe e fu sepolta nel Cimetière des Gonards in Versailles, vicino al grande amico Walter Berry, la persona che Wharton aveva definito «un’espansione, un’interpretazione di sé stessa, il significato stesso della sua anima», l’uomo che non solo l’aveva incoraggiata a scrivere, ma le aveva insegnato come scrivere, spesso criticandola, come ogni vero amico deve fare, e invitandola a perfezionare il suo stile. Quattro donne e un uomo hanno scritto le sue biografie: Connie Nordhielm Wooldridge, Hermione Lee, Eleanor Dwight, R.W.B. Lewis, Shari Benstock.

Di Wharton non si possono non apprezzare la grande libertà e la capacità di osservare con sguardo di genere i difetti della società in cui vive, che la costringe ad allontanarsene spesso per la più aperta e riconoscente Europa e a cercare la sua strada di scrittrice e designer, prima, reporter di guerra e benefattrice, poi. Tuttavia non si può non sottolineare, come ha recentemente fatto Jonathan Franzen, che tutto quello che riuscì a fare in vita (viaggi, design, giardinaggio, scrittura, giornalismo, impegno sociale) fu fortemente facilitato dalle sue possibilità economiche. Sicuramente Newbold Jones Wharton aveva più di una stanza per sé: le 36 di The Mount, da lei stessa progettate, per scrivere e pensare.

Il suo temperamento non era dei più facili, pare abbia scritto una lettera infuocata per far licenziare un commesso che in un negozio si era rifiutato di darle un ombrello, ed era sicuramente anche un po’ snob. Inguaribilmente conservatrice ed ostile al socialismo, si allontanò da Theodore Roosevelt, che pure apprezzava e stimava, quando le sue idee politiche le sembrarono troppo populiste. Tutto ciò però non toglie a questa donna coraggiosa e geniale il merito di averci lasciato libri in cui lo sguardo femminile è tanto critico, introspettivo e profondo e di essere stata una voce autorevolissima e pensante della letteratura americana, che nulla aveva da invidiare ad Henry James. Che cosa ci insegnano le donne descritte da Edith Wharton come Madame Olenska? Che il processo di individuazione di una persona, che prescinde dall’approvazione e dal consenso dell’ambiente in cui vive, è l’atto più rivoluzionario che si possa compiere, anche a costo di grandi sofferenze. «Ci sono due modi di diffondere la luce: essere la candela oppure lo specchio che la riflette». Newbold Jones Wharton ha mostrato a tutte noi che si può scegliere che cosa essere.
Sapeva di aver perso qualcosa, il fiore della vita
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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Avvocata per caso, docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.