Pavia. Via Maria Cozzi, o sull’umanizzazione di medici e mediche durante le epidemie

Maria Cozzi nacque il 13 ottobre 1889 a Settimo di Bornasco da una coppia di genitori gestori di una vasta proprietà, dall’attitudine anticlericale, e che successivamente decisero di trasferirsi a Pavia. Venne mandata a studiare presso un collegio francese «dove iniziò a interessarsi alla medicina e in particolare all’infermieristica» (Paola Montonati, “Maria Cozzi Infermiera Pavese al Fronte”, paviafree.it), una passione che coltivò in seguito e che segnò definitivamente la sua vita e il suo destino. Cozzi fu infatti «tra le prime pavesi che vestirono il velo delle Crocerossine iscrivendosi nel 1914 al II corso per infermiere volontarie di Pavia» (“Cozzi Maria”, archiviostoricocivicopavia.archimista.com).

A causa dello scoppio di lì a poco di uno dei più sanguinosi conflitti della storia dell’umanità, non ci volle molto per passare dalla teoria a una pratica senza sosta. Difatti, ben presto «il piano di mobilitazione sanitaria nazionale indicò Pavia come “Città ospedaliera”», comportando non solo la trasformazione di «collegi universitari, scuole e stabilimenti industriali» in «ospedali di riserva» (ibidem), ma anche l’invio delle allieve a operare sul campo in prima fila, senza contare l’inevitabile compromissione della regolarità delle lezioni; tra queste, ovviamente, ci fu anche Maria Cozzi. Il 15 luglio 1915 venne inizialmente mandata presso l’Ospedale territoriale della Croce Rossa situato nell’asilo di Gazzaniga in via Palestro, per poi venir trasferita un anno dopo in zona di guerra all’Ospedale da campo n. 15 situato sul fronte dell’Isonzo, dove prestò servizio senza sosta fino al 24 ottobre 1917.

Tornata a casa, chiese e ottenne di essere rimandata sul fronte, venendo assegnata al II Corpo d’armata III divisione, allora situato a Calcinatello, in provincia di Brescia. Assieme alla sua divisione, il 20 aprile 1918 partì per la Francia. A un iniziale entusiasmo, come si può leggere nel suo diario («Corre la voce che si vada in Francia, ne siamo tutti contenti, io ne sono felice ed entusiasta!»; «Alle 13 il lungo treno manda tre fischi lunghi che sembrano gridi e parte. Cantiamo tutti e siamo lieti, ma un fremito ci scorre nelle vene, addio Italia nostra!»[ibidem]), seguì un comprensibile senso di angoscia e impotenza per quella che era l’estenuante guerra di posizione di trincea, dove il prezzo per la conquista di poche decine di metri consisteva in innumerevoli feriti e morti («Ancora feriti gravi e decessi, siamo molto depressi e scoraggiati, si lavora molto» [ibidem]).
Circondata da membra stremate e sanguinanti, oltre che da urla di dolore e mormorii di pietà, Maria Cozzi non perse mai la speranza e l’ottimismo, cosciente che il suo posto nel mondo era lì, a curare quei compagni che giorno dopo giorno venivano mandati al macello. Proprio l’impegno e la dedizione mostrata le valsero prima il diploma d’infermiera volontaria per merito e la medaglia d’argento di benemerenza (rispettivamente nel gennaio e nel marzo 1917), poi la Croce al merito di guerra del Regio esercito italiano (il 3 novembre 1918). Ironia della sorte fu che a ucciderla non fu il fuoco nemico, ma l’influenza spagnola che contrasse «durante le cure che stava prestando ai soldati malati» (ibidem). Inizialmente sepolto in un cimitero militare in Francia, il corpo venne successivamente riportato a Pavia nel febbraio 1921. «La sua divisa, le lettere spedite a casa, le medaglie e un album di fotografie» furono recuperati «alla fine della guerra e donati dalla sorella ai Musei Civici di Pavia» (M. Grazia Piccaluga, “Maria Cozzi, la crocerossina morta al fronte «Le sue foto sono un lucido reportage»”, laprovinciapavese.gelocal.it, 14 settembre 2018).

L’avvento di epidemie come l’influenza spagnola sembrava ormai un lontano ricordo, o almeno un fenomeno che riguardava solamente continenti o Stati poveri e in via di sviluppo. Io stesso, da quando ho un minimo di consapevolezza del mondo, non ho mai avuto realmente timore di una malattia infettiva, né mi sarei aspettato che giungesse in Italia una così contagiosa e mortale come il Covid-19. Mi limitavo a leggere e a informarmi dell’Ebola sui giornali perché mi sembrava giusto nei confronti di chi soffriva, ma poi tutto finiva lì, con la chiusura della pagina web o dello smartphone. Di fatto, era un po’ come quando si va al cinema: ci facciamo prendere dalla storia e ci sentiamo vicini ai protagonisti, però in realtà non rischiamo niente insieme a loro, tanto sappiamo che è solo finzione e che prima o poi torneremo alla nostra sicura normalità.

Tuttavia, cosa succederebbe se l’ambientazione di un film si sostituisse improvvisamente alla realtà in cui viviamo? Sarebbe uno shock, giusto? Sarebbe un po’ come se a un certo punto Darth Vader uscisse dallo schermo per continuare a sfogare la sua furia omicida su di noi, trovandoci impreparati perché mai ce lo saremmo aspettato. Ecco, io penso che all’Occidente sia successo questo: aveva cominciato a vivere le epidemie solo tramite film o letteratura (o altro) e si è trovato psicologicamente impreparato a subirne una sul serio. Anzi, dopo anni di sicurezza probabilmente ci siamo anche auto-convinti che le pandemie potessero ormai essere solo “artificiali”, causate da qualche arma batteriologica o da qualche pazzo maniaco. In questo senso, il successo letterario e cinematografico di Inferno di Dan Brown è emblematico. Per chi non conoscesse l’opera, Inferno tratta del tentativo del protagonista, Robert Langdon, di fermare la diffusione di un virus letale creato da uno scienziato fanatico il cui obiettivo è risolvere il problema della sovrappopolazione nel modo più drastico.
Cosa ricorda questo? Ovviamente alcune teorie complottiste che vedono il Covid-19 come apposita creazione di laboratorio per i più svariati e fantasiosi obiettivi da parte dei soggetti più disparati: la Cina, il “nuovo ordine mondiale” e compagnia. Ora, probabilmente ci vorranno ancora molti anni prima di giungere alla verità sull’origine del Covid-19 e, in questo senso, è giusto non escludere niente a priori; ma non è questo il punto. Il punto è che ci sono persone alle quali anche solo l’idea che possa formarsi ed esistere in maniera così “naturale” un’epidemia mortale non sfiora nemmeno il cervello. A prescindere dai fatti affidabili disponibili, questi partono in quarta o negando l’esistenza del virus, o limitandolo a una banale influenza, o, qualora non ne neghino la pericolosità, rimanendo convinti che in fondo ci sia sempre qualche marionettista dietro.

In tutto questo contesto di incredulità generale (se raccontassi al me stesso di due anni fa come sia il mondo di oggi probabilmente mi riderebbe in faccia), una figura è stata particolarmente trasformata dalle narrazioni dei media: quella dei medici, uomini o donne che siano. Soprattutto nel primo anno pandemico, infermiere/i e medici sono stati spesso descritti come degli eroi e delle eroine, ma non lo sono. Gli eroi, infatti, sono degli esseri più simili alle divinità che ai mortali; l’eroe, inoltre, rappresenta l’eccezionalità, non la comunità. Al contrario, per quanto professionali, i medici sono e rimangono delle persone comuni. Come ben scritto da Annalisa Camilli nell’articolo Il dolore invisibile dei medici in corsia contro il coronavirus per Internazionale, i medici in prima linea nella lotta contro la malattia hanno sviluppato sintomi ansiosi e insonnia, a cui si è aggiunta l’esperienza di «incubi e pensieri intrusivi e ricorrenti» che hanno comportato «attacchi di panico o di pianto» (ibidem, internazionale.it, 1° aprile 2020). Per far capire meglio com’era la situazione (e come continua a essere, in parte), ritengo sia utile riportare per intero alcune delle affermazioni di Damiano Rizzi contenute nell’articolo citato. Rizzi, psicologo clinico che in quel periodo di inizio-emergenza stava affiancando il personale medico e i familiari degli ammalati al San Matteo di Pavia, afferma come: «la difficoltà più grande per i medici è comunicare la morte del paziente ai familiari, comunicazione che di solito avviene al telefono. […]
Ci si trova a intervenire su persone di cui non si conosce la storia, perché i malati arrivano in condizione di salute già gravi, con problemi respiratori e quindi non riescono a raccontare nulla di sé». (ibidem). A cui si aggiunge «un’angoscia costante, unita alla paura di ammalarsi o di trasmettere la malattia ai propri familiari» (ibidem), causata dal fatto che «i medici fanno turni anche di dodici ore in ambienti in cui sanno di poter contrarre la malattia…» (ibidem), comportando il loro stare «in un continuo stato di allerta» (ibidem).
Come se non bastasse, mediche e medici rischiano e vengono molto spesso colti da un fortissimo senso di impotenza contro il virus, da un senso di colpa per non essere riusciti a salvare i propri pazienti e da un senso di vergogna per il solo fatto di provare paura di venire infetti. Venuti a conoscenza di ciò, cerchiamo quindi di ricordarcene quando e semmai ci troveremo di fronte a un membro del personale sanitario. Teniamo a mente che davanti a noi non c’è solo una/un professionista, ma anche e soprattutto un essere umano e comportiamoci di conseguenza.

***

Articolo di Giovanni Trinco

Nasce a Padova nel 1997. Laureato in Scienze Politiche, attualmente è laureando in Comunicazione Digitale presso l’Università di Pavia. Appassionato di giornalismo e saggistica, riguardante la sociologia e la filosofia, spera che un giorno il progressive rock possa tornare di moda.

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