Con le note e le parole di una compositrice: intervista ad Ada Gentile

Le arti tutte permettono al pubblico di immedesimarsi nel ruolo dell’artista e di condividere per un tempo limitato il suo personale modo di percepire e interpretare il mondo. Attraverso l’arte della composizione Ada Gentile unisce i sensi della vista e dell’udito in un’unica formula musicale suggestiva. Chi legge in fretta lo coglie dai titoli evocativi delle sue opere, quali a esempio Adagio per un’estate (1998), Un’ombra si scioglie (2010), Scaglie di mare (1996); chi fruisce attentamente lo sente e comprende all’ascolto.

Nata ad Avezzano nel 1947, romana di adozione, dal 2013 Ada Gentile vive e opera ad Ascoli Piceno, nelle Marche; dalla sua matita sono nate più di novanta composizioni per pianoforte, per strumenti solisti, per formazioni cameristiche, per orchestra, eseguite in tutto il mondo. Influente nello scenario artistico italiano ed estero, continua a promuovere nuovi/e giovani musicisti/e attraverso importanti iniziative culturali come il festival di musica contemporanea Nuovi Spazi Musicali, diretto da lei stessa e attivo dal 1978. Oggi racconta della sua carriera e dei progetti futuri.

Lei ha studiato pianoforte e composizione prima al conservatorio con Irma Ravinale e dopo presso l’Accademia di Santa Cecilia con Goffredo Petrassi. Quando ha scelto la strada della composizione? C’è un qualcosa che non ha trovato in altri autori e che ha sentito di comunicare con la sua scrittura oppure è stata una decisione derivata da altro?
È stata una pura casualità perché io sono nata pianista, ma in quel periodo avevo conosciuto Irma Ravinale e avevo capito che lo studio della composizione avrebbe aiutato molto lo studio del pianoforte poiché chiaramente fornisce una formazione più completa. Pian piano la vita mi ha spostato verso la composizione. Se non avessi conosciuto Irma Ravinale, con la quale avevo studiato armonia complementare, non avrei avuto la curiosità di iscrivermi al suo corso di composizione al conservatorio. A quei tempi, negli anni Settanta, si poteva scegliere solo un corso rispetto a quanti se ne possono scegliere oggi. Studiavo pianoforte con il maestro Agosti e privatamente con il maestro Satta. Contemporaneamente Ravinale mi volle come sua allieva al corso di composizione. Ero l’unica ragazza a quel corso a Santa Cecilia ma allora ce n’erano pochi di allievi. Questo mi pesò abbastanza all’inizio perché io provengo da una famiglia di dieci figli con sette fratelli. Lei può immaginare! Non ho mai avuto amicizie femminili in vita mia; le mie sorelle erano già grandi e non potevo parlare delle mie cose. In classe avevo dei colleghi carini e non mi hanno fatto sentire il peso di questo.

Nel momento in cui ha scelto la strada della composizione, quando è riuscita a distaccarsi dalle composizioni ascoltate e suonate da altri autori per scriverne delle nuove che avessero un suo linguaggio, una sua impronta?
Devo dire che l’ho imparato subito a scuola. La docente Irma Ravinale è stata una grande insegnante e forse oggi c’è una mancanza di questi insegnanti. Ravinale è stata, come Petrassi, estremamente controllata da un punto di vista normativo: certe cose andavano formulate in un certo modo. Tu scrivevi una libera composizione e lei non toccava nulla: dovevi capire tu. Lei non interferiva e questo è stato importante: c’è stata una libertà compositiva importantissima che oggi ogni professore dovrebbe promuovere. Tutti gli allievi di Ravinale e Petrassi hanno raggiunto un linguaggio proprio e non si assomigliano. È fondamentale avere una mentalità libera.

In un’intervista andata in onda su Rai5 poco tempo fa ha dichiarato l’importanza della sperimentazione nella sua scrittura. Una scrittura che rispecchia il suo modo di parlare e quindi rivolta al presente. Ha mai pensato a delle colleghe del passato come Lili e Nadia Boulanger? Lili è stata la prima donna a vincere nel 1913 il Prix de Rome di composizione musicale: pensa sia cambiato qualcosa nel modo di comporre? Parlo della possibilità di comunicare attraverso la musica e di imporre la propria figura in un mondo in cui si è parte di una minoranza.
La libertà della matita che si poggia sul foglio bianco è molto importante, lo ripeto. Ho amato tantissimi compositori e alcuni di essi sono stati dei modelli di riferimento. In particolar modo i musicisti dell’Est Europa: da György Kurtág a György Ligeti. Si tratta di due compositori diversi dal punto di vista di formazione. Gli ungheresi per esempio amano Kurtág perché non si è mai mosso da là. Lui venne al nostro festival negli anni Ottanta. Ligeti invece non è il compositore ufficiale dell’Ungheria perché ha sempre vissuto fuori e si è spostato ad Amburgo. Per me il secondo quartetto di Ligeti è come il quartetto op.135 di Ludwig van Beethoven. Quando lo dico tutti si scandalizzano! Invece è così: una scrittura così raffinata è importante. È difficile trovare qualcuno che lo suoni, non per difficoltà, ma proprio per entrare in questa scrittura e in questo linguaggio. Ho quindi sentito l’influenza di un Ligeti, ma marginalmente. Se vede un mio quartetto degli anni Ottanta sembra scritto oggi: non ho mai tradito la mia scrittura. Certo, oggi ho una mentalità più raffinata, una conoscenza maggiore, una scaltrezza: un mestiere che non si può avere a trent’anni quando si comincia. Quindi c’è stata sempre molta riflessione e coerenza.

Da diversi anni forma giovani interpreti, compositori e compositrici: qual è l’insegnamento a cui dà la priorità?
Il ruolo primario della ricerca. L’ultimo programma del festival Nuovi Spazi Musicali è squisitamente italiano, dato anche dalle circostanze. Io ho sempre un occhio per i e le giovani, anche qui ad Ascoli. Proprio qui ha debuttato Giuseppe Gibboni, vincitore del Premio Paganini; ma anche Elia Cecino che ha vinto il Premio Venezia. Il pubblico sembrava da stadio! C’è stato un riconoscimento e sono stati molto attenti. Alla rassegna Domenica in musica ho portato in platea un ragazzino di sedici anni. Gli ho consigliato dei pezzi di grandi autori come Sergej Sergeevič Prokof’ev e Sergej Vasil’evič Rachmaninov, adatti alla sua tecnica, ma anche opere di compositori contemporanei italiani. Gli consigliai un pezzo dell’artista cremonese Gabrio Taglietti: una trascrizione di Bach. Si trattava di un lavoro di un’ora. Ha avuto un grande successo! Proprio ieri mi è venuto in mente di fare un omaggio a Goffredo Petrassi, il mio maestro, ma non è facile. Per tale motivo ho proposto a questo ragazzo una conferenza, con un repertorio che include la toccata di Petrassi. Si tratta di cose non difficilissime all’ascolto ma che mi permettono di fargli comprendere il contemporaneo.

Ha una sua prassi nella ricerca? Un suo modo di procedere nello scrivere musica?
Assolutamente sì: anzitutto la ricerca sul suono. Non uso l’elettronica ma mi piace il suono mutuato dall’elettronica. Se ascolta qualche pezzo ci sono dei suoni che sembrano creati con il mezzo elettronico. Il procedimento… Io posso stare mesi senza scrivere. Scrivo solo su commissione e l’ultimo pezzo l’ho scritto due anni fa. Ora sto rifiutando molte cose perché il Covid ha lasciato qualche strascico a livello psicologico. Non potersi muovere mi fa sentire incatenata. Il primo insegnamento che ho ricevuto è che non si deve scrivere al pianoforte. Se devi scrivere per orchestra, per esempio, devi avere il materiale immagazzinato nella mente. Quindi mi limito al pensiero. Però quando metto per iscritto la pallina nera sul foglio bianco non devo più cancellarla! È successo poche volte nella mia carriera, forse con il metronomo, e non ne sono stata soddisfatta. In genere la nota è fissata e quella rimane perché detesto toccare i miei pezzi.

Fra le sue composizioni, se dovesse tenere un concerto oggi, quale presenterebbe data la circostanza in cui stiamo vivendo?
Proprio ora sto preparando una videoconferenza e ho scelto i pezzi più rappresentativi. Sicuramente un lavoro per orchestra che è abbastanza recente, di circa cinque anni fa: D’improvviso un giorno oppure Un’ombra si scioglie. Sono brani che ho scritto in occasione del 2001, delle famose Torri Gemelle: quell’evento mi ha sconvolto molto e in questi lavori ci sono un paio di citazioni dell’opera di Samuel Barber. Quello è stato un omaggio ai morti di allora e un omaggio a tutte le persone che soffrono.

Poco prima di salutarci, Ada Gentile racconta delle motivazioni che l’hanno spinta a trasferirsi ad Ascoli Piceno: una città viva artisticamente e possibile candidata a capitale della cultura. In passato, proprio qui, ha diretto il Teatro lirico.

Qual è stata l’accoglienza del pubblico di Ascoli Piceno?
È un pubblico che ho ritrovato. In quegli anni, nei programmi di sala, la musica contemporanea non è mai mancata. Anche il pubblico si è abituato. Qui è stata eseguita in prima assoluta un’operina di Ennio Morricone: quella musica assoluta di cui nessuno era a conoscenza. Suo figlio aveva studiato con me composizione. Il riscontro è stato notevole. Piano piano il pubblico è cresciuto e non credo ai direttori artistici che ritengono sia difficile proporre la musica contemporanea. Oggi i direttori artistici sono spesso burocrati più che musicisti. La musica contemporanea bisogna saperla programmare e bisogna saperla amare. La sonata op.106 di Beethoven è più difficile all’ascolto di un mio pezzo. Ma entrambi devi spiegarli e quando lo fai, tutto è più facile. Io programmo brani molto difficili all’ascolto ma propongo anche ascolti più vicini al gusto delle persone presenti. Col tempo ho imparato una cosa: più il concerto è difficile e più rimane in mente. Ho creato qualcosa di nuovo ed è stato molto importante. Sono soddisfatta! Tutto questo comporta anche una crescita del pubblico.

***

Articolo di Giuliana De Luca

Pianista e laureanda alla facoltà di musicologia di Cremona, insegnante di pianoforte e di educazione musicale alle scuole medie. Crede nella musica al di là del genere e dell’autore, per questa ragione la coltiva nella prassi e nella teoria. Dal 2021 scrive per documentare eventi musicali e per riportare alla luce protagoniste femminili che hanno contribuito a fare la storia della musica. 

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