Pavia. Via Rina Monti Stella, o sull’importanza del riconoscimento della fortuna nei propri successi

Cesarina Monti, detta Rina, nacque il 16 agosto 1871 ad Arcisate (provincia di Varese) da una famiglia patriottica proveniente dall’Istria. In seguito alla morte del padre, nel 1875 si trasferì a Monza con ciò che rimaneva della famiglia, dove frequentò il liceo “Alessandro Manzoni”. Una volta diplomata, si iscrisse all’Università di Pavia, ove il 1° luglio 1892 si laureò a pieni voti in Scienze naturali. Assunse il secondo cognome dopo il matrimonio col geologo Augusto Stella nel 1903.

Nonostante il suo carattere particolarmente riservato, incoraggiata dal fratello, decise di intraprendere la carriera accademica, dimostrando così un’invidiabile forza di volontà nel cercare di «ottenere una cattedra in un mondo… ancora esclusivamente maschile» (Ariane Dröscher, “Monti, Cesarina”, treccani.it). Coerentemente con questa scelta, decise di rinunciare «agli incarichi di insegnamento presso scuole secondarie per non interrompere le sue ricerche» all’università pavese (ibidem), dedicandosi inizialmente alla mineralogia per poi passare, nel 1893, al gabinetto di anatomia comparata di Leopoldo Maggi (passaggio che le permise di ottenere la sua prima libera docenza in Anatomia e fisiologia comparata nel 1899). Alla morte del mentore, ne assunse sia la cattedra vacante che la guida del gabinetto tra il 1902 e il 1905, anno in cui dovette cedere il posto ad Andrea Giardina. Da quel momento la sua vita si “allontanò” temporaneamente dalla città pavese, per poi ritornarvi solo nel 1915, quando le venne affidata la cattedra di Zoologia e successivamente anche quella di Anatomia comparata. Ciò non significa che la sua carriera universitaria si fosse nel frattempo sospesa; al contrario, dopo una breve parentesi di due anni all’Università di Siena, nel 1907 Monti divenne la «prima donna del Regno d’Italia a ricevere una cattedra universitaria ufficiale» presso l’Università di Sassari (ibidem). Tra Pavia e Milano intensificò gli studi e le ricerche idrobiologiche, diventando una personalità di spicco per tutta la disciplina, tanto che «tra le due guerre fu al centro di quasi tutti i progetti limnologici italiani, estesi anche ai laghi delle colonie» (ibidem). Morì il 25 gennaio 1937, poco dopo essersi ritirata dal mondo universitario.

Leggendo le vicende di donne eccellenti dell’accademia italiana, mi sono spesso sentito molto ridimensionato nelle mie “imprese” e risultati. Questa sensazione mi ha permesso di individuare un problema non indifferente che, secondo me, rischia di colpire specialmente chi ha alle spalle degli studi importanti (dalla laurea in su). Quando si riesce a raggiungere un curriculum di tutto rispetto o anche solo un obiettivo che ci si era prefissati, infatti, c’è il rischio che si possa diventare eccessivamente avidi nell’attribuirsi i meriti. Fermo restando che senza un concreto e costante impegno non si ottiene nulla nella vita, viene da chiedersi quanto effettivamente sia merito nostro e quanto, invece, della sorte (intesa come il caso o come la concatenazione di eventi che hanno creato di condizioni più o meno favorevoli al successo personale o di un progetto). Non volendo ergermi a maestro di nessuno (trattandosi di una riflessione soggettiva che ognuno dovrebbe fare a un certo punto della propria vita), mi affido a un discorso pronunciato da Rita Levi Montalcini che spero possa ispirare qualche riflessione a chi legge. Questo discorso fu pronunciato il 16 aprile 2009 a Roma in occasione della cerimonia per i suoi cento anni d’età presso l’Istituto superiore di sanità. A stupire è innanzitutto l’incipit , dove Montalcini afferma: «sono profondamente commossa: sono arrivata a cento anni dopo una vita vissuta con gioia, un premio che pochi hanno ricevuto» (Simon Sebag Montefiore, I discorsi che hanno cambiato il mondo, Novara, White Star, 2014, p. 324).

Sarà la lucidità di una centenaria che da quell’età riesce a vedere il mondo in un modo diverso rispetto a un venticinquenne, ma sinceramente non mi sarei mai aspettato che una persona che ha dovuto sfuggire alle discriminazioni e alle persecuzioni razziali potesse arrivare a dire una cosa simile. A partire dal 5 settembre 1938, infatti, vennero promulgate le leggi razziali italiane, che comportarono fra l’altro l’espulsione di donne e uomini (docenti e alunne/i) di origine ebraica da università e accademie, oltre che la cancellazione da ordini ed elenchi ufficiali. Moltissime persone vennero deportate nei campi di concentramento, altre più fortunate emigrarono all’estero; tra queste ci fu Rita Levi Montalcini, costretta a trasferirsi più volte tra il 1938 e il 1943 (in ordine cronologico in Belgio, a Torino e a Firenze). Presa conoscenza di ciò, forse questa sua umiltà ha le radici proprio nella consapevolezza di aver evitato i campi di internamento e di concentramento. Mi chiedo, tra l’altro, se non soffrisse di senso di colpa proprio per non aver vissuto queste esperienze; a quasi metà del suo discorso, infatti, Montalcini ci tiene a ribadire:«ho avuto fortuna, non penso merito, ma solo fortuna. Non ho avuto sofferenze. Si è parlato della mia vita come commovente, ma non ho mai sofferto». (ibidem)

Una fortuna che, per Montalcini, non deriva però solo dalla sua sopravvivenza ai tempi bui degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, ma anche dal fatto di essere nata e cresciuta sviluppando una mentalità aperta e fondata sul «totale disinteresse per la mia persona e l’interesse verso il mondo» (ibidem), tanto che lei ad un certo punto arriva ad augurare alle/ai giovani presenti in sala «la stessa fortuna che mi ha condotto a disinteressarmi della mia persona» (ibidem). La strabiliante umiltà della scienziata raggiunge l’apice alla fine del discorso: «ma posso dire che la dichiarazione che la mia razza era inferiore non poteva essere un maggiore regalo: grazie a questa dichiarazione ho lavorato in camera da letto e scoperto poi quello che mi avrebbe portato al Nerve Growth Factor [il Fattore di Crescita dei Nervi, la cui scoperta le è valso il premio Nobel per la Medicina nel 1986]». (op. cit., p. 325) In sostanza, con questo discorso Montalcini fornisce un quadro della propria esistenza in cui arriva a considerare «i risultati raggiunti come frutto della fortuna più che del merito» (op. cit., p. 323), una visione dove «anche le sfide più dolorose vengono interpretate come tappe del percorso che l’avrebbero portata al conseguimento del Nobel per la Medicina» (op. cit., pp. 323-324). Se anche una premio Nobel che ha dovuto subire le leggi razziali riesce ad affermare questo (quando invece avrebbe tutto il diritto di autocelebrarsi), allora forse pure noi, nel nostro piccolo, possiamo riflettere sui nostri risultati raggiunti e magari esserne grati.

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Articolo di Giovanni Trinco

Nasce a Padova nel 1997. Laureato in Scienze Politiche, attualmente è laureando in Comunicazione Digitale presso l’Università di Pavia. Appassionato di giornalismo e saggistica, riguardante la sociologia e la filosofia, spera che un giorno il progressive rock possa tornare di moda.

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