«23 Maggio 1992: strage di Capaci. Ucciso il giudice Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai componenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo».
Così è rimasta nel ricordo indelebile di molti italiani e italiane la figura di questa giovane donna.
Felice Cavallaro, giornalista e scrittore, con il suo libro Francesca. Storia di un amore in tempi di guerra. ed. Solferino, colma un vuoto della memoria collettiva, restituendoci la figura non solo di una vittima di quel feroce attentato ma di una magistrata. Con scrittura fluida e avvincente, l’autore ci regala una nuova pagina della nostra Storia, raccontando la professionalità di questa donna, il suo spirito di abnegazione, la sua lotta alla mafia. Perché Francesca non fu solo la moglie di Falcone e la sua storia d’amore non fu solo quella per il “suo uomo”, ma fu una storia d’amore per la giustizia, per la legalità, per la sua terra.
Francesca Morvillo, figlia e sorella di magistrati, decise di intraprendere il suo percorso professionale in un periodo in cui per una donna era ancora arduo e complicato. La sua storia personale si srotola nei fatti di cronaca di quegli anni a Palermo: una città con poca luce e molte, troppe, ombre.
Una città incredula, attonita, a volte distratta.
Una città che assiste impotente agli omicidi di “servitori dello stato”, politici, giornalisti e imprenditori onesti.
Una lunga scia di sangue su cui camminava anche Francesca.
A ogni funerale di stato, impietrita dal dolore, aveva un pensiero costante rivolto alle madri, alle vedove e agli orfani di quelle vittime. «Come si chiama quest’altra madre col cuore a pezzi?» Sentiva dentro di sé il dolore di quelle donne, le cercava, le abbracciava. Lo fece con Rita Bartoli Costa, con Agatina Passalacqua moglie di Rocco Chinnici, con Maria Antonietta Carraro madre di Emanuela Setti Carraro. Solo lei poteva profondamente comprendere non solo il dolore, ma la paura di una vita vissuta nell’angosciosa apprensione per i propri cari. Apprensione spesso dissimulata nella tenerezza dei gesti per lenire oltre i gravosi impegni, le ferite di una giustizia che pareva non esistere più.
E raccontando la storia di Francesca Morvillo, il libro racconta anche di queste donne, della loro dignitosa lotta quotidiana alla mafia, in un’ombra che non regalava ristoro. Quando Francesca, per offrire alla madre Lina un momento di serenità, l’accompagnava in una passeggiata, non poteva fare a meno di posare gli occhi sulle lapidi e le targhe disseminate lungo il tragitto: «Vago per gli angoli maledetti di un camposanto chiamato Palermo, segnato da chiazze rosse a memoria di una guerra che non finisce, puntellando l’infanzia di tre, quattro generazioni di siciliani e siciliane. Ragazze e ragazzi cresciuti guardando in faccia la violenza, ora respingendola e facendone motivo d’impegno, ora abituandosi, adattandosi come capita a tanti orbi, incapaci di vedere le lapidi e lo stillicidio di una catena di morte abbattutasi su giudici, uomini politici, giornalisti, sacerdoti, donne, bambini. La lista della nostra vergogna».
La giovane magistrata, ogni tanto, cede alla sua fragilità confidandosi con un’amica: «Io comincio a odiare questa terra piena di vedove che vagano senza pace. Spose invecchiate d’un colpo, nel lampo di un boato, senza quiete e senza tempo. I loro letti vuoti, i loro figli orfani».
Sono attimi, solo attimi di umano sconforto, perché poi Francesca ridiventa roccia. Roccia, dura pietra che sostiene il lavoro e l’operato del suo uomo lasciato sempre più solo, imbrigliato nella rete di giochi di carriere e nomine che tendono a mortificare la sua intelligenza e il suo intuito.
Uno dei grandi pregi di questo libro è quello di evidenziare che Francesca non è Penelope che aspetta il ritorno dell’eroe. Francesca è una magistrata, prima, giudice del tribunale di Agrigento e poi Sostituta procuratrice della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Palermo. Ed è soprattutto in questo ruolo che, Cavallaro, fa emergere oltre la dedizione al suo lavoro, l’energia che la caratterizzava nel voler sottrarre alla malavita quei giovani, reinserirli nel circuito della legalità.
Sentiva il dovere di fare qualcosa, parlava con loro, soprattutto con le madri, quasi pregandole di non distruggere la vita di quei loro figli, di non diventare complici della criminalità, di non suggerire «viltà, silenzio, obbedienza ai padrini».
Francesca Morvillo fu una magistrata che non si arrese davanti all’odio, all’indifferenza, al male che stava fagocitando una intera generazione di adolescenti. E non demordeva mai. Giovanni Falcone riconosceva la grande competenza professionale della moglie, ne ascoltava le opinioni, ne accettava consigli e non solo. Quando prima dell’istruzione del maxiprocesso rientrava a tarda sera nella casa di via Notarbatolo, le affidava per revisionarli alcuni fascicoli inseriti nei pesanti faldoni. Lavorarono così, insieme, per tante lunghe notti. Francesca è stata il sostegno morale e professionale del magistrato. Giovanni la forza di Francesca, Francesca la forza di Giovanni. Una storia d’amore e di condivisione di impegno civile e sociale. Una storia fatta anche di fugaci sprazzi di vita “normale”, rubati a una routine di tempi e di modalità disumanizzanti.
Leggendo il libro pare di rivivere, quegli anni di buio e di terrore. E lei li attraversa quegli anni, in un’altalena di emozioni che coinvolgono il lettore e la lettrice. Poi, ad un tratto, l’altalena si ferma. Un boato la inghiotte portandosi via amore e impegno, sacrificio, lacrime e sorrisi, paure e speranze.
Tra le tante pagine che commuovono ci hanno colpito quelle che parlano di una spilla, la spilla di Emanuela Setti Carraro. Francesca, dopo l’attentato al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, abbraccia la madre di Emanuela che le sussurra nello strazio: «Sei bella come Emanuela… che male ha fatto mia figlia? Ha sempre aiutato gli altri. Era innamorata di Palermo. Innamorata delle cascate di gelsomini».
Dopo un anno Maria Antonietta Carraro, rivede Francesca, la riabbraccia e «dalla borsa tira fuori un pacchetto, dal quale estrae un oggetto avvolto in un panno, una spilla d’oro, con al centro un luminoso smeraldo». «Per te, Francesca. Accetta. La indossava Emanuela. Mi prometti che la porterai tu, che farai brillare questa stella, come lei non può più?».
Quella spilla, che non potè “brillare” a lungo neanche su Francesca, è un po’ la spilla di tutte le donne che, in nome della giustizia e nella lotta contro la mafia, hanno combattuto la loro battaglia, restando nell’ombra ingombrante della Storia.

Felice Cavallaro
Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra
Solferino, Milano, 2022
pp. 304
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Articolo di Ester Rizzo

Giornalista, laureata in Giurisprudenza, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) nel corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo, Le Ricamatrici, Donne disobbedienti e Il labirinto delle perdute.