Ida Pfeiffer, l’Islanda in solitaria

In quanto donna, Ida Pfeiffer non avrebbe potuto diventare un’accademica; è stata però un’appassionata viaggiatrice, contribuendo all’avanzamento di discipline scientifiche ancora poco praticate sul campo, quali l’etnologia e le scienze naturali. L’Islanda è la sua seconda meta, dopo la Palestina, prima di due giri del mondo e un ultimo viaggio verso il Madagascar; probabilmente a causa dell’importanza delle altre destinazioni il suo itinerario nelle regioni nordiche è caduto nell’oblio.

Nei primi mesi del 1845 Pfeiffer, che ha già 48 anni, si prepara coscienziosamente al soggiorno nell’estrema Thule: studia scienze naturali e impara le basi della tassidermia e della botanica, qualche rudimento di fotografia, l’inglese e il danese (l’Islanda è ancora governata dalla Danimarca). Attraverso Praga, Amburgo, Kiel raggiunge Copenaghen dove si imbarca su un cargo per l’Islanda nell’aprile 1845. Giunge sull’isola il 15 maggio e vi rimane fino al 29 luglio; accompagnata da guide locali esplora ghiacciai, vulcani, geyser, grotte e sorgenti sulfuree. Prima della partenza, l’autrice immagina la sua meta come una terra promessa: «Avevo scelto l’Islanda perché speravo che lì la Natura portasse abiti e ornamenti come da nessun’altra parte. Infatti mi sento completamente felice, in comunione con il mio Creatore, solo quando contemplo sublimi fenomeni naturali: una gioia così perfetta che non ha prezzo».
Nonostante sia consapevole dei suoi limiti culturali, l’autrice intende pubblicare un trattato sull’Islanda il più possibile completo: gli undici capitoli occupano un totale di quasi quattrocento pagine, corredate da precise tabelle chilometriche degli spostamenti, minuziose note spese, un’appendice sui salari dei militari danesi e due cataloghi delle piante e degli animali incontrati e da lei classificati durante il viaggio.

La trattazione di Pfeiffer si apre con una digressione storica, geografica e culturale di circa trenta pagine sul modello di Description of Iceland dello scozzese Steuart MacKenzie, uno dei rari esploratori che aveva visitato l’Islanda in precedenza, nel 1810. Questa struttura narrativa risponde ai criteri del tempo: le osservazioni dirette dovevano essere accompagnate da un adeguato supporto teorico già riconosciuto in ambito scientifico. Trattandosi, come afferma l’autrice, di un testo divulgativo, le informazioni si alternano continuamente con le sue impressioni: lettori e lettrici possono così condividere un gran numero di visioni inedite della vita quotidiana in quel Paese lontano. Il diario inizia ancora prima dell’attracco: «le coste dell’Islanda mi apparvero del tutto diverse da come le avevo supposte dalle descrizioni che avevo letto. Le avevo immaginate nude, senza alberi né arbusti, squallide e deserte, ma ora vedevo verdi colline, arbusti e persino quelli che sembravano essere gruppi di alberelli. Man mano che ci avvicinavamo potei distinguere gli oggetti più chiaramente, e le verdi colline divennero abitazioni umane con piccole porte e finestre, mentre i presunti gruppi di alberi si rivelarono in realtà cumuli di lava, alti circa dieci o dodici piedi, fittamente ricoperti di muschio ed erba. Ogni cosa era nuova e sorprendente per me».

Superato il primo stupore, Pfeiffer ritorna al suo ruolo di diligente studiosa e riassume lo scopo del suo resoconto: «Ho fatto escursioni in ogni parte dell’Islanda, e sono perciò in grado di presentare ai miei lettori, in ordine regolare, le principali curiosità di questo straordinario paese. Inizierò con le immediate vicinanze di Reykjavik». Le prime osservazioni riguardano le modalità di raccolta di fiori e insetti, «da conservare in alcol di vino»; quindi spiega con un esempio pratico la permanenza della luce nel mese di giugno: «Fino alle undici di sera potevo leggere la normale stampa nella mia stanza. Dalle undici all’una c’era una specie di crepuscolo, ma mai così buio da impedirmi di leggere all’aperto. Nella mia stanza potevo anche distinguere gli oggetti più piccoli e persino leggere l’ora. All’una potevo tornare a leggere nella mia stanza». Ben presto iniziano le escursioni all’interno, il vero scopo del viaggio. Sono spostamenti estenuanti, in groppa a un pony islandese: «Il mio cavallo era attento e di buona indole; mi trasportava con sicurezza su massi di pietra e voragini nelle rocce, ma non posso descrivere la sofferenza che mi causava la sua andatura». Infatti, come tutte le donne dell’epoca, Pfeiffer deve cavalcare all’amazzone, con entrambe le gambe sullo stesso lato. Le piogge sono frequenti: «se avevo sete, dovevo solo voltarmi e aprire la bocca», commenta ironicamente. Neppure le soste per il riposo dei cavalli le danno sollievo: «le lunghe gonne aspirano l’acqua dall’erba umida, e chi le indossa spesso non ha letteralmente un solo indumento asciutto». L’autrice riprende il suo ruolo didattico quando descrive i geyser, ma il paesaggio «infernale» è un tipico esempio di sublime che combina le sue sensazioni ai dati oggettivi, suscitando stupore e terrore al tempo stesso: si è immersi nel fango caldo fino alle caviglie, in mezzo a «molte pozze piene di acqua che ribolle», fra «sorgenti bollenti», «laghetti d’acqua bollente» e «montagne fumanti» dove «il ribollire e il sibilare del vapore produce un clamore assordante». Di fronte al geyser in azione l’esploratrice confessa tutto il suo stupore: «Tutte le mie aspettative e supposizioni sono state di gran lunga superate. L’acqua sgorgava verso l’alto con forza e volume indescrivibili; una colonna era più alta dell’altra, come se ciascuna volesse emulare l’altra. […] Il tutto durò quattro minuti, di cui la metà doveva essere stata occupata dall’eruzione stessa».

L’aspetto orrido e spaventoso della natura, in continua, sorprendente attività, persiste durante l’escursione al vulcano Heckla, attraverso «campi di lava, formati per lo più da piccole rocce e frammenti»; se il contrasto fra il candore della neve e il nero della lava è accecante, il panorama desolato è deprimente: «Ad ogni declivio ci si rivelavano nuove scene di deserti e malinconici quartieri; ogni cosa era fredda e morta, ovunque c’era lava nera spenta. In un orizzonte così vasto non vedere nient’altro che un deserto pietroso, un caos incommensurabile provocava una sensazione dolorosa». Infine, raggiunta la vetta, il panorama è deludente: « Sfortunatamente la mia penna è troppo debole per comunicare ai miei lettori l’immagine realistica di ciò che ho visto e per descrivere loro la desolazione, l’ampiezza e l’altezza di queste masse laviche. Mi sembrava di stare in un immenso cratere e l’intero paese sembrava solo un fuoco spento». Ciononostante questo paesaggio ostile esercita un’attrattiva irresistibile: «Ma che importavano queste fatiche, dimenticate dopo una sola notte di riposo? Cosa erano in confronto ai fenomeni indicibilmente attraenti, meravigliosi del nord, che rimarranno sempre presenti alla mia immaginazione finché avrò memoria?»

Sebbene Pfeiffer insista sullo scopo scientifico del suo viaggio, nella sua narrazione si avverte spesso il disagio di essere donna: oltre alla posizione da amazzone e all’abbigliamento femminile che la ostacolano durante gli spostamenti, l’autrice lamenta la durezza del clima; tuttavia, quando non tratta della fatica e delle scomodità, Pfeiffer rivela la sua autoironia: «Ero molto scura, le mie labbra erano screpolate e anche il mio naso, ahimè, sembrava ansioso di possedere una nuova, luminosa pelle bianca e tenera, e si stava sbarazzando dei frammenti di quella vecchia». È talmente abbronzata che, ricevuta in una casa borghese, deve scoprire un braccio per dimostrare che è di razza bianca. In un’altra occasione cerca di descrivere ad alcune ragazze islandesi le donne del suo Paese: «Guardandomi, [le ragazze] non riuscivano a farsi un’idea molto precisa della bellezza delle mie compatriote; me ne rammarico e chiedo umilmente perdono alle mie concittadine. Ma Dama Natura tratta sempre molto duramente le persone della mia età, per le quali non mostra rispetto, il che oltretutto è di cattivo esempio ai giovani: invece di onorarci e darci la preferenza, [la Natura] preferisce i giovani, così ogni fanciulla di sedici anni può storcere il naso davanti di noi, venerabili matrone». Se la natura non è generosa con l’aspetto delle signore avanti con gli anni, lo è però riguardo alla loro salute: Pfeiffer nota con soddisfazione che «se esistono persone particolarmente adatte a viaggiare, io sono una di quelle fortunate. Nessuna pioggia o vento era riuscita anche solo a provocarmi un raffreddore. Durante il trasferimento [dal porto di attracco sulla costa sud-est a Reykjavik] non avevo gustato cibo caldo o nutriente; avevo dormito tutte le notti su panche o giacigli scomodi; aveva percorso quasi 255 miglia in sei giorni; ma, nonostante tutte queste privazioni e fatiche, tornai a Reykjavik in buona salute e di buon umore».

Nonostante l’autoironia e l’ottimismo, Pfeiffer prova disagio di fronte agli atteggiamenti perplessi della popolazione locale nei suoi confronti. Coloro che sono a più stretto contatto con lei, le guide e i compagni di escursioni, sono stupiti e un po’ sospettosi per il suo continuo prendere appunti: «cominciarono a sussurrare l’un l’altro “Scrive, scrive…” e lo ripetevano di continuo». È però a Reykjavik, l’unica città, che Pfeiffer sperimenta i maggiori ostacoli. Un’adeguata ospitalità sarebbe particolarmente importante per questa viaggiatrice solitaria, che finanzia in autonomia la sua impresa. Invece, fatica a trovare una sistemazione dignitosa e non troppo dispendiosa e infine viene ospitata dal fornaio della città, Herr Bernhoft, un immigrato dell’Holstein che, nota con sollievo, parla la sua stessa lingua. Solo questa famiglia la accoglie con gentilezza e il fornaio l’accompagna nella campagna circostante alla ricerca di insetti e piante. Non altrettanto amichevoli si dimostrano invece le «cosiddette classi colte, i cui costumi e il cui modo di vivere descriverò adesso ai miei onorati lettori. Niente mi era più sgradevole di una certa aria di dignità che assumevano le signore di qui; un’aria che […] tende a degenerare in rigidità e inciviltà. […]».

Nelle sue passeggiate, oltre a essere lasciata sola, Ida Pfeiffer trova perfino difficile orientarsi, perché «tranne che nella casa dello Stiftsamtmann (il principale funzionario dell’isola) non si trova nemmeno un lacchè che possa indicare la strada». Durante le sue quattro settimane a Reykjavik rimane dunque isolata: «Le mie visite non furono restituite e non ricevetti inviti, sebbene durante il mio soggiorno venissi a conoscenza di feste di piacere, cene e feste serali. Se non fossi stata in grado di impiegare il mio tempo da sola, sarei stata molto male. […] Ho cercato di scoprire il motivo di questo trattamento e presto ho scoperto che risiedeva in una caratteristica nazionale di queste persone: il loro egoismo».

La disponibilità economica le sembra il fattore più importante per la riuscita di un viaggio in Islanda: «per essere ben accolti è necessario o essere ricchi, oppure viaggiare come accademici naturalisti. Persone di quest’ultima classe sono generalmente inviate dai governi europei per indagare sulle particolarità naturali del paese. [I naturalisti] raccolgono molti minerali, uccelli, ecc.; portano con sé numerosi doni, a volte di notevole valore, che distribuiscono tra i dignitari; sono, inoltre, i protagonisti di molti divertimenti, e anche di molti balli, ecc.; comprano tutto quello che possono procurarsi per i loro schedari e viaggiano sempre in compagnia; hanno molto bagaglio con sé, e di conseguenza richiedono molti cavalli, che non possono essere noleggiati in Islanda, ma devono essere acquistati. In tali occasioni ognuno qui diventa un mercante: offerte di cavalli e contenitori arrivano da tutte le parti. Con me non è stato così: non ho dato feste, non ho portato regali, non suscitavo aspettative; e perciò mi hanno lasciato a me stessa».

La società islandese, con le sue abitudini, tradizioni e credenze occupa un posto importante nella narrazione. Oltre a descrivere i suoi rapporti sull’isola, Pfeiffer non manca di riportare le sue osservazioni su diversi aspetti della vita quotidiana. Innanzitutto, il modo islandese di salutarsi è disgustoso: «In tutta l’Islanda l’accoglienza e l’addio sono espressi da un bacio sonoro, una pratica non molto piacevole per un non islandese, se si considerano le loro facce brutte e sporche, i nasi umidi dei vecchi e i bambini sudici». È categorica riguardo all’igiene: «Nessuno che non l’abbia sperimentato direttamente può avere idea della mancanza di pulizia degli islandesi; se tentassi di descrivere alcune delle loro abitudini nauseanti, potrei riempire volumi. Penso, infatti, che gli islandesi non siano secondi a nessuna nazione per impurità. […] Se dovessi raccontare solo una parte di ciò che ho vissuto, i miei lettori mi considererebbero colpevole di grossolana esagerazione; preferisco, quindi, lasciar libera la loro immaginazione, semplicemente dicendo che non possono concepire nulla di troppo sporco per la “delicatezza” islandese».
Peggiori dei beduini e degli inuit, gli islandesi sono «anche insuperabilmente pigri» e poco onesti nel commercio, cercando di vendere qualsiasi cosa a caro prezzo; ma soprattutto sono dediti al bere, in qualsiasi occasione: la sua guida è più interessata al brandy («un articolo che sfortunatamente non possono procurarsi dappertutto nel paese», ironizza) che a lei e al suo pony. L’ubriachezza delle guide è un dato costante durante tutte le escursioni e perfino tra i partecipanti di uno sbrigativo funerale: «Sono arrivata a Thorfastädir mentre era in corso un funerale. Quando sono entrata in chiesa, le persone in lutto erano indaffarate a darsi coraggio e consolazione con una bottiglia di brandy». Pfeiffer, tuttavia, non manca di sottolineare che questo fenomeno non riguarda le donne: «posso affermare con soddisfazione che non ho mai visto una donna in questa situazione degradante».
Infine, l’autrice riconosce agli abitanti alcune qualità: gli islandesi sono onesti e riservati; non ci sono crimini, tutti sono alfabetizzati e grandi lettori; sono veloci a imparare, tenendo anche conto che le scuole, dato il clima e le distanze, sono prevalentemente parentali. Nel complesso, conclude, «ho osservato molti pregi, ma purtroppo anche molti difetti, cosicché non potrei più indicare il popolo islandese come esempio».
Inoltre, Pfeiffer è priva di un’adeguata copertura accademica, che al tempo era prerogativa dei soli viaggiatori uomini. I circoli colti rimangono delusi dalla sua scarsa cultura: «[…] la maggior parte di queste persone si aspettava di trovarmi a conoscenza di un certo numero di cose generalmente studiate solo dagli uomini; sembravano avere l’idea che all’estero le donne fossero dotte quanto gli uomini. Così, per esempio, i sacerdoti mi chiedevano sempre se parlassi latino, e sembravano molto sorpresi di scoprire che non lo conoscevo».
Fuori dall’ambiente borghese della città il ruolo di questa viaggiatrice solitaria appare nuovamente ambiguo. Il popolo, infatti, le attribuisce poteri inconsueti, quasi magici: viene condotta al lebbrosario di Krisuvik perché eserciti i suoi presunti poteri taumaturgici, e anche in città «[…] nel corso di uno dei miei vagabondaggi solitari per Reikjavik, entrando in un cottage, mi portarono davanti un essere che a malapena avrei riconosciuto appartenere alla mia stessa specie, tanto era sfigurato dall’eruzione chiamata “lepra”».

Solo un’ultima, breve annotazione di folklore è riservata ai wild men che popolano l’interno dell’isola: «Prima di lasciare l’Islanda, devo riferire una diceria raccontatami da molti islandesi, non solo dai contadini, ma anche da persone delle cosiddette classi superiori, e che implicitamente tutti danno per certa. Si afferma che l’interno inospitale sia comunque popolato, ma da una razza peculiare di uomini, ai quali soli sono noti i sentieri attraverso questi deserti. Questi selvaggi non hanno rapporti con i loro compatrioti durante tutto l’anno, e vengono in uno dei porti solo all’inizio di luglio, al massimo per un giorno, per comprare diverse cose necessarie, per le quali pagano in denaro. Poi svaniscono improvvisamente e nessuno sa in quale direzione siano andati. Nessuno li conosce; non portano mai con sé mogli o figli, e non rispondono mai alla domanda da dove vengono. Si dice inoltre che la loro lingua sia più difficile di quella degli altri abitanti dell’Islanda».

La leggenda vuole quindi che questi giganteschi abitanti dell’interno siano ricchi e vivano di rapina; anche se l’autrice, ironicamente, si chiede chi mai possano rapinare in quelle lande desolate. Concludendo, Pfeiffer dichiara apertamente la sua delusione per l’isola: «Mi aspettavo di trovare in Islanda una vera Arcadia per quanto riguarda i suoi abitanti, e mi rallegravo aspettandomi di vedere realizzata una vita idilliaca. Mi sono sentita così felice quando ho messo piede sull’isola che avrei potuto abbracciare l’umanità. Ma presto sono stata delusa».

Pfeiffer rientra in Danimarca per proseguire il viaggio in Scandinavia dove, nella moderna Cristiania dalle belle vie illuminate (segno innegabile di progresso), incontra un’amica austriaca e sperimenta un viaggio a Drammen in carriole: si tratta di una carrozzella monoposto molto popolare in Norvegia, che guida lei stessa, alla moda delle signore locali. Il paesaggio è l’opposto di quello sublime, inquietante dell’Islanda; l’autrice stessa lo definisce con entusiasmo pittoresco: « Sono stata in molti paesi e ho visto bei luoghi; sono stata in Svizzera, in Tirolo, in Italia e a Salisburgo; ma non ho mai visto uno scenario così straordinariamente bello come quello che ho trovato qui: il mare dappertutto, a invaderci e seguirci fino a Drammen; qui formando un bel lago, su cui dondolavano le barche, là un ruscello che scorre veloce attraverso colline e prati», per terminare con lo scenario «selvaggiamente romantico» delle cascate di Rykanfoss. Pfeiffer ritorna a Göteborg via mare e da qui prosegue per Stoccolma attraverso un caratteristico canale, il Göthacanal, in una campagna altrettanto romantica. Fra cascate, chiuse, isolotti e laghi  raggiunge il «piacevole» Mälaren, lo specchio d’acqua su cui affaccia Stoccolma. Qui, appena il battello attracca, una nuova sorpresa: «un gran numero di erculee donne si avvicinarono per offrirci i loro servigi come facchine»: sono le Delekarliers, le donne della Dalecarlia, che vengono in città a lavorare, e trovano facilmente impiego, perché «sono note per la loro onestà e solerzia e, al tempo stesso, hanno la forza e la determinatezza degli uomini». Per far fronte alle spese in una città tanto costosa, Pfeiffer affitta una camera privata, più economica dell’hotel. Con l’abituale modestia l’autrice giustifica la brevità delle descrizioni di questa parte del suo soggiorno: Stoccolma, infatti, «è stata così spesso descritta magistralmente da altri viaggiatori, che le mie osservazioni risulterebbero poco importanti».

Se la popolazione islandese non si era interessata a lei, in Svezia è la regina madre stessa che la vuole incontrare; l’autrice visita dunque il Palazzo Reale e intrattiene una lunga conversazione con la sovrana, che non mostra alcun interesse per la meta islandese della viaggiatrice ma desidera solo informazioni sul suo viaggio in Palestina. Dopo sei mesi di assenza Pfeiffer rientra a Vienna il 4 ottobre, portando con sé nuove collezioni di minerali, insetti, piante. Quando si accommiata da lettori e lettrici, sottolineando ancora una volta il valore non solo informativo ma anche ricreativo del libro, le sue parole confermano il ruolo contraddittorio delle donne viaggiatrici e dei loro resoconti. Da una parte, infatti, l’autrice è fiera delle sue imprese; dall’altra si appella all’indulgenza del pubblico, sentendosi inadatta al compito che si era posta: «Avevo sopportato molte difficoltà; ma il mio amore per i viaggi non sarebbe diminuito, né il coraggio mi sarebbe venuto meno, nemmeno se fossero stati dieci volte più grandi. Ero stata ampiamente ripagata: avevo visto cose che non accadono mai nella nostra vita comune e avevo incontrato persone come raramente si incontrano, nel loro ambiente naturale. E soprattutto ho riportato con me i ricordi dei miei viaggi, che rimarranno sempre, e che mi daranno un rinnovato piacere per anni. E ora mi congedo dai miei cari lettori, chiedendo loro di accettare con indulgenza le mie descrizioni, che sono sempre vere, anche se possono non essere divertenti. Se, come difficilmente posso sperare, ho offerto loro un po’ di divertimento, confido che in cambio mi concederanno un piccolo angolo nei loro ricordi».

Il valore scientifico del libro è confermato dalla premessa alla seconda edizione in inglese: «Il successo che ha accompagnato la pubblicazione in questa Serie di Opere Illustrate di Viaggio di una donna intorno al mondo ha consigliato la pubblicazione del presente volume riguardo un paese così poco conosciuto come l’Islanda, e di cui esistono così poche notizie recenti». Prima di essere dimenticato il libro è stato citato dal Botanical Journal of the Linnean Society, in un articolo a firma Charles Cardale Babington del 1870, e nel primo volume della Nouvelle Géographie universelle di Elisée Reclus del 1875, dove Pfeiffer è indicata fra i principali geografi del tempo.

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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.

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