Enrico Berlinguer. L’arte del coraggio

In tempi difficili come quelli che stiamo vivendo si sente ancor più la mancanza di persone, ma soprattutto di leader politici, come Enrico Berlinguer.
A cento anni dalla sua nascita – che avvenne il 25 maggio del 1922 a Sassari – la sua figura appare più contemporanea che mai. Perché se c’è un sostantivo che istintivamente viene da abbinare al suo nome, è “coraggio”. E di coraggio oggi ce n’è un gran bisogno.
La sua adesione al Partito Comunista Italiano risale al 1943 quando, studente universitario della facoltà di Giurisprudenza, partecipa alle lotte antifasciste nell’Italia badogliana in piena guerra civile. Arrestato nel gennaio del 1944 con l’accusa di essere tra i fomentatori delle manifestazioni per il pane, si guadagna quattro mesi di carcere. Ma non fu questo il suo atto più coraggioso, quanto piuttosto una serie di prese di posizione che lo porteranno a essere identificato come “il fondatore di un comunismo originale e autonomo dall’Unione Sovietica”, che prenderà il nome di “eurocomunismo”.

Comizio a Cosenza, 1976, Foto tratte dal libro Album dei comunisti italiani, Marsilio editore

In sequenza:
– Primavera di Praga (1968): condanna l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, respingendo l’idea di un modello unico di società socialista;
– Congresso del Pci (1969): da vicesegretario appoggia la linea movimentista, presentando il partito come un elemento centrale della società italiana;
– XII Congresso (1972): diventato segretario, riprende e rilancia la formula togliattiana della collaborazione tra le grandi forze popolari (comunista, socialista e cattolica);
– a Mosca (1976), davanti a 5mila delegati, rompe ufficialmente con il Pcus, sostenendo l’importanza della democrazia e del pluralismo e condannando l’interferenza dei sovietici nelle questioni dei partiti comunisti e socialisti degli altri Paesi.


L’esito di questo processo, confortato anche dalla riflessione sui tragici eventi nel Cile di Allende (1973), fu il cosiddetto “compromesso storico”, che porterà nel 1976 a un governo monocolore democristiano con l’appoggio esterno di altri partiti tra cui il Pci.
Le elezioni del ’77, però, non premiano il suo progetto e l’anno successivo il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse chiuderà in modo tragico questa stagione.

Il suo realismo politico, corroborato da una grande capacità di mediazione, coesisteva in una forte spinta ideale che lo portava ad avere una particolare attenzione verso le giovani generazioni. Del resto la sua carriera politica era iniziata a 26 anni, con l’ingresso nella Direzione del partito (1948) e poco dopo con l’assunzione della carica di segretario generale della Federazione giovanile comunista (Fgci). Questa vicinanza al mondo giovanile fece sì che più di altri comprendesse le istanze di rinnovamento che erano alla base del Sessantotto e dei moti studenteschi di inizio anni Settanta.

Rassegna sportiva femminile, Firenze 1953

In un’intervista a Nuova generazione del 14 aprile 1972 diceva: «È evidente che i dirigenti democristiani hanno inteso che la protesta giovanile esprimeva una condanna morale e politica per il modo con il quale la Dc ha governato l’Italia e per questo hanno cercato di presentarla o come un normale momento di “trapasso” tra generazioni, oppure come un fenomeno di irrazionalità e di puro estremismo. Ma questa operazione, nel complesso, non è riuscita. Il fatto che in ristretti gruppi giovanili si siano determinati fenomeni negativi e si sia infiltrata la provocazione non cancella la realtà di un forte moto giovanile che esprime l’esigenza di un radicale rinnovamento della società e si collega alla classe operaia e alle sue organizzazioni sindacali e politiche». E all’intervistatore che insisteva nel sottolineare il carattere in alcuni casi violento delle proteste giovanili rispondeva senza mezzi termini: «Mentre denunciamo apertamente i fenomeni degenerativi e il ruolo negativo e persino provocatorio di alcuni gruppi estremisti, ribadiamo la nostra convinzione che il movimento dei giovani che si è sviluppato dal 1968 in poi è stato un fenomeno fondamentalmente positivo.
Non si è trattato di semplici movimenti di protesta ma di movimenti politici che nascevano da un disagio materiale e morale profondo, e che esprimevano il distacco di larghi strati di giovani dal sistema di potere e dagli orizzonti culturali e politici della borghesia. Fenomeni di questa portata non potevano non assumere forme radicali anche esasperate. Il nostro atteggiamento ha teso a cogliere le radici reali dei movimenti giovanili e a cercare di saldarli al grande moto di rinnovamento della nostra società. A favore della nostra linea parlano i risultati. Con la nostra apertura e con il confronto critico abbiamo realizzato una saldatura fra il Pci e una parte grande delle nuove generazioni che ha portato tanti giovani a incontrarsi con il partito e con il suo patrimonio ideale e politico, scoprendo il nucleo essenziale del leninismo “tradotto in italiano” da Gramsci, Togliatti e Longo».

Sciopero alla Fiat Mirafiori, 1980

Anche la sua presa di posizione sulla “questione morale”, all’inizio degli anni Ottanta, si può dire che anticipò di decenni quell’aspirazione a una società meno corrotta e non consumistica che oggi proprio dai giovanissimi (pensiamo per esempio al movimento di Fridays for future) viene rivendicata. Era infatti il 1981 quando in un’intervista al fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, Berlinguer denunciò l’occupazione, da parte dei partiti, delle istituzioni, delle strutture dello Stato, dell’informazione e della cultura. Sua, e anch’essa preveggente, è l’analisi che questa situazione potesse portare da parte di cittadini e cittadine a un rifiuto della politica e delle formazioni che ne erano l’espressione.


Purtroppo la sua voce era destinata a restare un grido inascoltato: un ictus, sopraggiunto nel corso di un comizio nella città di Padova l’11 giugno del 1984, stroncava drammaticamente e in modo prematuro la sua vita suscitando grandissima commozione e cordoglio in vasti strati della popolazione.
Il suo coraggio e la incredibile (vista con gli occhi di oggi) modernità del suo pensiero sono ben rispecchiati anche in un discorso da lui tenuto il 13 maggio 1979 sul tema della “liberazione della donna”. Ne citiamo qui alcuni passi, ma la lettura integrale è vivamente consigliata. Dopo aver rivendicato alle amministrazioni di sinistra il merito di aver realizzato quei servizi sociali comunemente considerati a vantaggio delle donne, quali gli asili nido e i consultori, affermava: «Ma per quanto estesa ed efficiente possa diventare la rete dei servizi sociali, per quanto potrà essere sostituito il lavoro domestico, ne rimarrà sempre una parte nella vita della famiglia. E qui nasce un primo problema di mentalità e di costume. Perché mai questo compito deve ricadere tutto e unicamente sulle donne? Perché non deve essere distribuito tra uomini e donne?».
Ai movimenti femministi nati dopo il Sessantotto guardava con la stessa apertura e interesse dimostrati per la questione giovanile. «Al tempo stesso però abbiamo avvertito – anche se non senza ritardi – la verità di cui si facevano portatrici le donne che davano vita ai moderni movimenti femministi. E queste verità abbiamo colto e cercato di interpretare con la visione che è propria di un partito rivoluzionario come il nostro: visione per la quale la forza rinnovatrice dei movimenti autonomi delle donne rappresenta una potenza che deve servire a trasformare, con la condizione delle donne, l’intera società, riconoscendo così un significato generale, un valore politico universale alla lotta per l’emancipazione e la liberazione della donna.

Un altro paragrafo importante e quanto mai (purtroppo) attuale riguarda la violenza sessuale. «Leggiamo con amarezza e indignazione le cronache che ci parlano quasi ogni giorno di episodi di offese violente e cruente alle donne, e cresce il numero delle aggressioni compiute non solo da singoli, ma da gruppi. Una recente trasmissione televisiva ha poi fatto conoscere anche a chi non sapeva – o non voleva sapere – come vengono spesso trattati i casi di violenza sessuale nelle aule giudiziarie, che trasformano la donna da vittima e accusatrice in colpevole o comunque in soggetto di cui diffidare. Sembrano parole di oggi. Berlinguer le pronunciava più di quarant’anni fa.

In copertina. Parco Enrico Berlinguer a Settimo Torinese.

***

Articolo di Annamaria Vicini

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Giornalista pubblicista con laurea in Filosofia e master in Comunicazione, ha collaborato con alcune delle maggiori testate nazionali oltre che con organi di stampa a livello locale. È stata direttrice responsabile di un sito internet e autrice di un blog di successo. Ha pubblicato il romanzo Non fare il male (I Libri di Emil, 2012) e l’eBook Abbracciare il nuovo mondo. Le startup cooperative (2017).

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