La musica delle parole

Se amate la musica o la letteratura o, meglio, entrambe il libro per voi è Accordi strani. Intrecci tra letteratura e musica di Caterina Valchera, uscito alla fine del 2021. L’autrice, amante della musica fin da bambina e insegnante di letteratura, prende le mosse dall’ipotesi che nella produzione di alcuni romanzieri del Novecento, tutti appassionati dell’arte dei suoni e non soddisfatti delle loro abilità strumentali, la presenza della musica risponda ad una sorta di amore non esaudito, di nostalgia, di invidia che provano verso di essa, di cui imitano e riproducono le sonorità nella scrittura e di cui si “vendicano”, facendone il medium di sentimenti negativi. La selezione degli autori, tra i molti e notissimi che, tra Otto e Novecento, fanno riferimento alla musica, risponde a questo criterio: in essi «l’arte dei suoni è presente in modi obliqui […] talvolta “oltraggiosi”. […] L’approccio musicale [qui risulta] straniante, pieno di inquietudini e interrogativi di senso. Sembrano rivendicazioni di amanti delusi».

Il libro è diviso in sezioni (Preludio, Intermezzo, Coda, Silenzio) che riprendono la struttura di una composizione musicale e ha esso stesso una scrittura musicale, armonica, ricca, sontuosa, analitica e chiara; l’autrice, da insegnante qual è, oltre a compiere incursioni nei campi limitrofi della filosofia e delle arti visive e del cinema, scava nei testi proposti, ne mostra la tessitura, gli intrecci, i crescendi, i diminuendi, gli accordi, appunto; e proprio questa è la peculiarità del volume: non si rintracciano, nelle opere esaminate, solo contenuti o teorie musicali, ma si studia la lingua che “si fa” musica, in una gara della scrittura con l’ «invisibile potere dei suoni contro la prigionia delle parole». Joyce, Svevo e Kafka sono gli autori presenti nella parte prima Tra modernità e modernismo; nella seconda, dedicata ai Contemporanei, l’autrice esamina minuziosamente le opere di Ishiguro, McEwan, Barnes, Bernhard e Jelinck. Darò ora un assaggio di quel che troverete, se vorrete leggerlo.

Come accennavo sopra, la musica è, per questi scrittori, medium di sentimenti negativi: vorrei fare qualche esempio. Il Gregor di Kafka, già trasformato in insetto ma dotato di un orecchio finissimo e di passioni umane, evidenziate proprio dall’amore per la musica perché «chi ama la musica non può essere una bestia», vede in essa una possibilità di redenzione e di avvicinamento a Greta, l’amata sorella violinista. Ma la sua speranza viene delusa: Greta non lo riconosce, vuole solo sbarazzarsi, con orrore, di lui: nella musica, come nella letteratura, c’è solo l’illusione della salvezza e nient’altro. La musica è promessa, non mantenuta, di riscatto anche nel romanzo Gli inconsolabili di Ishiguro, inconsolabili sono Ryder, il protagonista, e l’umanità intera: noi tutti viviamo una “condizione” in cui siamo stati “gettati”, siamo disorientati, ci muoviamo cercando di dare un senso a ciò che facciamo, ma giriamo a vuoto, siamo criceti in gabbia, come Ryder, che non dirige la propria vita ma è diretto e, quale banderuola, finisce per fare solo ciò che gli altri vogliono da lui. Egli, pianista affermato, è chiamato in una misteriosa città ad eseguire un concerto che, per non si sa bene per quale ragione, dovrebbe liberare l’intera comunità dall’apatia in cui è immersa. La musica dunque è anche qui promessa di riscatto: per la cittadina, per Ryder, che finalmente e per la prima volta suonerà davanti ai suoi genitori, per Stephan, pianista dilettante che introdurrà il concerto e che deve affrancarsi dal giudizio pesantemente negativo che la madre ha di lui. Ma Ryder non suonerà, la salvezza non ci sarà, la musica «non lenisce gli animi, non li consola di nulla, li coopta piuttosto in un percorso ripetitivo fatto di disciplina e fatica; è il medium delle relazioni, ma si esprime come potere e dominio». Il disorientamento che ci avvolge nel leggere questo romanzo è costruito attraverso una modalità di scrittura con cui Ishiguro «cerca di riprodurre un labirinto musicale, una musica senza dinamica reale». Lo scrittore costruisce, come in un quadro di Erscher, in cui ci si perde ma da cui non si sfugge, «un intrico di piani narrativi come tanti piani sonori in cui si fatica a riconoscere la linea melodica, rovescia il potere della musica, che è il tempo e le sottrae il ritmo; non dilata […] il significante, ma l’insignificante, dichiarando la certezza che basta un niente per mandare tutto a carte quarantotto».

Nel romanzo Amsterdam di Ian McEwan la musica diventa uno schermo, un filtro che allontana dalla vita reale, altera le relazioni con gli altri e con noi stessi. Clive, il protagonista, cerca nella musica «un modo per negare la casualità che ci domina, per tenere a bada la paura della morte»: è un’illusione a cui sacrifica persino la sua coscienza etica non intervenendo a soccorso di una donna di cui sente le grida di aiuto. Analogo il meccanismo narrativo di Chesil Beach, i cui protagonisti, due sposi, hanno gusti musicali assai diversi; lei ama la musica colta, che richiede rigore, disciplina, esercizio, lui invece il blues elettrico, presentato come più libero e passionale: qui McEwan usa la musica per costruire caratteri e per simboleggiare un atteggiamento drammaticamente dis-corde verso la vita e verso il sesso che li porterà a una frattura insanabile. Il contrasto è reso con una scrittura di cui l’autrice, con opportune citazioni, mette in luce il lessico, ricco di termini rubati al vocabolario musicale, l’uso di schemi contrappuntistici, le pause e i silenzi, i crescendi e diminuendi, ma in particolare, osserva Valchera, McEwan pensa per “duine” (una coppia di note che va suonata nello stesso tempo di un gruppo di tre): come questa ha in sé un elemento mancante così le coppie protagoniste hanno al loro interno uno scompenso che genera fraintendimenti e delusioni.

Il soccombente di Bernhard è uno spartito duro, ossessivo, rabbioso. La musica è presentata come un Moloch inarrivabile che richiede sacrifici e non ammette mezzi termini, pretende l’oblazione totale di sé stessi, concede benevolenza e perfezione solo a pochi eletti (ad esempio a Glenn Gould, che non è un pianista, ma «è il pianoforte»); per gli altri «la vita in musica, oltre che ”sudore”, è “gabbia”, prigionia, autoesclusione, segregazione sociale: in una sola parola, violenza». Con uno stile aspro e tagliente, Bernhard «introduce la dinamica terribile e umanissima tra estasi della perfezione e disordine dell’imperfezione permanente, miserevole e disgustosa » fino all’epilogo, vendicativo e crudele, che è «il precipitato di tutta la ferocia accumulata». Altrettanto crudo, “roccioso” è lo stile di Elfriede Jelinek nel romanzo La pianista. Ma la scrittura è intessuta di musicalità: Jelinek, rompendo e distorcendo il senso e l’etimologia delle parole, gioca sui significanti, costruisce una «lunga onda sonora, ”partiture” di linguaggio», applica alla scrittura meccanismi presenti nella musica, per esempio «amplificazioni inaudite, ripetizioni ossessive di temi emotivi, in un gioco contrappuntistico che tende a implodere su sé stesso». Alla durezza dello stile corrisponde quella dei contenuti: come già per Stephan e Ryder negli Inconsolabili, anche in questo romanzo il rapporto della pianista, Erika, con la madre-tiranna è disturbato e inquietante: quest’ultima vorrebbe fare della figlia una concertista famosa, «anzi l’unica, l’eccelsa», la musica è per lei uno strumento di dominio; questo genera in Erika un atteggiamento ambivalente: ama la musica, «gode solo della musica», ma la usa per vendicarsi. Mai amata, è incapace di amare e riproduce nei confronti dei suoi allievi le stesse modalità persecutorie, inflessibili che ha subito; è perfezionista, maniacale, esalta e idealizza il suo mestiere ma spesso lo denigra e lo deride. La musica insomma è spirito maligno, «veicolo di annientamento», strumento di sopraffazione e di dominio, sottofondo alle ambigue avventure voyeuristiche di Erika, una “Sade al pianoforte”; in questo romanzo, che “trasuda” musica, quest’ultima diventa oggetto di derisione, deformazione, subisce l’agguato permanente che le tende la protagonista.

Chiudo il cerchio tornando al primo scrittore analizzato nel volume. Valchera, nell’esaminare l’Ulisse, che «è un’immensa partitura», mostra quanto la rottura e la ricostruzione della lingua messe in atto da Joyce siano debitrici alla sua competenza musicale; egli gioca con i suoni, con le assonanze, crea  una musicalità con la lingua, che ritrova semanticità non nel rapporto tra significante e significato, ma nella possibilità di intuire il senso lasciandoci trasportare dal flusso delle parole. L’autrice ce lo spiega indicandoci esempi di esplosione pirotecnica di onomatopee, troncamenti, prolunghe delle finali (come corone poste sull’ultima nota di uno spartito, scrive): una sorta di infinito recitar cantando. Smonta la scrittura di Joyce per mostrarcene il meccanismo: ci indica le corrispondenze tra la scomposizione della linea melodica che si ha nella musica del Novecento e la costruzione linguistica dell’Ulisse, ne analizza la struttura a canone con intrecci di voci, fughe, riprese, sprigionarsi di «scintille sonanti». Particolarmente affascinante, esemplificativa del tipo di lavoro portato avanti con questo libro, è l’analisi del capitolo Le Sirene, definito «polifonia riportata su carta non pentagrammata»: qui siamo guidati passo passo ad ascoltarne i suoni, di cui è intessuta tutta la pagina, come in una lezione affascinante, scintillante, ricca di riferimenti, ad esempio quello a Walt Disney, inconsueti e attrattivi. In conclusione, un lavoro interessante, da leggere per il taglio innovativo, per l’accuratezza dell’analisi, per la vivacità e musicalità dello stile; un’opera che ha anche un altro, non trascurabile, pregio: ci incuriosisce e ci spinge a leggere, o a rileggere, i libri di cui parla.

Caterina Valchera
Accordi strani. Intrecci tra letteratura e musica
Bonanno editore, Acireale-Roma, 2021
pp. 170

***

Articolo di Angela Scozzafava

Si è laureata in filosofia della scienza con il prof. Vittorio Somenzi e ha conseguito il Diploma di perfezionamento in filosofia.  Ha insegnato — forse bene, sicuramente con passione — in alcuni licei. Ha lavorato nella Scuola in ospedale, ed è stata supevisora di Scienze Umane presso la SSIS Lazio. Attualmente collabora con la Società Filosofica Romana; scrive talvolta articoli e biografie; canta in cori amatoriali e ama i gatti.

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