Stiamo per raccontare l’incredibile storia di una autrice, di un libro e della sua travagliata pubblicazione, e di un anniversario impossibile… Dovremo usare il condizionale perché nel 2022 avremmo potuto festeggiare i 60 anni di una edizione che invece non c’è mai stata. Ma procediamo con ordine in questa vicenda drammatica da vari punti di vista.

La casa deserta è un romanzo potente, straordinario, scritto in presa diretta mentre i fatti accadevano, nell’Unione Sovietica dominata dallo stalinismo; è quindi una dolorosa testimonianza che fonde elementi immaginati a fatti realmente accaduti. Proprio questa opera è tornata alla ribalta e riemersa dall’oblio perché di recente ha vinto il torneo fra i classici russi, sulla rivista letteraria Robinson (allegata a Repubblica ogni sabato), battendo i massimi capolavori, da Cechov a Bulgakov, da Tolstoj a Gončarov, con cui ha condiviso la partita finale a due. È stata inoltre la prima volta che uno di questi tornei ha visto vincitrice una donna, Lidija Čukovskaja, in Italia poco nota.
Nella Prefazione alla prima edizione Viktor Nekrasov (1911-87) ricordava che nell’Urss tanti romanzi hanno avuto esistenza difficile, o addirittura hanno rischiato di non venire neppure alla luce: Il dottor Zivago fu bocciato dalla censura e pubblicato in Italia, grazie all’intelligenza di un grande editore come Giangiacomo Feltrinelli, lo stesso accadde a Viaggio nella vertigine di Eugenia Ginzburg (presso Mondadori, dove era pervenuto registrato su nastro), mentre Il Maestro e Margherita non fu visto stampato dal proprio autore, con la prospettiva di rimanere fra le numerose “autoedizioni” (samizdat) più o meno clandestine.
Scrivere un libro come questo «nel 1939 significava esporsi ad un rischio mortale; non si poteva farne parola neppure con gli amici più stretti. Lidija Čukovskaja lo scrisse in segreto, su dei quaderni di scuola, miracolosamente conservatisi poi durante la guerra nella città di Leningrado, che l’assedio aveva isolato dal resto del mondo».
Per più di venti anni il manoscritto è rimasto nascosto, in mani fidate, finché il XXII Congresso del Pcus (1961) sembrò portare una ventata di libertà e segnò la condanna ufficiale dei crimini di Stalin. Lidija si fece avanti e propose il suo testo alla casa editrice “Lo scrittore sovietico”; era il 1962, lo stesso anno in cui fu pubblicato Una giornata di Ivan Denisovič di Solzenicyn; tutto andò per il meglio: l’opera fu accettata e fu concluso un contratto. L’edizione sarebbe arrivata a breve, quindi noi oggi potremmo (condizionale…) festeggiare i suoi 60 anni. L’autrice preparò subito una introduzione spiegando la genesi del libro, il suo lungo occultamento, i suoi passaggi fortunosi, il perché non volesse apportare modifiche, convinta della forza e del coraggio avuti nel raccontare fatti che stavano avvenendo in quell’epoca buia; piena di speranza affermava: «possa il mio racconto risonare oggi come una voce del passato, come la narrazione di una testimone oculare che ha cercato onestamente, a dispetto dei possenti sforzi della Menzogna, di discernere e di fissare ciò che si svolgeva sotto i suoi occhi». Invece passarono tre anni di totale silenzio e addirittura Čukovskaja fu costretta a intentare una causa per inadempienza; al processo la casa editrice si difese affermando che ormai quel suo lavoro «era inutile», forse perché superato dagli eventi? Per vie traverse alla fine il manoscritto uscì dall’Unione Sovietica e giunse in Francia dove fu pubblicato nel 1965; fu poi tradotto in varie lingue e si è fatto apprezzare ovunque in tutta la sua dolente bellezza. In Italia è stato stampato solo nel 1977, dalla casa editrice Jaca Book, tradotto da Giovanni Bensi.

Ma chi era questa scrittrice tutta da riscoprire? Era figlia di un celebre autore di libri per l’infanzia, critico e storico letterario: Kornej Čukovskij, la cui abitazione era aperta al meglio dell’arte e della cultura prerivoluzionaria; a Kuokkala, nell’attuale Finlandia, nei pressi di Leningrado (ancora Pietroburgo), passarono Gor’kij, Andreev, Achmatova, Blok… Insomma un ambiente ricco e stimolante per la piccola Lidija che ascolta, assorbe, impara.
Nata il 24 marzo 1907, si trasferì a Leningrado per frequentare l’università, laureandosi in Filologia, per lavorare poi in una casa editrice per l’infanzia; dopo un primo breve matrimonio con il critico letterario Caesar Volpe da cui ebbe la figlia Elena, si risposò, ma nel 1937 il giovane marito Matvej Petrovič Bronštejn, un fisico ucraino, fu condannato a dieci anni di reclusione “senza diritto di corrispondenza”; Lidija fece in tempo a mettersi in salvo e a fuggire a Mosca, temendo ritorsioni.
In questo periodo, cercando di avere notizie della sua sorte, frequentò le poete Achmatova e Cvetaeva alle prese con i suoi stessi drammatici problemi, in code interminabili alla disperata ricerca dei propri cari presso uffici, funzionari cinici e corrotti, carceri, stazioni di polizia. Solo nel 1958 seppe l’amara verità: il marito era stato frettolosamente processato e ucciso venti anni prima, ma intanto ora veniva “riabilitato”.
Nel periodo della Seconda guerra mondiale la scrittrice si trasferì con la figlia a Taskent, dove si impegnò per aiutare profughe/i e persone sopravvissute; rientrata a Leningrado, trovò la sua casa occupata, quindi andò a vivere definitivamente nella capitale dove riprese a scrivere. Intanto lavorava nell’editoria, si diplomava come stenografa, ma pubblicava raramente per gli interventi della censura; nel cassetto era rimasto anche il romanzo So’fja Petrovna, scritto di getto in tre mesi fra 1939 e 1940, che verrà edito negli Usa nel 1966, nel suo Paese solo nel 1988 e in Italia nel 1999; di fatto si tratta di un’altra versione di La casa deserta in cui la protagonista si chiama invece Olga e il titolo è stato ripreso dalla poesia Condanna di Anna Achmatova. Scrisse pure Indietro nell’acqua scura (che riprende le tematiche dei due romanzi citati), Prima della morte: ritratto di Marina Cvetaeva, mentre altre opere non sono mai state stampate in Italia, eccetto il ricordo degli affettuosi incontri con Achmatova, in seguito adattati per le scene teatrali francesi. A causa dei suoi pubblici interventi in difesa di Pasternak e poi dei dissidenti Daniel’ e Sinjavskij, per la protezione offerta a Solzenicyn, per il sostegno dato a Sacharov, per le sue posizioni di critica aperta al sistema ancora imperante, nel 1974 fu espulsa dall’Unione degli scrittori sovietici.

Altre sue opere: Ricordi d’infanzia, Processo di espulsione, I decembristi in Siberia, la raccolta di poesie: Da questa parte della morte e racconti per bambini e bambine, pubblicati con lo pseudonimo maschile Alexey Uglov. Intanto a Peredelkina aveva organizzato un museo in onore del celebre padre, che ebbe tante visite e riscosse grande favore dal pubblico, ma anche parecchia ostilità da parte del regime, che voleva addirittura demolirlo e farne scomparire documenti, libri, testimonianze.
Piuttosto tardivo appare dunque l’omaggio del suo Paese arrivato solo sei mesi prima della morte, quando le è stato assegnato il Premio di Stato per il suo prezioso lavoro su Anna Achmatova, a oggi ritenuto il migliore e il più completo sulla poeta; Lidija Čukovskaja muore a Mosca il 7 febbraio 1996.
Nel giardino virtuale della fondazione Gariwo onlus, nata per ricordare le persone Giuste che hanno operato per il bene dell’umanità, un albero è stato dedicato a Lidija (vedere sito Gariwo con relativa mappa).
Ma veniamo finalmente al romanzo La casa deserta la cui vicenda inizia fra 1936 e 1937 e ricalca, con la protagonista Olga Petrovna, quanto accaduto all’autrice. Anche lei lavora in una casa editrice di Leningrado, è dattilografa diplomata, e fa un minimo di carriera perché è seria, brava, puntuale; è vedova di uno stimato medico e ha un figlio, Kolia, che prima studia poi trova impiego lontano, con l’aspettativa di divenire ingegnere. La vita scorre monotona fra l’impiego, i modesti pasti, qualche rara amicizia (la collega Natascia), in una sola stanza del suo vecchio appartamento che, per legge, è stato suddiviso fra varie famiglie. Ma la situazione politica si fa via via più preoccupante, iniziano le epurazioni, anche sul luogo di lavoro; i posti di comando vengono presi da incompetenti capi di partito e si susseguono processi sommari e confessioni estorte.
Il dramma per Olga arriva con l’arresto inaspettato del figlio, che pure era un fervente sostenitore del regime, studioso, tranquillo, capace; comincia allora l’allucinante trafila delle ricerche, in cui è aiutata dalla cara Natascia (in breve licenziata, infine suicida) e dall’amico del figlio Alek (anche lui licenziato e poi arrestato).
«I suoi giorni e le sue notti li passava ora non più a casa ed in ufficio, ma in una sorta di mondo nuovo: le code». «Sapeva già, uscendo di casa dopo un breve sonno, che sulla via, sulla scala, nel corridoio, nella sala di via Čaikosvkij, sul lungofiume, alla procura, ci sarebbero state donne, donne, donne, vecchie e giovani, con scialli e con cappelli, senza bambini e con bambini di pochi anni o ancora lattanti, bambini che piangevano per la stanchezza e donne affrante, spaventate, taciturne, e come un tempo, nella sua infanzia, dopo una gita nel bosco, chiudendo gli occhi, vedeva bacche, bacche, bacche, così ora, quando chiudeva gli occhi, vedeva volti, volti, volti».
Da un ufficio all’altro, da un funzionario distratto all’altro, da una fila interminabile all’altra, con il gelo o sotto il sole, per mesi, Olga ancora si illude che si tratti di un equivoco, certe cose non possono avvenire nel suo Paese, fino alla scoperta che il giovane “ha confessato” i suoi crimini ed è stato condannato a 10 anni; dove, come, quando non si sa. Olga si licenzia perché ormai malvista e per evitare in seguito di non trovare una nuova occupazione.
Intanto è passato più di un anno senza lettere, senza notizie, nella speranza che tutto si risolva e Kolia ritorni, mentre fa acquisti assurdi in attesa di potergli mandare un pacco di viveri o di poterlo accogliere fra le sue braccia. Quasi folle, al lavoro, alle famiglie vicine di casa, alle conoscenze comunica che Kolia è stato rilasciato senza problemi; sempre più stimato, si sta affermando in fabbrica e si sta per sposare.
Finalmente arriva la tanto attesa lettera, ma non si capisce neppure se è una trappola, se è un modo per incastrare anche la madre che, ormai sfinita, invecchiata, debole, le dà fuoco: «la lettera bruciava, ripiegandosi lentamente nell’angolo, accartocciandosi… Si accartocciò del tutto e scottò le dita di Olga Petrovna. Olga Petrovna gettò la fiamma sul pavimento e la schiacciò col piede».
Una prosa asciutta, come dicevamo, che non si abbandona all’invettiva e al rancore, che fa trasparire da piccoli eventi quotidiani l’orrore che poteva colpire chiunque, in modo indiscriminato e irragionevole; bastava una lettera anonima, una parola, un sospetto… Per entrare in una spirale senza fine. Tutto questo in sole 140 densissime pagine che non hanno perso vigore e possono parlare ancora alla nostra coscienza.
In copertina. Lidija da giovane.
***
Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.