Intraducibile in italiano, herstory è un neologismo nato negli anni Settanta del Novecento durante la seconda ondata del femminismo. Modifica il vocabolo history, sostituendo la prima sillaba his, che è anche pronome/aggettivo possessivo maschile, con il possessivo femminile her, per rivendicare una rilettura della storia che tenga conto del ruolo negato alle donne. Senza entrare nel merito delle discussioni che questo vocabolo ha suscitato, lo prendiamo in prestito per sintetizzare la storia dell’Italia post-unitaria in una prospettiva di genere. È una lettura volutamente parziale, che evidenzia eventi e cambiamenti relativi alle donne: la condizione nella società, l’istruzione, il loro ruolo nel mondo del lavoro, la posizione nella vita pubblica e privata, le battaglie per l’affermazione di un’identità attiva e partecipe dei grandi mutamenti storici. Prima di ripartire verso il Grande Nord in compagnia delle viaggiatrici italiane è utile porsi qualche domanda riguardo alla realtà che le circonda.

L’Italia post-unitaria, la “Terza Italia” che nasce con l’ambizione di rinnovare la grandezza storica dell’antica Roma e delle città rinascimentali, è in ritardo rispetto ad altre nazioni europee e attraversata da profonde contraddizioni: conosce il positivismo scientifico (e le teorie sull’evoluzione, sul progresso, sulla razza) contemporaneamente all’industrializzazione, la profonda lacerazione fra Chiesa e Stato all’origine dell’unificazione, il divario tra Nord e Sud, tra latifondismo e capitalismo, tra braccianti e operai, che si protrarranno nella storia anche recente. La filosofia positivista si riverbera pure nel socialismo e alimenta le speranze dei movimenti femministi nascenti.
Per contro, l’atmosfera ottimista della Belle Epoque e delle Esposizioni Internazionali celebra i valori di un Progresso che sembra inarrestabile. Nel diritto di famiglia della nuova Italia del 1865 la donna non ha alcuna autonomia rispetto al marito, che decide il domicilio e gestisce tutto il patrimonio. La legge Casati del 1859 prevede l’istruzione elementare per entrambi i sessi per soli due anni. Poche sono le ragazze nei ginnasi e meno nei licei; Gina Lombroso, figlia di Cesare, racconta di essere stata l’unica allieva nel 1888. Molte invece le future maestre, alle quali una circolare del 1890 ricorda che «sono destinate ad essere madri o insegnanti di buone madri». Alle signorine di famiglia borghese vengono impartite lezioni di francese, di cucito, ricamo, buone maniere, pianoforte e recitazione a livello amatoriale, spesso entro le mura di casa, il che sancisce il loro isolamento. Infine, alle donne è permesso iscriversi all’università dal 1874, ma non è concesso praticare le professioni. Nei primi anni del Novecento viene emanata qualche legge a tutela della maternità, non tanto per proteggere la donna quanto per difendere la prole, che si intende più numerosa possibile.
Nel 1912 Giolitti propone il suffragio universale, riservato agli uomini oltre il trentesimo anno di età, anche se analfabeti; inutilmente il Partito socialista, su istanza di Anna Kuliscioff, presenta un emendamento chiedendo il voto anche per le donne, respinto con 263 no e 48 sì. In questo panorama la Chiesa, attraverso due encicliche, esalta il ruolo della maternità e i valori della famiglia, contrapposti alla modernità, portatrice di corruzione dei costumi. Nella concezione della donna è già evidente la contraddizione, esasperata poi dalla mentalità fascista, dell’ancella dell’uomo che però, come le matrone dell’antica Roma, deve anche contribuire attivamente alla formazione delle nuove generazioni. Rare, ma potenti, alcune voci contrastano questa visione; Anna Maria Mozzoni, pioniera dell’emancipazione cresciuta nel salotto risorgimentale della madre, sottolinea questa contraddizione: «Che volete mai impari l’uomo da una creatura […] educata né più né meno che per piacergli, per obbedirgli, per ammirarlo, per adorarlo, per credere alla sua portentosa sapienza, per piegarsi sempre e in tutto alla sua volontà onnipotente?». Il variegato femminismo italiano risulta difficile da definire; Sibilla Aleramo parla di «una torre di Babele», in cui però l’opinione prevalente sostiene la superiorità morale della donna-madre, capace solo in quanto tale di apportare un miglioramento alla società, aspetto che rimarrà costante per decenni nel movimento femminista italiano. Su una questione però non ci sono dubbi: se la donna è «la vittima più colpita nei rapporti sociali moderni», come afferma Kuliscioff, solo lei, in prima persona, può sostenere la propria emancipazione.

Un cammino difficile e contraddittorio: nella pratica sono due antesignane del femminismo italiano, Anna Maria Mozzoni e Paulina Schiff, a fondare nel 1880 a Milano la Lega promotrice degli interessi femminili. Il capoluogo lombardo rimane per un trentennio un punto fermo per l’associazionismo femminile, anche grazie alle lotte sostenute dalle lavoratrici: una per tutte, lo sciopero delle piscinine del 1902, che vede protagoniste le apprendiste di sartoria, bambine dai 6 ai 14 anni, che si battono per alcuni diritti elementari: la riduzione dell’orario di lavoro, un’ora di riposo al giorno, la diminuzione del peso dei pacchi da consegnare, l’aumento del salario. Nella teoria, l’emancipazione si muove decisa su un percorso accidentato: nel 1903 nasce il Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (Cndi); nel 1906 è Maria Montessori a perorare la causa del suffragio femminile, incitando le donne dalle pagine di La Vita a compiere un gesto simbolico e iscriversi alle liste elettorali.
Nel 1908 il primo Congresso delle donne italiane ne porta in primo piano i problemi: gli interventi insistono sull’istruzione, l’abolizione dell’autorizzazione maritale e, soprattutto, il suffragio. Il Congresso è molto partecipato, vengono perfino rilasciati biglietti di treno gratuiti a quante vogliono raggiungere Roma per assistervi. L’ideale femminile che emerge rimane però, in definitiva, quello di cura: «modesta bontà, sereno coraggio, correttezza affettuosa e materna, pratica sapienza, grazia, tolleranza, entusiasmo di fede, gentilezza di forma, abilità di polemica, arguzia birichina, commovente sentimentalità» sono le caratteristiche che la «virtù femminile» dovrà portare nella vita pubblica: Victoria De Grazia lo definisce «femminismo pratico», un’attitudine che accompagnerà il movimento italiano fino agli anni Settanta del Novecento.
La discrepanza fra realtà e teoria, fra lavoratrici e “intellettuali”, rimane comunque enorme: in ambito lavorativo, il numero delle donne in alcune categorie non specializzate è più elevato di quello degli uomini, mentre i salari sono più bassi. Tradizionalmente considerate un pericolo per l’occupazione maschile, le donne sono interdette dall’insegnamento nelle scuole secondarie dal 1908 al 1920. Rimane comunque l’idea che lavorare sia giustificato esclusivamente dalla necessità: infatti le aristocratiche e le signore dell’alta borghesia si occupano solo dell’andamento della casa. La tradizione dei salotti, proseguita per tutto il periodo risorgimentale nelle città più importanti di quella che ancora non era Italia, aveva visto come protagoniste le rappresentanti dell’aristocrazia illuminata. Relegate nelle loro pur fastose abitazioni, impedite a partecipare ad attività pubbliche, queste donne avevano saputo trasformare gli interni in importanti luoghi d’incontro, di scambio d’opinioni e attività politiche, determinanti per le battaglie del Risorgimento almeno quanto lo erano le attività delle società segrete. L’Italia post-unitaria però non necessita più dell’opera di tessitura dei rapporti portata avanti clandestinamente nei salotti, che quindi perdono il loro significato politico e rimangono luoghi d’incontro e socializzazione soprattutto, se non esclusivamente, femminili.
Un ruolo decisivo nel costruire e diffondere modelli di genere è quello della stampa, in particolare attraverso i periodici femminili. Se, come affermava già nel 1765 Cesare Beccaria, le donne erano «dispostissime a trarre profitto da’ fogli periodici», il numero delle lettrici cento anni dopo è assai aumentato: infatti, per quanto riguarda la sola stampa femminile, tra il 1861 e il 1920 nascono nelle maggiori città italiane ben 116 riviste di moda. Può sembrare uno numero notevole, ma rappresenta un universo culturale chiuso, rivolto esclusivamente alle donne. Le riviste femminili hanno ufficialmente il compito di sostenere la figura della donna-ancella, del tutto subordinata all’uomo, madre esemplare ed educatrice dei futuri italiani e delle future italiane. In queste pagine ecco però comparire la donna acculturata, modellata sull’esempio delle riviste inglesi e francesi popolari nell’élite cosmopolita benestante, che diffonde nuovi valori sovranazionali di autonomia.
La moda ricopre il ruolo principale e accelera la trasformazione di quello che Rosi Braidotti definisce «corpo docile, riproduttivo, bianco, eterosessuale e normalmente costituito»: donne costrette in busti e crinoline, impedite in calzature opprimenti in nome di eleganza e femminilità saranno rapidamente liberate dalle costrizioni fisiche da nuovi messaggi e modelli di identità, sperimentando un costante, difficile equilibrio fra essere e dover essere. Le riviste propongono anche argomenti a sfondo culturale e artistico, il dibattito sul suffragio, qualche resoconto di viaggio. Nascono infine le pubblicazioni per “signorine”, come Cordelia. Foglio settimanale per le giovinette italiane fondato a Firenze da Angelo De Gubernatis per la figlia, con l’esplicito scopo di favorire «il progresso della cultura femminile italiana». Anche la stampa mainstream, quella maschile, indipendentemente dall’orientamento politico, si occupa delle donne, cercando un impossibile equilibrio fra la tradizionale posizione di sottomissione e un’emancipazione tutelata: la vanità femminile è considerata responsabile della decadenza sociale, perciò la donna va educata «col mezzo d’una istruzione più larga e spregiudicata»; deve diventare «compagna dell’uomo», ma non nell’urna elettorale, come afferma perfino il giornale socialista La Favilla.
Per le aspiranti scrittrici il periodico è un passaggio fondamentale verso i circuiti professionali dell’editoria. Sono soprattutto autodidatte, senza un ruolo sociale ben definito, spesso di classe media; considerano la loro professione con serietà, come un’indispensabile risorsa economica. La loro produzione da una parte rispecchia la vita privata, necessariamente dominata da un’attenta autocensura; il tono è prevalentemente formativo e le autrici divertono con discrezione mentre, per evitare ogni critica, si tengono lontane dal femminismo. I loro testi non trattano solo argomenti di evasione, ma anche di denuncia sociale: i più diffusi sono i “romanzi rosa”, come quelli di Carolina Invernizio, con finalità educative e vicini ai manuali di bon ton dell’epoca, che svolgono pure una funzione rasserenante, attraverso una realtà fittizia e un lieto fine con punizione dei colpevoli. Altre autrici invece, come Neera, Regina di Luanto, Marchesa Colombi, Contessa Lara, mostrano un mondo negativo, dove le donne rimangono rassegnate nel loro ruolo tradizionale e la maternità compensa la mancanza di amore coniugale. Pur riecheggiando il dibattito femminista, le autrici di questi romanzi non si schierano mai apertamente e nessuna eroina trasgressiva beneficia di un “lieto fine”. In tutti i casi, i romanzi vengono considerati letteratura d’evasione, un “ghetto” culturale delle donne separato dalla letteratura tout court, che non ha bisogno di aggettivi per qualificarsi.
Queste letture si diffondono con la scolarizzazione e la pubblicazione a puntate sui giornali: per l’editoria anche le donne diventano una platea interessante, in continua espansione, soprattutto se hanno tempo a disposizione, rimangono a casa e sono alfabetizzate. Per contro, è attraverso queste letture casalinghe che le donne si acculturano, più che attraverso esperienze scolastiche saltuarie e brevi. L’ambiguità della condizione femminile è sottolineata da Matilde Serao in un articolo sul Mattino di Napoli – è impossibile per una donna condurre una vita serena, visto il ruolo che le è attribuito: «[…] come sono composte e ordinate le leggi nella società moderna, non vi è felicità possibile per la donna, in qualunque condizione essa si trovi: né nel matrimonio, né nell’amore libero, né nell’amore illegale».
Lentamente, ma inesorabilmente, le donne cominciano a uscire di casa, da sole o fra loro, anche senza necessità: escono per motivi filantropici, funzioni religiose, occasioni culturali, conferenze, ma pure per fare compere, specialmente quando compaiono i grandi magazzini – come racconterà più tardi Virginia Woolf, con un pretesto qualsiasi, anche solo per acquistare una matita. Si incontrano nelle sale da tè e a passeggio nei parchi, sempre in zone rispettabili. Altro divertimento lecito è il teatro, quando offre spettacoli adatti alle signore. La pratica sportiva è poco diffusa e meno incoraggiata: alcune donne si esercitano nell’uso della bicicletta, che però è considerato al limite della decenza. Le più temerarie passeggiano in montagna, praticano il tennis e lo sci, sempre rigorosamente accompagnate da familiari. Naturalmente le uscite dipendono dall’estrazione sociale, dal tempo libero e dal denaro a disposizione. Altrettanto lentamente, ma inesorabilmente, le donne italiane cominciano a viaggiare e pubblicare i loro scritti odeporici.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.