Quelle strane disgrazie

Il centro d’Italia è stato crogiolo di popoli e storie fin da quando i primi esseri umani misero piede sulla penisola. Che si andasse su o giù, a est o a ovest, e viceversa, sempre per i monti dell’Appennino bisogna passare. Per questo, a differenza di altri luoghi, i villaggi sparsi fra quelle montagne non sono mai del tutto isolati. Tante persone si spostano a piedi, perché lo stato delle strade non permette altro mezzo di movimento; tra buche, curve improvvise, alberi troppo sporgenti, e qualche animale che decide in quel momento di tagliare la strada, solo le più perseveranti possono giungere alla propria destinazione.
Fortunatamente per i viaggiatori e le viaggiatrici lungo la via ci sono molti ostelli pronti a offrire pasti caldi e letti non proprio confortevoli a prezzi esagerati – non che si possano biasimare questi proprietari: i viaggiatori perseveranti sono pochi, e quelle sono terre rocciose, difficili da coltivare, e la carestia è sempre dietro l’angolo pronta a reclamare vite al primo raccolto andato male.

Alta Sabina

È difficile la vita negli Appennini, anche dopo che la guerra è finita e i figli e i mariti sono tornati a casa; chiunque passi può vederlo nelle guance scavate e nella pelle bruciata dal sole dei contadini, nelle mani già callose di bambine e bambini che neanche ricordano quand’è l’ultima volta che hanno giocato per strada, nei passi veloci di una donna col ventre appena gonfio che esce dalla casa della mammana del paese in lacrime, lasciando dietro di sé una scia di rosmarino. Quella vita è difficile anche per chi passa, perché pure i lupi, i cani selvatici, i cinghiali, hanno fame e devono pensare a cosa mettere sotto i teneri dentini dei loro piccoli. È per questo che, nonostante il sovrapprezzo delle stanze e del cibo, il lieve disgusto che sorge alla vista di mani sporche di terra che maneggiano la carne della selvaggina, il senso di disagio proveniente dalla celata consapevolezza di essere in una posizione migliore di queste persone, si decide comunque di pernottare. Una notte, due al massimo, e poi si riparte. E siccome gli ostelli sono anche i luoghi dove si beve la sera, è possibile gustare la propria cena mentre si è circondati da contadini e pastori che compongono sul momento brevi ottave su svariati argomenti, ingurgitando un bicchiere di vino dopo l’altro.

Ci sono anche donne, e si chiude un occhio sulla sconvenienza e le implicazioni di avere donne in un ostello. Il viaggiatore o la viaggiatrice può comprendere molto della vita di un villaggio a seconda dello stato in cui versano le donne del posto: come sono tenute le lunghe vesti, la qualità dei tessuti delle bandane che coprono i capelli, i pochi gioielli che adornano colli e dita, quante sono quelle che si vendono ai passanti e quanto sono giovani.
Ad un certo punto la gara di poesia improvvisata causa tensione: un vecchio contadino si è rivolto ad un suo ben più giovane collega intonando un’ottava nel dialetto della zona, incomprensibile a chi è forestiero, e il giovane ha spaccato una bottiglia di vino contro il pavimento, accusando il vecchio di avergli mancato di rispetto. Chi passa, se sa giocarsi bene le sue carte e risultare simpatico/a, può farsi dire dal proprietario dell’ostello cosa è accaduto. La risposta lascia di stucco: il vecchio ha detto al giovane che sa cosa ha fatto a sua nipote e che, se suo figlio non fosse morto in trincea e lui fosse stato nel fiore degli anni, il ragazzo sarebbe stato impiccato ad un albero piuttosto che avere il permesso di prendere la nipote come moglie dopo averla disonorata. “Disonorata” ha un carico di significato enorme e facilmente comprensibile.

La vita delle donne nelle città è difficile, figurarsi nei villaggi. Un uomo può decidere di prendere una donna perché può e, forte della solidarietà del proprio sesso, sa che nessuno gli impedirà di perseguire i suoi scopi, che lei sia d’accordo o meno. Il proprietario indica una ragazza seduta vicino l’ingresso dell’ostello: la pelle del viso è ancora giovane, i capelli sono tenuti nascosti dentro un fazzoletto e sulla carnagione scura risaltano un labbro spaccato e un occhio pesto.
Un viaggiatore o una viaggiatrice dotati di saggezza sanno che è meglio non immischiarsi nelle faccende di paese, l’obiettivo deve sempre essere l’arrivare a destinazione, possono solo provare pietà per la poveretta mentre il marito l’afferra per un polso trascinandola via sotto le urla del vecchio, tenuto al suo posto dagli altri contadini e pastori che gli dicono di non essere drammatico e che si sa che i mariti devono fare così con le mogli, altrimenti smettono di portare rispetto. Dopo quella scena, una bottiglia di vino offerta dall’ostello risolleva il morale e le poesie riprendono come se nulla fosse accaduto. Ma gli altri commensali parlano, a voce bassa per dare l’impressione di star dando informazioni segrete ma abbastanza alta da farsi sentire dagli estranei. Si parla di quella ragazza, costretta al matrimonio dopo essere stata “disonorata”; alcune delle voci commentano che fosse d’accordo, altre no, fatto sta che il matrimonio è infelice, e ci si chiede se il giovane farà la fine di “lu poru Pasquale”. E chi è Pasquale adesso? Il proprietario dice che Pasquale era un ubriacone che picchiava moglie e figli tutti i giorni, al punto d’aver reso zoppa una delle figlie. Una sera d’inverno era troppo ubriaco per aprire la porta e aveva deciso di dormire in strada; lo avevano trovato morto di freddo la mattina dopo.
La moglie aveva pianto tanto, disperata per non essersi svegliata in tempo, nessuno dei figli aveva versato una lacrima. Le voci continuano a circolare, però, e qualcuno afferma che la candela nella stanza principale era accesa mentre Pasquale batteva la mano sulla porta, che quella luce si era spenta solo dopo che Pasquale si era accasciato a terra; un’altra dice che una testa era sbucata dalla finestra al piano terra per assicurarsi che Pasquale stesse dormendo sulla neve prima di chiudersi. Ma sono solo voci e nessuno ha prove e non è certo la prima volta che accade: si sa che contadini e pastori hanno più vino che sangue in corpo, e tanti muoiono da ubriachi.

Che sarà mai se uno o due o tre o quattro uomini rimangono chiusi fuori di casa mentre le mogli non sentono nulla? Le donne faticano tanto, questo glielo concedono: non come un uomo, no, perché nessuno fatica come gli uomini, ma anche le donne fanno il loro, puliscono casa, cucinano, crescono i figli, e nei campi o nei prati fanno le stesse cose che fanno gli uomini e in più sopportano; sopportano tanto, le donne, sopportano insulti, pugni, calci, schiaffi, umiliazioni di ogni genere, perché questo deve fare una donna, sopportare. Moglie e marito litigano, la moglie prova ad alzare la voce e il marito la zittisce con uno schiaffo prima di andare a smaltire la rabbia nel vino, poi la morte di uno dei tanti figli li riunisce prima che il ciclo ricominci dopo l’ennesimo parto.

I passanti provano pietà per queste donne; le passanti si sentono fortunate ad essere nate in città e non in questi villaggi montani. Mentre elaborano quanto appena ascoltato, attorno a loro si moltiplicano le voci, i pettegolezzi, i sospetti, come se questi due mariti violenti avessero aperto un vaso di Pandora fatto di teorie strampalate. Si parla di un Giuseppe scivolato in un burrone mentre era fuori con la moglie a pascolare le pecore; un altro Giuseppe è andato a dormire con una indigestione e non si è più svegliato; un Pietro è stato scambiato dalla moglie per un lupo ed è stato ammazzato con un colpo di fucile; saltano fuori nomi e storie di fratelli, padri e nonni morti in tragici incidenti ma in circostanze un po’ sospette quando ci si riflette meglio.
Alcuni si lasciano sfuggire che questi uomini erano soliti alzare le mani e che alla fine non è un peccato che se ne siano andati, ma vengono subito zittiti perché non sta bene sparlare dei morti. Chi passa ascolta in silenzio e con profondo sgomento da quanto quelle voci sembrano implicare. Poi il vino finisce ed è ora di tornare a casa, e ci si può andare a coricare.

Alta Sabina

La notte di montagna non è mai silenziosa, tra ululati e insetti notturni, e adesso lo è ancora di più col persistente ronzio di pensieri. Può essere che il viaggiatore o la viaggiatrice conosca casi di uxoricidio, ma una moglie che uccide il marito non l’ha mai sentito. Come potrebbe una donna uccidere un uomo? È più debole fisicamente, non è abbastanza veloce per affondare un coltello o prendere un fucile e sparare, e poi fin da piccola è educata a sopportare in dignitoso silenzio quanto fa l’uomo, proprio perché si sa che gli uomini non si controllano. Però, a pensarci bene, non ci vuole chissà che forza per tenere una porta chiusa davanti a  un uomo ubriaco, o a spingere qualcuno giù per uno scivoloso burrone; quelle montagne sono piene di piante potenzialmente velenose, e sicuramente le donne si tramandano tutte le proprietà di ciò che cresce in quelle terre, e non ci vuole molto a mettere un po’ di quelle erbe nel cibo; e in una notte d’inverno, quando si è già tesi perché i briganti o animali affamati possono decidere di attaccare in qualunque momento e a casa c’è solo una donna con figli e figlie, non fa certo strano che una moglie si sbagli e spari a suo marito ubriaco, probabile che il suo rantolare da alcolizzato sia facilmente confondibile con quello delle bestie selvatiche.
È un pensiero sconcertante, quello che una donna uccida il marito, la persona che ha giurato di amare e accudire per il resto della sua vita. E poi, le donne sono educate a sopportare, si sa come sono gli uomini, non ci si può ragionare, si deve mandare giù e andare avanti. E cosa succede però se una donna non riesce più a sopportare? Con questo pensiero il viaggiatore o la viaggiatrice chiude gli occhi e si riposa per la notte, ricordandosi che le vicende di paese non sono affar suo e che per la propria quiete è meglio ignorare la situazione.

Il mattino dopo si è pronti per ripartire verso la propria destinazione. Il proprietario dell’ostello dona un po’ di pane e formaggio per il viaggio e raccomanda altri luoghi dove poter riposare una volta venuta la sera. C’è una strana tensione nell’aria però, e viene spontaneo chiedere cosa sia successo. Dopo una iniziale reticenza, l’uomo rivela la tragedia avvenuta la notte prima: il ragazzo che ha quasi scatenato la rissa con il vecchio è stato ritrovato morto nel recinto dei maiali; probabile sia andato dagli animali per chiudere il cancelletto e sia inciampato battendo la testa e, ubriaco com’era, non si sia rialzato; i maiali, bestie voraci di tutto, avevano cominciato a mangiarlo, e questa mattina la povera moglie ha trovato il marito ormai morto con i maiali ancora a far banchetto sul cadavere. Un’immagine spaventosa che lascia nello sconcerto. Inevitabilmente il pensiero torna alle voci della sera precedente, a quelle strane disgrazie che ogni tanto capitano agli uomini sposati in quei villaggi montani; e si pensa a quanta forza ci possa volere per una contadina o pastora, abituata alla vita dei campi e dei prati, a colpire in testa qualcuno e a trascinare un corpo nel recinto dei maiali. Si vorrebbe chiedere, ma basta uno sguardo col proprietario: è meglio non fare domande e no, nessuno verrà chiamato a indagare, basta la spiegazione ufficiale. Il viaggiatore o la viaggiatrice riprende quindi il suo percorso; prima di partire vede la neovedova seduta vicina al nonno fuori dalla sua casa, mentre una fila di donne anziane aspetta il proprio turno per le condoglianze. Lui ha l’aria soddisfatta; sul viso di lei, dove risaltano nuovi lividi e un sopracciglio malamente curato, nulla lascia intravedere il minimo dispiacere. Chi passa si chiede quante altre donne non hanno potuto sopportare oltre, ma una volta che il villaggio scompare dietro l’orizzonte si ferma l’elaborazione di una risposta. Non sta bene parlare o pensare di queste cose, e in fondo non ci sono prove. È tempo di occuparsi della propria destinazione.

In copertina. Francesco Hayez, Meditazione, 1848.

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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