Le Italiane degli anni Venti devono affrontare l’avvento del regime fascista, «un episodio particolare e distinto del dominio patriarcale», come lo definisce Victoria De Grazia, sottolineando l’aspetto «camaleontico» del suo «eclettismo culturale» nei confronti delle donne. La lotta per il suffragio è definitivamente archiviata dal discorso di Mussolini del 25 maggio 1925: «La materia del contendere è così matura che potrebbe dirsi fradicia […], se ne discute oggi perché non se ne discuta più domani. Non divaghiamo a indagare se la donna sia superiore o inferiore all’uomo, constatiamo che è diversa. Io sono piuttosto pessimista […], credo che la donna non abbia gran potere di sintesi, e quindi sia negata alle grandi creazioni spirituali. Nelle mie peregrinazioni non ho mai trovato una donna che mi abbia chiesto il diritto di voto.
Questo torna a onore della donna italiana. La questione del suffragio femminile può essere ritenuta di ordine secondario». Se l’argomento è superato per il Duce, rimane il disappunto delle tante che lo hanno acclamato: una per tutte, Regina Terruzzi, che continua a svolgere una funzione critica all’interno del regime, tanto da auto-definirsene la “suocera”. Rispetto alle donne l’eclettismo culturale fascista si esprime in maniera articolata, sviluppando un’attenzione particolare verso il corpo femminile per due motivi: il primo, quello demografico; il secondo, la minaccia di sovversione dei ruoli costituita dall’emancipazione.
Le due encicliche papali (la Casti Connubii del 1930 e la Quadragesimo Anno del 1931) incoraggiano la maternità e la famiglia, confermando così l’alleanza culturale fra chiesa e regime. Da più parti si ribadisce la teoria della donna sottomessa all’uomo e generatrice di prole numerosa, mentre a livello popolare la nubile è fatta oggetto di scherno: «donna scapola […] inadatta per la Nazione fascista» la definisce nel 1935 Roma Fascista, la rivista dei Guf, i Gruppi Universitari Fascisti. Nel 1923 Giovanni Gentile, ministro dell’Educazione Nazionale, introduce il liceo femminile di tre anni, che non consente l’accesso all’università; nel 1925 l’istruzione obbligatoria viene estesa a cinque anni per entrambi i sessi, ma non ci sono statistiche che dimostrino che tale obbligo sia rispettato. L’analfabetismo nelle donne diminuisce sensibilmente, anche se permangono enormi differenze regionali (5% in Lombardia, 56% in Calabria).
A partire dagli anni Trenta, il regime attua una serie di provvedimenti discriminatori nei confronti delle donne, di natura sia positiva che negativa: fra i primi, la creazione degli Istituti femminili (la Scuola femminile d’avviamento e il Magistero professionale per la donna) e delle scuole superiori per le maestre rurali, per le assistenti sociali e le insegnanti di economia domestica. Fra i provvedimenti negativi si inseriscono sia l’esclusione delle donne da tutti gli insegnamenti fondamentali nei Licei, sia il divieto di partecipare ai Littoriali della cultura e dello sport, a partire dal ’34. Nonostante ciò, la presenza delle ragazze nei ginnasi e nei licei continua sensibilmente ad aumentare, con un lieve incremento anche nelle iscrizioni universitarie. Pertanto, anche se l’istruzione non è negata, permane una situazione di apartheid scolastico-culturale a sfavore delle donne, che le mantiene confinate in uno stato di inferiorità.
La crescente urbanizzazione comporta un drastico ridimensionamento della famiglia patriarcale: la vita in città permette a più donne di lavorare fuori casa, sebbene il fascismo ne tenti una sistematica esclusione dal lavoro, visto come un pericolo per la famiglia e per l’educazione dei figli. Per evidenti motivi economici, è impossibile allontanarle in massa dalle fabbriche e soprattutto impedire la nascita di nuove figure negli uffici: una per tutte, la dattilografa. Si prospetta inoltre l’esistenza del tempo libero, mentre nuovi modelli culturali sono offerti da una prima forma di “globalizzazione”: nel 1920 la radio porta il mondo nelle case, mentre al cinema Hollywood permette di sognare un’altra realtà.

Chiesa e Stato concordano sul fatto che le donne in strada da sole, o in compagnia tra loro ma non sottoposte a controllo, sono un pericolo per l’ordine pubblico, per cui la politica tende a circoscrivere i loro movimenti: data la loro “diversità”, devono essere mantenute entro spazi limitati e controllabili, dove l’immagine femminile è ridefinita. «La ragazza è come la perla, men si mostra e più è bella»; «Mogli e sardine vanno chiuse in scatoline», recitano i proverbi. In una società in cui regna l’ipocrisia “uscire” per le donne non è solo movimento fisico, ma affermazione della propria identità e sfida alla divisione tradizionale tra spazio pubblico e privato, tra campo maschile e territorio femminile.
Anche il modo di vestire cambia: donne che durante la guerra avevano indossato, per necessità e praticità, abiti maschili, ora, pur non rinunciando a una comodità conquistata a volte con sofferenza, tornano a guardare a Parigi come simbolo di eleganza. Le italiane subiscono l’influenza della cultura d’Oltralpe, incarnata dalla garçonne, la “maschietta” simbolo di autonomia ed emancipazione, che crea un quasi-androgino in competizione con l’uomo; inoltre, agli inizi degli anni Trenta il cinema americano impone un modello diverso, ma di nuovo lontano da quello latino: la donna bionda, atletica, slanciata. La necessità del controllo sul corpo femminile spinge il regime a elaborare un proprio modello che ridefinisca i canoni della bellezza muliebre: Gaetano Polverelli, capo dell’Ufficio stampa di Mussolini e inventore delle “veline”, redatte per “orientare” l’informazione sui mass-media, prescrive l’eliminazione dai giornali di tutte le immagini di figure femminili magre e mascolinizzate.

Per contro, si diffondono articoli che celebrano le donne dalle forme abbondanti, talvolta con epiteti grossolani: “Di donna senza ciccia / Strapaese non s’impiccia” o “Donna che pesa un’oncia / La propria casa sconcia”; o ancora, in tono scherzoso ma pur sempre allusivo: “In stretto bacino / mal si cova il piccino”. La figura più significativa però è l’anonima “Signorina grandi firme”, elegante e curata, protagonista indiscussa dei sogni degli uomini italiani: donna oggettivata proprio perché senza nome, grazie alla matita di Gino Boccasile la “signorina” occupa per oltre un decennio la copertina della rivista omonima. Un pericoloso modello negativo è invece La donna tipo tre, protagonista del libro di Umberto Notari, pubblicato nel 1929: una «nuova creatura di sesso femminile, frutto diretto della macchina, ossia di quella civiltà meccanica e industriale che la macchina ha creato». Non più madre (la donna “tipo uno”), né femmina sensuale (la donna “tipo due”), «la donna tipo tre è colei che dai proventi del proprio onorevole lavoro trae i mezzi di sussistenza e si trova di fronte all’uomo – padre, fratello, marito o amante – in condizioni di assoluta indipendenza economica».

L’ideologia fascista ha quindi necessità di controbattere con un modello motivante da imitare, che mantenga la donna controllabile, concentrata sul proprio corpo e lontana da tentazioni emancipatrici. La creatrice del “femminismo latino” è Teresa Labriola, che agli inizi del Novecento aveva spronato l’avanguardia femminile a lottare «in nome e nell’interesse delle donne di tutti i gruppi e di tutte le classi sociali». La nuova “femminista” riassume comportamenti essenziali: è ‘latina’ per la devozione alla famiglia, l’attaccamento alla tradizione, il rispetto per la razza; è ‘pura’, perché non contaminata dall’individualismo dei movimenti anglo-americani, ma neppure appiattita nell’anonimità dell’ideologia socialista; infine, è ‘nazionale’, perché subordina le sue aspirazioni agli interessi comuni del popolo e dello Stato. Questa figura nuova trasforma l’emancipazionismo in una corrente interna del movimento fascista.
Nonostante tutti gli sforzi del regime, nel 1937 un’inchiesta fra le giovani romane rivela che le ragazze non anelano al ruolo materno, preferiscono il cinema al lavoro a maglia, sono interessate allo sport e ambiscono a trovare un impiego. Proprio lo sport consente una sorta di riscatto: nel 1923 viene fondata la Federazione Italiana di Atletica Femminile; nel 1928 le atlete partecipano con entusiasmo, anche se non con risultati soddisfacenti, alla IX Olimpiade di Amsterdam, nonostante la censura del Papa che si era opposto perfino all’organizzazione dei Giochi Atletici di Roma, offensivi per la morale.
Due anni dopo nasce l’Accademia di Orvieto, per la formazione delle insegnanti di Educazione fisica. Qui le studenti, finalmente lontane dai condizionamenti familiari, si ritagliano uno spazio personale in cui coltivare ambizioni e costruirsi una personalità autonoma. Il Fascismo è ancora ricordato per le spettacolari adunate dei sabati, con migliaia di giovani in uniforme, ma per le ragazze perfino le sfilate rappresentano un ossimoro: la parata militare, con il suo rigore, si contrappone alla grazia degli esercizi ritmici.
Altre contraddizioni segnano la vita della donna: per favorire la ripresa dell’economia è necessario che si trasformi da casalinga a consumatrice, in grado di gestire gli acquisti domestici e di amministrare l’economia della casa. In questo senso operano le nuove riviste: Rakam, Lei (che diventerà Annabella), Eva, Gioia!, Grazia, con una struttura alquanto tradizionale: moda, cucina, galateo e qualche articolo di cultura. Nei primi anni il regime non sembra interessarsi particolarmente alla stampa femminile (ad esempio, viene pubblicato a puntate un romanzo, Niôminkas, amore negro, nel quale la protagonista italiana si innamora di un uomo di colore), ma con la svolta autoritaria del ’25 le riviste devono omologarsi ai modelli fascisti.
Rassegna femminile, fondata (e totalmente finanziata) da Elisa Majer Rizzoli, nobildonna veneziana e sostenitrice del Fascismo negli anni Venti, viene presentata alle lettrici come «guida del movimento femminile italiano e fascista», con fini «di bene sociale, di coltura, di elevazione, soprattutto di fusione dei più diversi elementi femminili» e la collaborazione dei «migliori autori e le scrittrici più serie e valorose, senza preoccupazione che siano o no fasciste». Nel 1927 la rivista viene costretta ad appoggiare la campagna demografica, ma Majer commenta negativamente «la grossolana incompetenza maschile che riduce la donna a una macchina produttrice. […] La donna italiana non deve ritornare alla calza, né imparare che deve cieca sottomissione all’uomo»; la rivista chiude definitivamente all’inizio del 1930.
Altri periodici si allineano al regime, pur confermando l’esistenza di un universo contraddittorio; così si presenta L’Almanacco della donna italiana: «Crediamo necessario che la donna rimanga e sia essenzialmente donna, vogliamo sostenerne i diritti, additarle i doveri sempre più numerosi e le responsabilità. [L’Almanacco], pure tenendo presenti gli elevati problemi sociali ed economici femminili, non trascurerà di occuparsi dell’igiene e della bellezza della donna, di quelle arti antiche e pur sempre nuove che aumentano il fascino femminile, dell’abbigliamento, dei lavori muliebri, della decorazione della casa». Nonostante l’autarchia culturale auspicata dalla dittatura, le pagine letterarie ospitano ancora una rassegna internazionale dedicata alle scrittrici francesi e angloamericane nella sezione denominata “Bibliografia femminile”, curata da donne appartenenti al prestigioso club culturale Lyceum.
Qui si segnalano le novità editoriali di scrittrici, divise per nazioni e per genere narrativo, pur continuando a sostenere l’idea di un unico movimento letterario femminile internazionale. La narrativa mantiene gli elementi editoriali del periodo precedente, aggiungendo a questi la figura del Duce, prototipo dell’uomo forte, affidabile ma anche sovrano. Il carattere seduttivo di Mussolini non attrae solo le donne comuni: da Ada Negri a Margherita Sarfatti sono numerose, anche tra le scrittrici, coloro che ne rimangono affascinate e influenzate. Si continuano a proporre i modelli della matrona e dell’eterna fidanzata, o quello dell’angelo del focolare asessuato, contrapposto in alcuni casi alla sensuale amante, ma comunque sottomesso alla figura maschile, che spesso ricalca quella del Duce.
Così sono le donne di Liala (Amalia Liana Negretti Odescalchi), regina del romanzo “rosa” basato su amore e avventura, amica di D’Annunzio, che le suggerisce lo pseudonimo («perché ci sia sempre un’ala nel tuo nome»); dal 1931 alla morte scriverà romanzi di grande successo, continuamente ristampati. Anche Willy Dias (Fortunata Morpurgo) e Flavia Steno, già inviata al fronte durante la Prima guerra mondiale, scrivono romanzi “per signorine” che ottengono un buon successo tra un pubblico ancora troppo costretto in casa, rassegnato a sognare le avventure che non può vivere.
La più anticonformista è Amalia Guglielminetti, già attiva nel 1909 con la rivista Seduzioni, quasi un manifesto dell’estetismo decadente; alcuni suoi romanzi suscitano l’interesse della censura, mentre coltiva relazioni trasgressive con Guido Gozzano, Gabriele D’Annunzio («l’unica poetessa che abbia oggi l’Italia») e Pitigrilli, che nel 1921 le dedica il suo Cocaina. Una figura di indubbio spessore letterario attraversa questo periodo quasi inosservata: Grazia Deledda conduce vita attiva con estrema discrezione fra la nativa Nuoro, la Romagna e Roma. Partecipa al Congresso nazionale delle donne del 1908, frequenta caffè artistici e salotti letterari, intrattiene rapporti epistolari con personalità della cultura, si interessa alla trasposizione cinematografica del suo Cenere (con Eleonora Duse come protagonista). Nonostante l’assegnazione del Premio Nobel nel 1927 la sua figura e la sua produzione rimangono appartate e sono tutt’oggi quasi ignorate dai libri di scuola.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.