Alla ricerca di sé: Luisa Bruschetti Santandrea in Norvegia

Luisa Bruschetti nasce a Milano nel 1890 e manifesta già durante l’adolescenza il desiderio di diventare scrittrice. Ha solo 15 anni quando, mentre frequenta il liceo classico, scrive una cartolina a Giovanni Pascoli, allora professore all’Università di Pisa, per confidargli l’intenzione di seguire le sue orme e diventare poeta; perfino a scuola, infatti, le viene attribuito il soprannome di “Pascoliana”. La sua carriera inizia dunque con una raccolta di poesie: il primo volume, intitolato La Voce, viene pubblicato sul finire del 1911, ma la prima recensione non è certo incoraggiante: Giovan Battista Migliori, su Studium-rivista universitaria, di ispirazione cattolica, sottolinea le reminiscenze dannunziane e l’influenza di Ada Negri; parla di «arditezza di concetto e di espressione», dell’«impetuoso temperamento» di una donna che «ci vorrebbe far credere la poetessa poco meno di una belva [che] non si arresta neppure davanti alla divinità, alla quale lancia un’imprecazione in cui ci ritorna alla mente, in tutta la sua brutalità sconsolante, il pessimismo materialistico del secolo passato».
Migliori riconosce in Bruschetti «una bella promessa», ma solo «dal lato puramente artistico», augurandosi che «la aberrazione che oggi deploriamo in lei non sia stata che l’espressione di una transitoria malattia dello spirito». Negativa anche la critica su Italia!, la rivista della Società Dante Alighieri, dove si afferma che i suoi versi sono «pallida roba […] migliore tuttavia di quanto comunemente se ne dice». Pur riconoscendole «forza e calore» il critico Francesco Pastonchi la giustifica in quanto «donna giovane», dalla quale non è il caso di esigere perfezione formale. Anni dopo, nel marzo 1916, in un biglietto inviato a Maria Pascoli (la sorella del poeta) in accompagnamento al volume delle liriche La Voce, la poeta sottolinea, ma senza riportarle, «le critiche positive» ricevute dal libro, ricco di «reminiscenze pascoliane».
Nello stesso anno Camilla Bisi la cita nel suo Le poetesse d’Italia, una trattazione sulle autrici italiane del tempo; la sua recensione è particolarmente importante, perché non si limita all’opera poetica, ma evidenzia alcuni aspetti della personalità dell’autrice. Innanzitutto, sottolinea un mutamento preoccupante fra le due raccolte, che a suo parere è dovuto al matrimonio di Luisa Bruschetti con Firenze Santandrea, traduttore dall’inglese e agente letterario; peraltro, l’autrice stessa aveva rinnegato i suoi primi scritti, considerandoli immaturi. Riguardo alla differenza fra le due raccolte Bisi è molto esplicita e parla di un «mutamento miracoloso» in senso negativo: «Davanti a questa giovane donna che, legata dal matrimonio all’uomo adorato, giunge persino a rinnegare, a non riconoscere i canti della sua giovinezza, io provo, e molti con me, un senso di pena indicibile, un’amarezza che è forse indignazione».
La critica paragona la prima raccolta, appunto La Voce, con la seconda, I canti dell’umiltà, e descrive con precisione la contraddizione che si è sviluppata fra le due: in La Voce «c’erano cose immense in quel piccolo libro, in cui ogni lirica è canto vero, umano e divino, pieno, possente, travolgente; l’esaltazione della giovinezza». Il suo stile di «fanciulla ardita» era composto da «squillanti note», era «forse eccessivo ma magnifico»; ma quella stessa giovane donna «è ridotta così dal matrimonio, in adorazione umile, in ginocchio davanti all’ uomo che le ha dato il suo nome?». Bisi continua, affermando che nessuna autrice dovrebbe mai sconfessare la propria opera, perché «è come se la madre rinnegasse la propria creatura quando essa nasce deforme; è come se l’uomo si liberasse, col solo fatto di non riconoscerle, dalla responsabilità delle proprie azioni». Un gesto, quindi, irresponsabile: «Un libro corrisponde sempre ad un periodo di vita, triste o sereno, buono o cattivo, che nessuna forza e nessun volontario oblio può cancellare […]In La Voce, giovanissima, ancora fra i banchi della scuola, ella aveva un’anima canora magnifica di vigore, che più tardi, se si è ingentilita, ha perso però tutta la sua originalità […].
Ed è profondo il rimpianto ch’io provo per quel mirabile ingegno che l’amore ha illimpidito così da farne una cosa incolore». La poeta si è trasformata, è diventata «creatura d’ orgoglio che or si compiace di umiltà, creatura di ardire che or si compiace di soavità, creatura di passione che ora si compiace di candore […]. Forse è sincera nell’adorazione dell’uomo suo, non nelle parole che esprimono questa adorazione» conclude Bisi, sottolineando che «[è] meglio la sola prefazione del suo secondo libro di tutte le liriche ivi riunite. La prefazione è passionata, vibrante, sincera, tutto il suo amore immenso vi è racchiuso». Non si può dunque che esprimere «compatimento» per questo talento non maturato, e rimpianto per «il suo libro giovane, anelante, ansante come in un volo, in cui, al contrario del suo desiderio, la riconosciamo».

Altre notizie sull’attività letteraria di Bruschetti Santandrea si deducono soltanto da fonti indirette. La sua raccolta I canti dell’umiltà, quella stessa che Bisi riteneva deludente, è invece recensita positivamente sul Times Literary Supplement del 21 gennaio 1919. Un’altra fonte è rappresentata dalla corrispondenza con Mario Pratesi, scrittore verista toscano che era stato insegnante del marito, con il quale l’autrice intrattiene un intenso scambio epistolare nel periodo 1913-1921; Pratesi le si rivolge chiamandola « Signora Luisina», con un atteggiamento sempre corretto e gentile, da cui traspare un certo paternalismo; si esprime positivamente sul suo stile, ma le consiglia di leggere i classici della letteratura italiana e dimenticare i «baroccumi» contemporanei. I due discutono soprattutto dei loro lavori letterari, le nuove poesie di lei (che confluiranno nella raccolta Anima) e i romanzi di lui, ma da questa corrispondenza traspaiono anche informazioni personali: sono citate amicizie comuni, tra le quali la “Lombrosina”, ovvero Gina Lombroso, figlia di Cesare; Pratesi si adopera pure per trovare un villino a Firenze, dove la coppia intende trasferirsi.

Nel frattempo, Santandrea continua a scrivere sia poesie sia opere in prosa. Il già citato Anima si compone di nove liriche ed è seguito da Io e le cose: confidenze, una specie di diario dal tono intimistico, edito nel 1924, nel quale rivela idee e impressioni personali, incontri emotivamente coinvolgenti, nonché alcuni episodi decisivi della propria vita. Fra questi, senz’altro il più toccante è il racconto della nascita del suo unico figlio, Alberto, nato morto presumibilmente nel 1918: non vengono fornite date esatte, ma si afferma che il tragico fatto è accaduto «sei anni prima». Questo evento la segnerà profondamente, indirizzandola verso una religiosità consolatoria e portatrice di verità.

Cartolina con paesaggio norvegese

Nel 1924 Santandrea intraprende un viaggio di circa un mese in Norvegia da sola, spinta sia dalla curiosità sia, soprattutto, dalla necessità di guarire dalla malinconia e ritrovare sé stessa. Tali aspetti saranno evidenziati proprio dal resoconto, pubblicato l’anno successivo con il titolo di Dove il sole non tramonta.

Segue un romanzo a sfondo religioso: La scala degli angioli. Quindi viene pubblicato Artisti, un volume di circa trecento pagine, recensito con entusiasmo su L’Almanacco della donna italiana del 1931: «più studio che romanzo», in cui la protagonista, la pittrice Viola, è divisa fra la sua arte e l’influenza di amanti diversi; il finale, date le premesse, non può che essere la tragica morte della ragazza. Negli anni Trenta collabora con diversi periodici: Cordelia, Il Solco e L’Illustrazione Italiana. Nel gennaio 1934, dopo la morte della fondatrice Marianna Bettazzi Bondi, diventa direttrice di Matelda, rivista per signorine, periodico già affermato dal 1910, al quale si dedicherà fino al 1937.

L’autrice incorre nella censura fascista con Le memorie di Zeno Baba, un testo pubblicato una prima volta in versione ridotta nel 1934, tradotto con buon successo in tedesco, olandese e francese, ma edito in Italia in forma integrale solo nel 1956. Il contenuto del romanzo non risulta gradito al regime: l’azione mette in risalto ricatti e bassezze della vita di caserma e ciò non può essere tollerato. Dopo questa sofferta esperienza Santandrea compie un’operazione di auto-censura, limitandosi a opere a sfondo religioso o romanzi ambientati in terre esotiche, come Avamposti boreali e La tunica scarlatta. Nel 1948, alla morte del marito, agente editoriale per la casa inglese Curtis Brown, Santandrea ne assume l’incarico e riprende a pubblicare romanzi. Non sempre i suoi rapporti con l’editoria sono facili; lo testimonia la corrispondenza con Emilia Salvioni, direttrice della Collana Azzurra presso l’editore Cappelli, a cui nell’aprile 1960 Santandrea si rivolge invano per proporle un copione cinematografico; lo ribadisce il necrologio della scrittrice Ines Belsky Lagazzi che la definisce «dimenticata» sulla rivista del Pime (Pontificio istituto delle missioni estere). Muore nel 1963.

Dove il sole non tramonta, risultato dell’itinerario in Norvegia effettuato fra giugno e luglio del 1924, quando l’autrice ha trentaquattro anni, è l’unico resoconto di viaggio che ha pubblicato. La narrazione si apre a Cristiania: mentre siede in un parco, Santandrea incontra un anziano norvegese, di professione necroforo, che la invita nel suo villaggio nel Telemark. Il percorso, dunque, esclude subito la città per procedere verso l’interno del Paese e raggiungere il villaggio di Haukelid; la natura, così diversa da quella mediterranea, fa da sfondo alle riflessioni dell’autrice. Segue un lungo dialogo con chi legge, che Santandrea immagina paterno e anziano, disposto ad ascoltare non solo la narrazione del suo viaggio ma anche le sue divagazioni: tra queste, una lunga digressione sul soggiorno da giovane a Parigi. La tappa successiva è Bergen, città in stretta simbiosi con il mare, dove si verifica uno degli incontri più importanti, quello con Benedicta Strand, una donna anziana che la invita in casa sua e le racconta la sua travagliata storia. Ancora a Bergen conosce un giovane capitano, che le narra di una terribile tempesta e delle superstizioni riguardo a vascelli fantasma che si aggirano sul mare; in seguito a questi racconti Santandrea sogna un viaggio su un veliero immaginario al largo delle Lofoten. Il giorno seguente parte in treno per Trondheim, da dove però rientra subito a Dronningen, presso Christiania; a Holmenkollen, sulle alture della città, si perde in un bosco e sperimenta l’inquietudine della natura selvaggia e sconosciuta. Partecipa quindi a una serata in onore di Amundsen e a un rito commemorativo sulle due tombe di Ibsen e Björnsson. Riprende il viaggio con la navigazione sull’Hardanger Fjord, che termina nella famosa località turistica di Odda per un breve soggiorno.

La narrazione si allontana nuovamente dal resoconto di viaggio per trasformarsi in una riflessione personale, preceduta da uno strano sogno premonitore: il tredicesimo capitolo rappresenta infatti un giro di boa nelle modalità narrative e nell’atteggiamento della scrittrice rispetto al viaggio stesso. Santandrea ritorna con la memoria ad alcuni episodi della sua vita e riflette su vari concetti che hanno orientato la sua formazione: rifiutata la razionalità scientifica, l’umiltà e la disciplina che le derivano dalla sua formazione religiosa si rivelano i valori fondanti della vita e le indicano il suo ruolo di cura e fede. Questo procedimento catartico la porta a riprendere il cammino più serena: ha compreso la propria missione e s’avvia a realizzarla. Il successivo incontro con la famiglia Sekse assume ancora un valore simbolico: l’autrice ne definisce i membri «personaggi di Ibsen» e, se da una parte vorrebbe intrattenere con loro un rapporto di amicizia, dall’altra è inquietata dalla storia di uno dei figli, morto ma misteriosamente presente nelle dicerie di paese, nella vita degli altri familiari e negli strani scricchiolii della casa. L’arrivo nell’estremo nord è segnato dalla comparsa delle prime renne; quindi Santandrea raggiunge Narvik per una breve visita alle isole Lofoten, prima di proseguire per la Lapponia, dove incontra il popolo Sami, che descrive minuziosamente, appassionandosi alle vicende di un piccolo malato e suscitando la gelosia della madre di lui. La narrazione termina con la morte del bambino, che di fatto viene a coincidere con la partenza della viaggiatrice e segna la conclusione di questa esperienza. Nei prossimi articoli approfondiremo il rapporto dell’autrice con il paesaggio norvegese e analizzeremo alcuni dei suoi incontri.

In copertina: panoramica di un paesaggio norvegese.

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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.

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