Voci di donne dalle Fosse Ardeatine

«Ciao, sono Rosetta, ho sette anni e cerco il mio papà. L’ultima volta che l’ho visto era al Regina Coeli, un posto cupo e maleodorante dal quale non poteva uscire e in cui lo picchiavano. L’altro giorno, per esempio, aveva del sangue che usciva dal naso e dalle labbra, ma non ha voluto dirmi come si fosse fatto male; si è solo limitato ad accarezzarmi la testa e a sorridere come se nulla fosse.
Come se nulla fosse.
Ma com’è possibile che proprio lui, il mio papà, si comportasse come se nulla fosse? Lui, che di mestiere fa l’artista, il cantante lirico, che ha sempre lottato per essere libero lui e rendere libera me, come può marcire rinchiuso in quella lurida prigione e comportarsi come se nulla fosse?
Forse credeva che, facendo così, mi avrebbe resa più tranquilla, ma io lo conosco, lo conosco bene il mio papà, e ho capito che mentiva. Per questo adesso ho tanta paura.
Sono giorni infatti che la mamma cerca di avere notizie dal carcere, ma nulla, i signori tedeschi della prigione la trattano malissimo, le urlano parole incomprensibili e ovviamente non lo può incontrare. Mamma dice che lo hanno trasferito altrove, forse lo hanno portato in un altro Paese, ma per il momento il mio papà sembra sparito».

«Mi chiamo Ada e cerco disperatamente mio marito. Siamo sposati da poco, e l’altra sera mentre preparavo qualcosa da mangiare ho sentito frastuono in strada, vicino a Via Rasella, proprio dietro l’angolo rispetto a casa nostra.
Umberto era agitato e, qualche ora dopo, al frenetico bussare alla porta era crollato quasi paralizzato. Quando sono andata ad aprire in un battibaleno mi sono ritrovata circondata: tra nazisti e fascisti, la mia cucina era piena di soldati. Hanno rovesciato tutto, distrutto ogni cosa e massacrato di botte Umberto. Nella concitazione capisco poche parole e nessuno mi dice dove me lo portano. Sono due giorni che giro Roma per sapere che fine hanno fatto lui e mio cognato Angelo, ma sembrano scomparsi nel nulla».

«Mi chiamo Fortunata e l’altro giorno i nazisti hanno preso mio marito. Sapevo che sarebbe successo prima o poi, per noi ebrei questi tempi sono difficili, e la decisione di restare nascosti a Roma forse non è stata la scelta migliore. Ma non potevamo fare altrimenti.
Me lo sentivo da qualche giorno che lo avrebbero preso, ed ecco che l’altra sera me lo hanno portato via, non so dove. C’è chi dice che è già su un treno verso la Polonia, chi mi rassicura dicendo che lo libereranno presto, e alla fine io ci voglio credere. D’altronde siamo tutte brave persone, oneste e rispettose. Per quale motivo dovrebbero fargli del male? Solo perché è ebreo? Devo avere pazienza, aspettare e pregare, e alla fine della guerra ci riabbracceremo, se non prima. Finché c’è vita c’è speranza e io voglio crederci fino alla fine, d’altronde mi chiamo Fortunata, qualcosa dovrà pur significare».

«Mi chiamo Silvana, ho 17 anni e i miei fratelli sono Gino e Duilio. Prima della guerra facevano i falegnami, erano bravi, e ricordo che spesso passavo le ore a guardarli mentre intagliavano il legno. Gino e Duilio sono sempre stati però delle teste calde, animati da tante idee, dal desiderio di libertà e cambiamento, ma fondamentalmente, posso assicurare, che sono bravi ragazzi.
Da qualche tempo i miei fratelli mi raccontavano dei loro progetti, di alcune “attività” che secondo loro avrebbero portato alla fine di questa guerra. Ma alla fine una sera si sono fatti prendere, i nazisti li hanno arrestati e loro per fuggire hanno lanciato contro delle bombe a mano. Da qualche tempo sono in carcere, la mamma va a trovarli quando può; io invece non posso vederli, sono troppo piccola ed è troppo pericoloso andare al Regina Coeli. Sono giorni però che non fanno più avere notizie, mamma teme che possano averli spostati altrove, o peggio, che abbiano già fatto il processo. Per questo sono diverse mattine che esco in strada e cerco di acchiappare con le orecchie ogni singolo sussurro su dove possono averli portati. Devo scoprire dove sono, perché senza di loro mi sento perduta».

«Mi chiamo Lina, e Giovanni, mio marito, è un tenente carabiniere. Sono stata sempre orgogliosa di lui, delle sue scelte, del suo senso del rispetto delle regole. Con lo scoppio della guerra la nostra famiglia non ha passato momenti facili. Qualche mese fa Giovanni ha preso parte all’arresto di Mussolini, inizialmente sembrava l’inizio della fine di questa guerra disastrosa, ma poi, quando i nazisti hanno occupato Roma, Giovanni si è ritrovato in cima alla lista delle persone indesiderate ed è stato arrestato. Lo hanno portato nel carcere di via Tasso, in attesa dell’inchiesta di polizia. Cosa ne faranno di lui soltanto Dio può saperlo, ma intanto mi accontento di poterlo vedere vivo quando gli faccio visita.
Sono due giorni però che nella prigione non fanno più entrare nessuno, né danno più notizie. Davanti alla prigione ho conosciuto altre donne, madri, mogli e sorelle dei prigionieri di via Tasso, anche loro con la loro storia, anche loro in cerca di notizie».

«Siamo le madri, mogli, figlie, sorelle, cognate di Roma. Siamo donne che hanno vissuto la guerra e le deportazioni, fatto la fame, sentito il rumore delle bombe. Ci siamo nascoste, abbiamo pregato ogni giorno che le nostre famiglie sopravvivessero. Non ci siamo arrese quasi mai. Da qualche giorno nessuno sa più dirci dove sono i nostri mariti, i nostri figli, i nostri fratelli; passiamo le ore davanti alle porte del carcere o vaghiamo per le strade alla ricerca di qualche minima voce, ma nulla. Ci incontriamo tra di noi, ci riconosciamo: abbiamo lo stesso sguardo ricco di false speranze.
Il 25 marzo 1944 leggiamo sui giornali la notizia di un attentato in Via Rasella dove sono morti trentatré nazisti. Segue un comunicato: Il comando germanico ha, perciò, ordinato che, per ogni tedesco ucciso, dieci criminali comunisti badogliani siano fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito.
Quest’ordine è già stato eseguito.
Per giorni questa frase risuona nelle nostre menti, nei nostri animi inquieti e preoccupati. Si insinuano pensieri tremendi, ma è meglio non pensare, meglio continuare a cercare tutti quegli uomini scomparsi nel nulla.
Siamo madri, mogli, figlie e sorelle, e gira voce che dei Salesiani vicino alle catacombe in via Ardeatina abbiano qualche notizia. Alcune di noi indagano, altre insistono davanti alle carceri e ottengono pezzi di carta scritti in tedesco. Cerchiamo qualcuno che ci traduca, qualcuno che ci spieghi, qualcuno che ci dia speranza.
Ma nulla, non c’è più possibilità di vedere gli uomini che amiamo.
Ora siamo vedove e orfane, senza figli e senza fratelli, disperate e straziate, perché la notte del 24 marzo, i tedeschi hanno prelevato 335 italiani, da carceri e prigioni, hanno arrestato nel giro di una notte ebrei e “sovversivi”, senza criteri apparenti, senza distinzione di età o classe sociale. I nostri 335 uomini sono stati condotti in una cava buia e silenziosa, e lì sono stati ammazzati, accatastati uno sull’altro e nascosti al resto del mondo, come se fossero bestie.
Quella cava ora è la loro tomba, e quello che ci rimane è un pezzo di carta.
Noi siamo le donne delle Fosse Ardeatine e non dimenticheremo mai l’orrore e l’ingiustizia della guerra». Questo articolo desidera rievocare le voci di alcune donne che hanno vissuto in prima persona l’eccidio del 24 marzo del 1944. Il testo si ispira a fatti realmente accaduti, spesso basandosi su fonti orali e documentali reperibili e consultabili sul sito del Mausoleo delle Fosse Ardeatine. Nello specifico le donne di cui si è voluto far riemergere la storia sono: Rosetta Stame, Ada Pignotti, Fortunata Tedesco, Silvana Cibei e Lina Frignani.

In copertina. Renato Guttuso, Fosse ardeatine, 1950 (particolare).

***

Articolo di Marta Vischi

Laureata in Lettere e filologia italiana, super sportiva, amante degli animali e appassionata di arte rinascimentale. L’equitazione come stile di vita, amo passato, presente e futuro, e spesso mi trovo a spaziare tra un antico manoscritto, una novella di Boccaccio e una Instagram story!

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