Femminile singolare non è solo una declinazione. È un ideale, un manifesto, un cambiamento. È un progetto concreto da dover costruire, politico, civile e di scrittura; una vera e propria lingua dalla quale attingere, come una miniera che tira fuori le pepite «dello scabroso sasso».
Femminile singolare è un grimaldello, una folata di vento marino in grado di far mutare il tempo.
E il tempo deve mutare, la bonaccia deve finire, e le parole, come quei pezzi preziosi cavati dal buio della terra, assumono un peso e una luce enormi quando sono tirate fuori, limate e vagliate, dal giacimento della memoria.

In questo credeva Gina Lagorio, scrittrice, critica letteraria, politica; nel potere che il ricordo ha quando diviene testimonianza; nella forza delle parole, quelle giuste, quelle lavorate, che sanno raccontare e fare rivoluzione. Che sanno far diventare la “società”, sostantivo maschile, in un meraviglioso femminile singolare.
«La letteratura è qualcosa di così intimo, profondo, così necessario, se è necessario – secondo me è una conditio sine qua non – che deve implicare tutta intera la persona, che deve scegliere tra il dovere e il piacere, che deve sapere navigare nel mondo in cui si trova a navigare e in cui è bene, se è possibile, non cedere a troppi compromessi, perché i compromessi corrodono la dignità di una persona».
La scrittura le è sempre appartenuta: lei, figlia unica, cresciuta sulle colline delle Langhe, ha avuto durante l’infanzia l’inestimabile compagnia di tutto il mondo che le viveva dentro. Un mondo che poi, crescendo, ha messo a servizio della comunità e —soprattutto — delle donne.
Si laurea a Torino in Letteratura Inglese e, fin da subito, fin da suoi primi incarichi, percepisce evidente la difficoltà, propria della condizione femminile, di bilanciare i doveri familiari e quelli lavorativi. Persino l’impegno intellettuale, che sarà la passione assoluta di tutta quanta la sua vita, ha per Lagorio spesso il sapore delle relazioni clandestine, dell’amante di cui non si può fare a meno ma il cui nome va pronunciato sottovoce.
Scrive infatti in una lettera a Carlo Betocchi, in risposta ai complimenti ricevuti dal poeta per la pubblicazione del romanzo Fuori scena, nel 1979: «Forse, senza quella madre che aveva fatto le elementari soltanto, ma leggeva le lettere di Leopardi, la bambina ch’ero io non sarebbe cresciuta con l’amore dei libri e forse nel momento difficile del matrimonio e della maternità, quando anche l’amore della letteratura può apparire ingiusto o non necessario, come un amore clandestino, senza l’amicizia protettiva e sorridente, stimolante ma discreta, attenta a quel che ero, nella mia domesticità ben difesa ma anche a quello che non dovevo sciupare o costringere fino a sacrificarlo, dei miei due vecchi amici, oggi io, non sarei qui a scrivere a lei, pensando anche a loro, e a tutto, a tutta la mia vita, che in qualche maniera ho riversato nel mio ultimo libro».
Gli amici di cui parla qui sono Camillo Sbarbaro e Angelo Barile, i suoi «angeli custodi», che sempre l’hanno sostenuta e consigliata, e che, per uno strano gioco geografico, rappresentano anche le due terre che Lagorio considera casa, sentite con nostalgia quando ne è lontana, e che hanno tenuto salde le maglie del suo sentire, dettandole il senso del tempo e delle stagioni: il Piemonte e la Liguria.

Non solo. In queste due regioni conosce rispettivamente Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, e poi Adriano Grande, e soprattutto il primo marito Emilio Lagorio, responsabile del PCI nel CLN di Savona, con il quale condivide l’impegno politico e la visione sociale. Quando egli muore, nel 1964, Gina Lagorio trova nella letteratura l’appiglio che le permette di andare avanti, e nel lavoro e nella vita privata: Approssimato per difetto esce nel 1971, dopo un labor limae intenso e chirurgico, e le cinquecento pagine che toglierà all’edizione definitiva sembrano rappresentare proprio il peso sceso dalle spalle per lasciare posto soltanto ai ricordi preziosi della mente e dell’animo. Questo diario pubblico, come è stato definito, è paradigmatico del ruolo che Lagorio dà alla parola scritta: un filtro attraverso il quale la dimensione privata acquista spessore pubblico e sociale, senza risparmi, se non, appunto, quello della lingua: «[…] ogni cosa si può dire con la parola giusta: tra quattro aggettivi, non lasciarne tre, e nemmeno due: uno solo, ma che sia insostituibile».
Dopo la morte del marito, oltre all’insegnamento e alla collaborazione con diverse riviste letterarie, come Letterature Moderne, L’Approdo, Il Ponte, inizia a pubblicare i suoi primi racconti. Decide, negli anni Settanta, di trasferirsi a Milano. E qui il titolo di scrittrice può finalmente spettarle di diritto. Escono, infatti, nell’arco di poco più di vent’anni, tutti i suoi lavori più importanti: La spiaggia del lupo, 1977; Fuori scena, 1979; Tosca dei gatti, 1983; Golfo del Paradiso, 1987; Tra le mura stellate, 1991; Il silenzio, 1993; Il bastardo, 1996; Inventario, 1997;L’arcadia americana, 1999.
Continua a occuparsi di critica collaborando alla realizzazione dell’Enciclopedia Europea, curando l’antologia Cultura e letteratura ligure del ’900 e scrivendo monografie dedicate a Fenoglio, Sbarbaro e Barile.
Nel capoluogo Meneghino, Lagorio incontra l’editore Livio Garzanti che diventerà, ben presto, suo compagno sia nel privato che nel lavoro, in quella dicotomia di personale – universale che sempre l’ha accompagnata. Dicotomia che emerge con forza durante il suo impegno come parlamentare, quando viene eletta nel 1987, e fino al 1992, tra le file del P.C.I. nella circoscrizione della Liguria: «Voglio dire che al di là delle motivazioni biografiche, il perché di questa scelta ha le sue radici nel mio mestiere di scrittrice. Chi scrive occupa una posizione ambigua sia a livello sociale, sia nell’intimo della propria esistenza e nel privato svolgersi della propria attività: se infatti il mondo sperimentato dallo scrittore nel suo lavoro è l’unico e plurisfaccettato mondo della parola, duplice è il modo di rapportarvisi. Per lo scrittore puro, la parola è il suo fine, per lo scrittore il cui fine è comunicare, la parola non è che un mezzo, sia pure il più importante, necessario, ineludibile. Chi scrive e sente il peso della responsabilità del proprio fare, non può che oscillare fra due tendenze in un certo senso contrapposte: quella dell’asservimento alla parola e al linguaggio letterario e quella che piega questa parola e questo linguaggio a un impegno di comunicazione. In questo preciso momento storico, nella confusione e nella indeterminatezza dei valori che lo costituiscono, penso sia essenziale, ritorni ad essere essenziale, affermare la propria presenza politica, il proprio esistere cioè in relazione e in comunicazione, come individuo sociale».
La scrittura, dunque, sublimata nell’incarico parlamentare, è partecipazione. E resistenza. Del mondo, della collettività, del suo essere donna. Tutto il rispetto profondo che Lagorio ha per la lingua, «questo enorme scrigno a cui hanno attinto tutti», lo riversa nelle critiche feroci alla classe politica completamente scollata dalla realtà, che parla senza la «decenza montaliana nella delicata, e rischiosissima, arte retorica del comunicare».
Esattamente come Gramsci, che pure accusava la politica di neolalismo, anche Lagorio si schiera ferocemente contro chi non partecipa, non parteggia, non parla concretamente della situazione attuale e contingente, mantenendo i palazzi del potere su una linea parallela e assolutamente distante dalla gente, dal popolo.
Soprattutto, durante il suo mandato, si batte per e su le questioni femminili, esigendo un pragmatismo e un realismo che sono, ancora oggi, ben lontani dall’arrivare: «Si è parlato di violenza, di stupro e di aborto, proprio mentre stava ratificandosi da noi il primo come reato contro la persona pur fra polemiche accese, e sul secondo siamo in clima di crociata. L’aborto è dolore, è trauma; che questa sofferenza sia contenuta finché nuovi modelli educativi e civili l’avranno eliminata. Ora valga la legge, senza la quale le donne più sfruttate ed emarginate lo sarebbero ancora di più. Ma com’è triste che ci si scanni ancora per l’ideologia, quando solo la sofferenza delle donne è il prezzo di ciò che si dibatte». Posizione, questa, che stata, allora e oggi, giudicata come troppo “morbida”, di “compresso”, soprattutto per uno spirito e un’intelligenza combattivi come quelli di Lagorio. Eppure, a leggerle con attenzione, a inserirle soprattutto nel contesto di quegli anni, esse non possono che apparire come perfettamente calzanti, come — anzi — allargate ben oltre il sentire personale, e volte a ricercate il più possibile il bene comune.
Una tale attenzione alle tematiche di genere si è, in quegli stessi anni, espressa meravigliosamente con le rubriche Singolare femminile e Parlare al femminile, trasmesse sui canali della Radiotelevisione Italiana. In esse, durante la famosa stagione del Sessantotto francese, Lagorio ha deciso di presentare le poesie della sua cara amica Alba de Céspedes: «Sono rimasta commossa dall’entusiasmo per le mie Chansons che hai saputo esprimere in modo così forte e convincente […] Temevo che tu avessi fatto un lavoro inutile, giacché dubitavo che la conversazione sarebbe stata accettata. È un segno confortante per il Nostro Paese, per la Rai, e una prova inconfutabile della stima che tu riscuoti».
Il carteggio che intercorre tra le due scrittrici è una delle fonti più importanti e preziose per provare a leggere le figure di queste due donne, tra le più importanti intellettuali del loro tempo, consapevoli del proprio valore ma fin troppo consapevoli anche del fatto che, proprio in quanto donne, la società avrebbe richiesto loro un maggiore sforzo, una maggiore attenzione, la prontezza di fare comunque un passo indietro nel dovere imprescindibile di conciliare professione e vita privata: «Mia carissima Gina, a sostenere le ragioni del femminismo e le ingiustizie, i pregiudizi che ancora oggi subiscono le donne basterebbe la qualità del tuo scritto sulla mia Notte. A parte la gioia, la commozione che mi ha procurato, la soddisfazione di essere compresa in ogni intenzione, non potevo, leggendolo, impedirmi di pensare che ben pochi uomini, critici celebrati, saprebbero scrivere un articolo acuto, logico, com’è il tuo; e pochi, amando l’opera di cui parlano, saprebbero così bene mitigare il loro entusiasmo e trasmetterlo ai lettori. Ma quale quotidiano, quale rivista, ha per titolare della critica letteraria una donna? E grazie anche per aver rimesso a posto chi ha tacciato di femminile ciò che scrivo. (Femminile, sì, ma nel senso che intendiamo noi)».
E il senso di questo femminile, di questo femminile singolare è l’eredità più preziosa che Gina Lagorio, scomparsa il 17 luglio del 2005, ci ha lasciato.
Un senso fatto di lotte e contraddizioni, complicazioni e fondamentali traguardi. Un senso che va coltivato insieme alla memoria di ciò che è stato e con l’attenzione eterna e vigile di ciò che può tornare, soprattutto per le donne, che molto più degli uomini hanno combattuto, rinunciato, e che mai possono abbassare la guardia.
«A chi compie liberamente una scelta la rinuncia non pesa».
L’importante è tutto in quell’avverbio, che racchiude in sé anche il senso alto e irrinunciabile di laicità. Libertà e laicità, dunque. Libertà e laicità verso qualunque tipo di dogma o indottrinamento. Libertà e laicità che hanno permesso a Gina Lagorio di essere ciò che ha voluto, con fatica, ma senza rimorsi o ripensamenti: attivista, moglie, madre, intellettuale, scrittrice.
Libertà e laicità che le hanno regalato anche l’idea di un paradiso tutto personale, «dove ci metto, naturalmente, mia mamma, che accendeva le candele in chiesa e cantava come un angelo, e ci metto mio papà, che bestemmiava».
Un paradiso che vive in terra e che ciascuna di noi ha il diritto sacrosanto di vedere e costruire.
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.