La prima cosa che penso nell’accingermi a scrivere qualcosa sulla festa della mamma è una sensazione di fastidio nella parola “festa”. Una sensazione sbagliata che deriva sicuramente dal fastidio che provo nel sentir definire sempre di più ogni anno “festa della donna” l’8 marzo.
Ricordo l’8 marzo di quando ero adolescente, negli anni Settanta, quando mettevamo la mimosa fra i capelli, non entravamo a scuola e vivevamo la giornata in senso politico. Per tante di noi è ancora così, anche se è innegabile che anche l’8 marzo sia diventata una ricorrenza commerciale; ma la seconda domenica di maggio è solo e indiscutibilmente una ricorrenza dal profumo di rosa e il sapore di cioccolatini!
E provassimo a dare anche alla festa della mamma un senso politico? Se provassimo a utilizzare questa giornata per riflettere su cosa voglia dire essere mamme?
Gli spunti sono tanti. Alcuni ce li ha offerti la pandemia: dalle mamme che hanno dovuto restare a casa dal lavoro per occuparsi di figlie e figlie a casa, alle mamme che il lavoro lo hanno perso, alle giovani donne che hanno dovuto vivere gravidanza, parto, primi mesi con il bimbo o la bimba in isolamento, con meno controlli medici, partorendo da sole, tornando a casa senza poter ricevere l’aiuto delle loro mamme o amiche o sorelle, dovendo rinunciare a rassicuranti incontri pre e post parto.
Quanto poco abbiamo sentito parlare di tutto ciò negli ultimi due anni?
Altri spunti ce li offrono in queste settimane le madri in fuga con figli e figlie dalla guerra oppure le madri che attendono notizie dei figli che sono stati chiamati a combattere. Spunti continui ce li offre l’uso del termine pancine, termine che, inventato per fare audience sui social deridendo le neo mamme (spesso anche inventando o estrapolando fuori contesto dubbi, paure, ansie), è diventato un neologismo utile per deridere una intera categoria alimentando sessismo e discriminazione.
E poi, al contrario, c’è la nuova normativa sui congedi parentali che si sta approvando e che tra le altre novità porta a 10 giorni il congedo obbligatorio per i padri lavoratori nel periodo compreso tra i 2 mesi precedenti e i 5 successivi al parto che, valorizzando il ruolo dei padri nella genitorialità condivisa, potrebbe portare anche a rileggere il termine maternità in un’ottica di condivisione.
Purtroppo però su tutto ciò prevale la retorica: l’amore materno, il diventare madri come momento di felicità pura negando ogni difficoltà. Retorica alimentata da tanti stereotipi che ci vengono trasmessi, è il caso di dirlo, attraverso il latte materno o addirittura il cordone ombelicale. Retorica che porta a chiedere a Samantha Cristoforetti, alla vigilia della sua partenza per una missione spaziale, come farà per i figli! Ci penserà il padre, ovviamente ma… quanti uomini in partenza per lo spazio si sono sentiti chiedere chi baderà ai loro figli? Quanti uomini, appena nominati per un importante incarico, si vedono definire sui giornali come “padre di due figli”?
E poi, quante bambine e bambini – mentre hanno madri che lavorano in casa e fuori, accudiscono genitori anziani, leggono, fanno politica o volontariato – vedono ancora sui libri scolastici le solite immagini stereotipate di madri ai fornelli con il grembiule (come fosse l’unica cosa che le definisce) mentre il papà legge tranquillo il giornale? E quanti di loro in questi giorni stanno imparando a memoria la solita poesia impregnata di retorica sull’amore materno?
Parliamo delle mamme, ma cerchiamo di farlo in modo più complesso, evidenziando le difficoltà e anche le ambivalenze della maternità. Invece di far sentire inadeguate le mamme, definendole pancine quando manifestano le loro ansie, cerchiamo di far comprendere loro che i modelli commerciali di perfezione materna non esistono, perché la maternità è un percorso spesso difficile e complicato, di aiutarle a capire che le ambivalenze possono essere ammesse, discusse, raccontate e che non ci sarà nessuno a giudicarle se riconosceranno le proprie difficoltà nel conciliare la propria vita prima e dopo la maternità e nel comprendere che il crescere come madri è pieno di difficoltà come qualsiasi altro percorso di trasformazione. Come l’adolescenza ad esempio, e non a caso amo il termine matrescenza che ben illustra questo cambiamento.
Se facessimo tutto ciò si potrebbe anche alleviare quella terribile forma di depressione che è la depressione post parto, di cui si parla poco perché si tende a sottovalutarla, a non darvi importanza! «Hai avuto un bambino bellissimo… La tua bambina è bella e sana, cosa ti manca per essere felice?». Con frasi come queste spesso anche le persone più vicine alle neo mamme liquidano le difficoltà derivanti dalla tempesta ormonale, dal senso di responsabilità che all’improvviso incombe per quella creaturina inerme, dal carico di lavoro, dalla stanchezza per le notti insonni…
Per tutti questi motivi sono stata felice che l‘ultimo libro pubblicato dalla casa editrice Matilda riguardasse proprio le ambivalenze della maternità: Ci sono mamme, di Donatella Romanelli e Viola Gesmundo, un albo illustrato che narra e normalizza le tante ambivalenze della maternità.
Chiamiamola Giornata, o continuiamo pure a chiamarla festa, ma svuotiamola un po’ di retorica e arricchiamola di contenuto!
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Articolo di Donatella Caione

Editrice, ama dare visibilità alle bambine, educare alle emozioni e all’identità; far conoscere la storia delle donne del passato e/o di culture diverse; contrastare gli stereotipi di genere e abituare all’uso del linguaggio sessuato. Svolge laboratori di educazione alla lettura nelle scuole, librerie, biblioteche. Si occupa inoltre di tematiche legate alla salute delle donne e alla prevenzione della violenza di genere.