«Ho sognato una donna che camminava verso di me con un’espressione d’ira sul viso e una montagna sospesa dietro di lei; ricordo che nel sogno sapevo che questa donna era adirata con me e che mi avrebbe lanciato contro la montagna se non avessi compreso perché lo era».
È Nora K. Jemisin – in un’intervista rilasciata ad Alexandra Alter del New York Times il 25 agosto 2016 – a rendere nota l’idea di partenza della fortunata trilogia che costituisce The Broken Earth (La terra spezzata), capolavoro di questa notevolissima scrittrice tra fantasy e science fiction.
Si tratta, in realtà, di un unico romanzo diviso in tre libri, che non può prescindere da una lettura consequenziale e integrale (e preferibilmente senza soluzione di continuità, almeno a parere di chi scrive): The Fifth Season (2015), The Obelisk Gate (2016), The Stone Sky (2017) sono valsi a N. K. il primato di tre Hugo Award consecutivi per il miglior romanzo (rispettivamente nel 2016, 2017, 2018), nonché Nebula e Locus per l’ultimo titolo, che ha centrato un triplice risultato d’eccezione.
Ancora, Jemisin è stata la prima donna di colore a vincere l’ambito premio statunitense nella categoria novel e la prima autrice a ottenerlo per ogni romanzo di una trilogia. Ovvero di un’opera di notevole mole divisa in tre parti, come The Lord of the Rings di J. R. R. Tolkien, di cui The Brocken Earth è ancora più monumentale (1.424 pagine nell’edizione originale in lingua inglese) e da cui la scrittrice, nella medesima intervista al New York Times, prende le distanze, affermando di non essere interessata al fantasy ispirato «all’Europa medievale e alla mitologia dell’Occidente» (e neppure alla science fiction proiettata «in una futura, stereotipata Età dell’Oro»).

da Rochelle Brock
Sarebbe superficiale, tuttavia, ricondurre le invenzioni narrative di Jemisin al cosiddetto afro-futurismo, perché la loro complessità e ricchezze non solo trascende i generi letterari (la fantascienza è un genere onnivoro), ma soprattutto le definizioni: ha poco senso, perciò, anche la querelle che accompagnò la trilogia alla sua uscita attribuendone l’appartenenza al fantasy, alla science fiction, o a una delle innumerevoli articolazioni di questa o di quella: La terra spezzata è letteratura dell’immaginazione di alto livello, e questo basta.
La quinta stagione, Il portale degli obelischi, Il cielo di pietra sono proposti in Italia da Mondadori nella bella traduzione di Alba Mantovani qualche anno più tardi, nel 2019, 2020, 2021; sono poi pubblicati con slittamento di un anno ciascuno nella collezione Urania Jumbo (con copertine selezionate da stock di evidente incoerenza rispetto al testo, che portano a privilegiare l’edizione Oscar Fantastica, che invece riproduce le copertine dell’edizione statunitense).
Nora Keita Jemisin nasce a Jowa City, Jowa, il 19 settembre 1972, da Noah e Janice, entrambi originari di Birmingham, Alabama, certo non tra le città più tolleranti degli Stati Uniti degli anni Sessanta e Settanta nei confronti della minoranza di colore: come ricorda l’autrice – in un’ampia intervista rilasciata a Raffi Khatchadourian del New York Times il 27 gennaio 2020 – il padre trascorre buona parte della giovinezza «schivando cani e idranti che venivano rivolti contro lui e altri manifestanti per i diritti civili».

(Birmingham Civil Rights Institute)
I genitori di Nora, discendenti da famiglie di schiavi come la maggior parte dei neri americani, si incontrano nei Sixties, quando frequentano l’Alabama State University, e si sposano poco dopo la conclusione degli studi, trasferendosi dapprima a Iowa City, ove il padre si specializza in arte visiva, la madre in psicologia, e ove nasce Nora, poi, quando la piccola ha un anno, a Brooklyn; qui Noah insegna arte, Janice scienze: «Vivevamo in una bellissima piccola casa brownstone – racconta ancora Jemisin – Avevamo il piano terra e il piano superiore. C’era una splendida vecchia balaustra di mogano. C’erano viti nel cortile sul retro e uno scoiattolo di nome Greedy che veniva a cercare noci pecan che la nonna mi mandava dal suo albero in Alabama».
La coppia divorzia quando Nora ha cinque anni e lei segue la madre a Mobile, Alabama; una città che odia per «the regimentation of Southern society, the quasi-suburban alienation, the racism», la rigida uniformità della società sudista, l’alienazione da periferia degradata, il razzismo. Il 21 marzo 1981, quando la bimba ha otto anni, a Mobile due membri del Ku Klux Klan rapiscono il diciannovenne di colore Michael Donald (soltanto perché di colore), lo picchiano a morte e lo appendono a un albero; il linciaggio avviene non lontano dalla casa della nonna della scrittrice: «Ricordo la nonna seduta nella sua stanza con un fucile sulle ginocchia, mentre io, ai suoi piedi, sgusciavo noci pecan. Avrò avuto nove anni, non avevo idea di cosa stesse accadendo».
Per Jemisin l’infanzia è un’esperienza schizoide («a schizoid experience»): trascorre l’estate a New York con il padre artista (diviene un pittore di fama, con opere esposte, tra l’altro, al Metropolitan Museum), che accoglie e incoraggia l’interesse della figlia per la fantascienza; con lui Nora condivide pomeriggi silenziosi ma intensi (il padre dipinge e lei scrive); con lui rimane alzata fino a tardi per guardare Star Trek e Twilight Zone; con lui compie lunghe passeggiate parlando di trame, personaggi, eventi d’invenzione: «È stato il mio primo vero editor», ricorda.
Con la madre il rapporto è diverso: Janice, che si è specializzata in psicometria, somministra test per determinare il quoziente d’intelligenza dei pazienti e non comprende la passione della figlia per la scrittura di immaginazione. Nella lunga intervista rilasciata nel 2020, quando le viene chiesto se preferisce essere chiamata Nora o N.K., lei ride e risponde: «Nora va bene. Mamma mi chiamava N.K. quando, da bimba, combinavo qualche guaio; così, ogni volta che qualcuno lo pronuncia, eccomi a dire: “Cosa? Non sono stata io!”».

(New York, Metropolitan Museum)
Affascinata da Star Wars, con la percezione di essere una piccola aliena a Mobile («I was a creepy, obsessed space child»), prende a prestito dalla biblioteca cittadina libri di fantascienza che ricopre con carta anonima per leggerli a scuola, durante le lezioni: se la sua vita reale non è coesa, lo sono invece i mondi che già crea, completi, autonomi, razionali.
Nora, tuttavia, segue le orme materne nella prosecuzione degli studi: frequenta la Tulane University di New Orleans, Louisiana, e nel 1994 consegue la laurea in psicologia, specializzandosi poi in Educazione presso la University of Maryland di College Park; inizia quindi a lavorare nell’ambito del counseling psicologico e nel contempo si dedica alla scrittura fantastica e fantascientifica.
Nel 2009 il suo racconto Non-Zero Probabilities, che già unisce tecnologia e magia, calcolo probabilistico e rituali apotropaici, è selezionato per la finale del Nebula Award (l’anno successivo lo sarà per l’Hugo Award). Ma è con i romanzi che diviene nota presso il grande pubblico: un prima serie di tre è denominata The Inheritance Trilogy (comprende The Hundred Thousand Kingdoms, del 2010, vincitore del Locus Award l’anno successivo come migliore opera prima ed è il solo tradotto in lingua italiana, nel 2014 da Gargoyle, con il titolo I centomila regni; The Broken Kingdoms, pure del 2010; The Kingdom of Gods, del 2011); nella medesima ambientazione si collocano un testo più breve, The Awakened Kingdom, del 2014, e il volume Shades in the Shaw, che presenta tre racconti. Nel 2012 dà alle stampe il dittico Dreamblood Duology, costituito da The Killing Moon e The Shadowed Sun, entrambi apparsi in Italia per Fanucci (La luna che uccide, nel 2014, e Il sole oscurato, nel 2020).
Data al 2013 il coraggioso atto di accusa di Jamisin nel discorso tenuto al Continuum, in Australia, l’8 giugno: in quell’anno lo scrittore Theodore Beale – dichiaratamente suprematista e misogino – aveva tentato senza successo di farsi eleggere presidente della SFWA (Science Fiction and Fantasy Writers of America), ottenendo comunque il 10% dei voti dei membri aventi diritto. N.K. denuncia il silenzio che accompagna le affermazioni di Beale (Vox Day, che ambiguamente consuona con Vox Dei): l’odio, sostiene, non è dissimile dalla «suprema indifferenza per il dolore dell’altro», donna, colored, disabile che sia… Dopo aver insultato la scrittrice (definita «ignorant half-savage»), su proposta di Amal El-Mohtar la Sfwa vota per l’espulsione di Beale dall’organizzazione.

il 21 agosto 2018 (fotografia di autore non noto)
Quindi, a partire dal 2015, Nora Jemisin pubblica The Broken Earth. Non è facile scriverne: innanzi tutto per la mole (comunque, anche nel caso di una autrice originale e capace come lei, «una severa maestra»), che unita alla complessità dell’intreccio rende ardua la sintesi; poi per la difficoltà di presentare la vicenda, anzi, le molteplici vicende che percorrono i tre romanzi (che poi sono uno), senza guastare il senso di meraviglia che suscitano né rivelare arcani e relazioni che chi legge scopre con piacevole sorpresa, confermando o meno le proprie ipotesi e supposizioni a riguardo; infine, perché la conclusione della lettura lascia un senso di sgomento e pienezza che richiedono decantazione e meditazione.
Al di là degli encomi rituali che accompagnano le quarte di copertina, è significativo però che autori e autrici della fantascienza italiana contemporanea – cui chi scrive si è rivolta nel febbraio 2022, e che hanno avuto la bontà di risponderle – abbiano espresso un giudizio unanimemente positivo, pur con alcuni distinguo: «Ho letto il primo volume a metà. L’ho trovato assai promettente e insieme impegnativo. Promettente perché la parte della fuga della madre in lutto è molto forte, ma bella. Impegnativo perché ci mette un fattore di esoterismo science fiction poco accogliente, che per di più si mescola, un po’ troppo, allo stesso atteggiamento fantasy. Poi per onestà devo dire che ho trovato in rete (senza cercarli) degli spoiler pazzeschi che mi hanno fatto passare la voglia di impegnarmici» (Giulia Abbate); «Ho letto la trilogia un paio di anni fa, durante la pandemia, e ne ho un bel ricordo. Scrittura di stile, tematiche attuali e sense of wonder. Molto brava» (Valeria Barbera); «Ottima scrittrice Jemisin, anche se per il mio immaginario è molto fantasy e in certe parti non troppo avvincente. Ma sai, a volte dipende da come sei tu in quel momento…» (Franci Conforti); «Il primo mi è piaciuto tantissimo: worldbuilding originalissimo, personaggi che sono un pugno nello stomaco, scritto benissimo e con molte sorprese. Uno di quei libri che quando li finisci dici: “Porca miseria che cosa ho letto!”. Gli altri due li ho trovati inevitabilmente in calando. Inevitabilmente perché era impossibile mantenere l’effetto sorpresa del primo. Però spiegano tutto e quindi sono utili per capire» (Davide Del Popolo Riolo); «Ho letto solo il primo. L’ho trovato affascinante e complesso. Non è proprio il mio genere, ma l’ho apprezzato» (Silvio Sosio). A The Fifth Season Nicoletta Vallorani ha dedicato un capitolo all’interno di Corpi magici. Scritture incarnate dal fantastico alla fantascienza (Mimesis 2020), di cui è coautrice con Anna Pasolini.

E ora, a me. Nora Jemisin crea un mondo immaginario, coerente e completo nel suo mistero e nel suo disvelamento (come J.R.R. Tolkien con the Lord of the Rings, del 1955, e Ursula Le Guin con Always Coming Home, del 1985), con storie, miti, lingue propri. La mappa di questo mondo (disegnata da Tim Paul nel 2014) presenta un unico continente indiviso, quasi Pangea, chiamato Immoto (Stillness in lingua inglese): nome antifrastico, dal momento che la terra («montagne e altopiani, canyon e foci di fiumi») è percorsa da onde sismiche violente, il cielo oscurato da frequenti eruzioni vulcaniche, il mare scosso da alte onde anomale; Immoto è destinato a essere sconvolto da un evento epocale, di devastante potenza, che, appunto, ne spezza letteralmente la superficie.
Come altre autrici in opere che affrontano il trauma di una post apocalisse (per esempio Kate Wilhelm in Where Late the Sweet Birds Sang, del 1976), Jemisin non rivela, non immediatamente almeno, le ragioni del male, portando invece l’attenzione sulla necessità o volontà di sopravvivenza dei popoli del continente, la cui forma allungata presenta una fascia equatoriale dal clima temperato, costellata di città: Tirimo, Yumenes, Allia, e di fronte a questa l’isola di Meov; a nord e a sud, rispettivamente, Nomidlat e Artidi, Sumidlat e Antartidi.
Il tempo della vicenda si colloca in una delle cosiddette Quinte Stagioni, che interrompono il rassicurante ciclo consueto andando a segnare un interludio tragico, a seguito di eventi naturali (eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti ma anche spostamento del polo magnetico) o determinati dagli esseri umani (incidente minerario), o dovuti a causa sconosciuta: l’elenco delle quinte stagioni, dalla più recente alla più antica nell’arco di oltre dodicimila anni, con la loro descrizione, si trova in appendice a ciascun volume; una seconda appendice è costituita dal Glossario di termini comunemente utilizzati in tutti i quartenti dell’Impero.
Molteplici popoli, o razze, vivono su Immoto: i Sanzi, che costituiscono l’omonima nazione nelle Equatoriali, già fondatori dell’Impero, risiedono – come tutti – in com, comunità; i Midlattiani, che abitano le terre di mezzo del Midlat, Nomidlat e Sumidlat, «considerate zone arretrate e sperdute dell’Immoto, benché producano gran parte del cibo, dei materiali e di altre risorse»; gli Orogen, che per dono naturale hanno la capacità, perfezionata attraverso l’addestramento, «di manipolare l’energia termale, cinetica e altre forme simili di energia per affrontare gli eventi sismici»: sono «i Misalem del mondo, maledetti e terribili dalla nascita», costantemente sorvegliati dai Custodi; i Mangiapietra, infine, una «specie umanoide senziente che si incontra di rado e di cui si conosce poco», appaoino e scompaiono, cambiando forma e identità, fino ad assumere un ruolo sempre più determinante nell’intreccio. Immoto è un continente dalle società basate sull’ingiustizia, sulla discriminazione, sul sopruso: un mondo per cui, a tratti almeno, sembra non valere la pena lottare, reso ancora più crudele dalla Legge Stagionale, in vigore durante le quinte stagioni, che impone rigida osservanza delle disposizioni necessarie alla sopravvivenza in circostanze estreme. Echi della sua cultura imperiale sono nelle epigrafi poste a conclusione di diversi capitoli: frammenti di poesie, pagine di cronache, stanze di canzoni, narrazioni e proverbi grazie ai quali Jemisin costruisce un mondo evanescente ma credibile.

Ikka, Tonkee, Essun
La vicenda si apre con la considerazione che «la fine di una storia è solo l’inizio di un’altra», su una nuova quinta stagione, la Devastante, che si prospetta più terribile e duratura delle precedenti, la cui estensione variava da alcuni anni ad alcuni decenni; si apre, in realtà, come recita l’incipit del Prologo, con la fine del mondo: «Cominciamo dalla fine del mondo, perché no? Chiudiamo la questione e passiamo ad argomenti più interessanti. Innanzitutto una fine privata. C’è una cosa a cui lei non smetterà mai di pensare nei giorni a venire, mentre s’immaginerà com’è morto suo figlio e cercherà di dare un senso a qualcosa di congenitamente insensato. Stenderà una coperta sul corpicino straziato di Uche – ma non sul viso, perché lui ha paura del buio – e gli siederà accanto intorpidita, insensibile alla fine del mondo che si sta consumando di fuori.
Dentro di lei il mondo è già finito. Ed entrambe le fini sono già accadute. Ormai ci ha fatto l’abitudine». Il prologo rappresenta una lunga sequenza ingressiva, scandita da un io narrante la cui identità sarà svelata soltanto al termine del terzo volume, che si rivolge con il ‘tu’ affettivo – come si comprende dalle prime pagine – a una delle protagoniste, Essun: uno sguardo apparentemente esterno alla vicenda, dunque, ma che rivela un focus privilegiato.
Essun è una Orogene quarantaduenne e di colore, vive a Tirimo ove è sposa di Jija e madre della bimba Nassun e del bimbo Oche; dopo che il marito ha ucciso il loro piccolo ed è scomparso con la primogenita, intraprende (come Iside) un viaggio verso l’ombra e la notte, la peregrinazione e il dolore, la morte e la rinascita; è il viaggio che segue alla rottura dell’equilibrio iniziale in tutte, o quasi, le narrazioni epiche o fiabesche.
Il primo romanzo, pur privilegiando Essun in termini di frequenza di capitoli dedicati, presenta anche la piccola Damaya, orogene naturale affidata dalla famiglia al custode Schaffa, che la conduce al Fulcro, a Yumenes, ove bimbi e bimbe come lei sono addestrati affinché mettano le proprie doti al servizio della comunità; e presenta anche la giovane Quattro Anelli Syenite, allieva del Fulcro determinata e capace, che si accompagna al Dieci Anelli Alabaster in una missione nella città di Allia, sulla costa orientale di Immoto (il numero degli anelli che gli Orogeni portano alle dita è direttamente proporzionale alle loro capacità).
Non è sempre agevole seguire le tre protagoniste nelle loro vicende, narrate con alternanza di punti di vista, tuttavia i loro caratteri sono rappresentati con accuratezza, profondità, empatia: Essun attraversa terre desolate con la disperazione di una madre che non ha potuto o saputo difendere l’incolpevole figlioletto, ossessionata dal pensiero della figlia in cammino con il padre, che ha già ucciso e che potrebbe farlo ancora; Damaya patisce la perdita dei genitori e non ha che il suo custode, amato e temuto, sul quale riversare speranza e affetto, fino all’arrivo al Fulcro, l’«ordine paramilitare» del quale non può che subire la severa disciplina; Syenite coltiva l’ambizione di conquistare un ruolo di prestigio all’interno del gruppo di Orogeni, e per questo, inizialmente almeno, pur dimostrando personalità e caparbietà, è disposta a eseguire ordini sgraditi (generare un figlio con Alabaster a fini eugenetici) e a vivere situazioni di disagio, accanto al medesimo Alabaster (amico, mentore, amante), che con la sua amarezza e il suo disincanto disvela la ferocia del potere su cui si regge l’Impero: di terribilità esemplare la scoperta del funzionamento dei nodi (ovvero della «rete di stazioni a manutenzione imperiale collocate in tutto l’Immoto per ridurre o soffocare gli eventi sismici»).

Nel finale di questo primo romanzo arcani e relazioni si sciolgono e ricompongono: dopo aver lasciato Damaya a subire, gestire, superare invidie e malvagità al Fulcro, nel dolore di non essere amata, lo sguardo della narratrice si sofferma su Syenite, che vive una stagione di relativa serenità nell’isola di Meov, insieme a una comunità di pescatori e all’occorrenza pirati, così come Essun, rifugiata nella com sotterranea di Castrima, che si avvale della tecnologia antica ma dimenticata di un geode che permette la vita. È in questi due luoghi che Syenite ed Essun sperimentano modelli sociali che, pur essendo finalizzati alla sopravvivenza, sono fondati sulla coesione e sulla cooperazione, nei quali ciascun componente è impiegato e considerato sulla base delle proprie attitudini e capacità, ove le famiglie deviano dalla convenzione (come già nei testi di Octavia Butler) e le relazioni affettive e sessuali prescindono dal genere: così è per Innon, guida della com isolana di Meov, desiderato e amato sia da Syenite che da Alabaster, e per Ykka, a capo della com ipogea di Castrima, che ha per amanti sia donne come lei che uomini.
Non è possibile presentare una sintesi de Il portale degli obelischi e Il cielo di pietra senza incorrere in rivelazioni tali da guastare la lettura. Basti qui dire che il secondo volume ha ricevuto accoglienza discorde, poiché la vicenda subisce una battura d’arresto, sono ripercorsi episodi salienti del primo con altro punto di vista, è ripreso il filo dell’abbandono di Tirimo da parte di Jija e della figlia Nassum, lei pure orogena, e della loro marcia verso sud, ed è descritta la vita a Castrima, ove Essun è forzata a sospendere la ricerca della primogenita e la vendetta nei confronti del marito e ove si combatte una battaglia dall’esito imprevedibile.
Due elementi si segnalano in questo romanzo: la straordinaria descrizione di una natura morente, in lento ma inarrestabile degrado, a causa dei cambiamenti climatici seguiti alla frattura della terra, della pioggia di cenere che offusca il cielo e oscura il sole, dell’esaurirsi delle risorse alimentari, dell’impossibilità di curare malattie nuove e ferite inusuali; e la sorta di maledizione matrilineare che unisce a distanza Essun e Nassun, la loro capacità, scoperta piano piano, di interagire (ma a quale prezzo?) con i misteriosi obelischi amplificatori dei poteri orogenici, il rapporto di ciascuna con le figure maschili, amico o compagno per la madre, padre biologico o padre simbolico per la figlia.
Il secondo romanzo della trilogia rappresenta un momento di apparente quiete, nel quale meglio si delineano i caratteri delle e dei protagonisti e si scoprono aspetti peculiari delle comunità di Immoto, prima dello scatenarsi del poderoso finale del terzo volume, Il cielo di pietra: qui, a due anni dall’inizio della stagione, il movimento riprende, con una com costretta a lasciare la propria sede e, biblicamente, ad attraversare il deserto di Merz, paesaggio desolato descritto in modo sontuoso, e con la giovane Nassum che incontra le vestigia di una civiltà sepolta e incomprensibile e compie un viaggio al centro della terra che è quasi una discesa agli inferi; con il consueto alternarsi e intrecciarsi, senza una sbavatura, dei piani della narrazione: alle strade percorse da madre e figlia si intervallano, in una sorta di count down, i diari dell’antica Syl Anagist, inizialmente criptici, progressivamente destinati a ricomporre il disegno nel quale ogni personaggio, donna o uomo, umano o forse no, si rivela per quello che è, per quello che Nora Jemisin ha fatto in modo che sia, che voglia essere.

Alabaster e Corundum
Uccidere un bambino è il male assoluto: l’assunto torna ricorrente nel testo. Pure, la morte di un figlio è preferibile al suo essere schiavo: il pensiero della libertà pagata a un prezzo tanto alto dal piccolo Oche non placa il desiderio di vendetta di Essun, ma in qualche modo ne rende più composto il dolore (a ragione Vallorani ricorda Margaret Garner, «la schiava fuggiasca che nel 1856 viene raggiunta dai cacciatori di schiavi e uccide la figlia neonata per impedire che subisca la sua stessa sorte»). La serie di eventi, soprattutto, suscita l’interrogativo fondamentale del romanzo, ovvero se vi siano mondi che è meglio distruggere che salvare, perché «alcune cose sono troppo guaste per poterle riparare», e allora che venga «una stagione per porre fine a tutte le stagioni», perché per gli ultimi, gli oppressi, i diseredati sarà l’unica via per sottrarsi all’eterno ciclo di schiavitù e di dolore cui sono condannati: «per una società costruita sullo sfruttamento non c’è minaccia più grande del non avere più nessuno da opprimere». Mondi in cui il piacere di pochi significa la sofferenza di molti, mondi edificati su una faglia di dolore in cui la dignità umana non è diritto ma privilegio, mondi in cui vedi «morire tutte le persone che conosci e a cui tieni».
E allora, giustizia è annegare il mondo o riscattarlo? Al dolore degli Orogeni (dispregiativamente detti ‘rogga’, parola che consuona con ‘nigga’, altrettanto offensivo) si unisce l’ira di Father Earth, Padre Terra, con rovesciamento di genere rispetto alla mitologia classica, tanto funesta che l’espressione Evil Earth, Terra malvagia, è usata come imprecazione: «La terra non ci ama ma ci dà delle regole da seguire – afferma Jemisin in un’intervista rilasciata a Luca Valtorta de La Repubblica il 22 aprile 2020 – se non le rispettiamo la sua reazione può essere violenta». Dunque, emergenza climatica, catastrofe ambientale, siccità e carestia non sono che conseguenze dello sconsiderato agire umano: la Terra «guarda gli esseri umani e vede creature caduche, fragili, distaccate in modo sconcertante nella loro natura e consapevolezza dal pianeta da cui pure dipende la loro vita, incapaci di comprendere il danno che hanno cercato di procurare… forse proprio perché sono caduche e fragili e distaccate».
Eppure, sarebbe così semplice: unirsi tra affini, cooperare, prendersi cura, nell’interesse di ciascuno, ciascuna, e di tutte, tutti. Scegliere, perché è sempre possibile farlo. È il messaggio positivo della trilogia, ripreso nel più tardo, gustosissimo racconto Emergency Skin (del 2020, Pelle di emergenza in traduzione italiana), meritatamente vincitore dell’Hugo Award: «Per salvare il mondo la gente doveva pensare in modo diverso» (Jemisin è anche autrice di una trentina di racconti).
Un messaggio non ecumenico ma pragmatico, come accade in una situazione di emergenza (una stagione, appunto, anche se vi sono persone per le quali ogni stagione è la stagione), che forza al cambiamento e permette di superare «la paura che accompagna qualunque cambiamento necessario», la paura per sé ma soprattutto per la propria discendenza, i figli e le figlie.
La maternità, l’amore materno, la responsabilità delle donne che mettono al mondo altre e altri da sé, li crescono per poi lasciarli liberi, libere di essere chi vorranno, liberi di percorrere strade di cui esse non conoscono la fine: The Broken Earth è anche una riflessione sofferta sull’amore delle madri – come successivamente afferma la scrittrice –, quell’amore che all’alba della vita promette autenticità e pienezza, e un destino migliore del proprio ai figli e alle figlie troppo presto adolescenti, troppo presto ribelli.
Una nota, infine, sul genere di questo romanzo doloroso e potente, affascinante e complesso: Jemisin crea un mondo nel quale convivono biotecnologia e animismo, forse più orientato verso il fantasy in The Fifth Season, verso la science fiction in The Iron Sky, un mondo nel quale la magia – il guizzo d’argento che è in «in ogni cosa, in ogni vita» (Nora Jemisin? no, Giordano Bruno) – ha ruolo preponderante, perché il mondo stesso ha un’anima.
Nel 2016, grazie a una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Patreon, l’autrice lascia il lavoro di psicologa per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno: «Il fatto è che mi piaceva il mio lavoro – confessa nei ringraziamenti a conclusione del terzo volume della trilogia – in cui potevo aiutare le persone a prendere decisioni equilibrate – o almeno a sopravvivere abbastanza da poterlo fare – in uno dei momenti di transizione più critici dell’età adulta»; e, con tristezza, aggiunge: «il finanziamento Patreon mi ha permesso di dedicarmi completamente a mia madre nelle sue ultime settimane di vita, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. Non parlo spesso di questioni personali in pubblico, ma forse avrete capito che la trilogia della Terra Spezzata è, tra le altre cose, anche il mio tentativo di affrontare il tema della maternità. Gli ultimi anni della mamma sono stati difficili. Penso (così tanti motivi dei miei romanzi diventano chiari in retrospettiva) che, a qualche livello, sospettassi che la sua morte si stava avvicinando; forse cercavo di prepararmi. Non ero pronta comunque quando è successo… del resto, non lo si è mai».

Nell’ottobre 2020, Jemisin è scelta come destinataria del MacArthur Fellows Program Genius Grant, cospicua borsa di studia già assegnata a Octavia Butler nel 1995.
Nella primavera dello stesso anno ha pubblicato il romanzo The City We Become, primo della nuova serie Great Cities.
Nel giugno 2021, la TriStar Pictures di Sony vince i diritti per adattare allo schermo la trilogia The Broken Earth, stipulando un contratto a sette cifre con la stessa Jemisin, che nel 2021 è inclusa nel Time 100, l’elenco annuale delle cento persone più influenti del mondo secondo la rivista.
In copertina. Gino Andrea Carosini, Nora K. Jemisin.
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.