TANO: LOTTA E BELLEZZA

«L’immagine nuova, diversa, irrompe dagli strappi della storia, quando c’è conflitto». Questa massima è quella che più rappresenta il pensiero e il lavoro di Tano D’Amico. 

Gli anni Settanta sono caratterizzati dall’irruzione nella Storia di soggetti nuovi. Le insolenti femministe, le antipaticissime lesbiche, i cattivissimi autonomi e quei nullafacenti degli Indiani metropolitani, i matti che escono dai manicomi e da criminali da rinchiudere vengono riconosciuti come pazienti da curare (quest’ultimo in particolare è un tema caro a numerosi autori e autrici della fotografia, come Raymond Depardon, Gianni Berengo Gardin, Letizia Battaglia…), i giovani del Sud Italia che da “terroni” diventano studenti universitari, le famiglie povere che escono dalle baracche e occupano case vere, gli anni Settanta sono l’esplosione di tutto questo fermento, di cui Tano è un eccelso rappresentante. 

Nato in Sicilia nel 1942, Tano D’Amico ha sempre accompagnato e ritratto i movimenti sociali e politici della seconda metà del Novecento. Le donne, i movimenti studenteschi dal 1977 alla Pantera, la causa palestinese e il popolo del Chiapas, le case occupate, sono questi i suoi soggetti preferiti.

La dolce ala del dissenso, Milano 2003

Tano non è un cronista né un giornalista, non è un fotoreporter assetato di sangue, è un autore: non punta a vendere notizie né a fare scalpore con immagini sensazionali ma a costruire un proprio stile per ricercare la bellezza. 

I giornali hanno sempre ucciso le immagini e usato le immagini (quelle brutte, quelle che non si fanno amare né ricordare) per uccidere i movimenti. «Le cattive immagini – spiega Tano – uccidono i movimenti, perpetuano proprio il mondo che i movimenti vogliono cambiare. […] Senza immagini belle, anche gli operai scompaiono». La fotografia di cronaca, usata come tappabuchi da giornali e riviste, è una fotografia vuota, destinata a morire in breve tempo, a scomparire dalla memoria. Come nota Roland Barthes, ci sono avvenimenti dell’ultimo secolo che sono stati illuminati a giorno dai flash dei fotografi, eppure non ne ricordiamo neanche una sola immagine. Il ritratto seriale che non cerca la bellezza è un oggetto inanimato, nulla di più. Proviamo a porci la domanda: quante immagini abbiamo visto nella nostra vita e quante ne ricordiamo davvero? La macchina fotografica non è un’arma: ritrarre la violenza, con l’alibi della denuncia, non fa altro che perpetrare l’ingiustizia, immortalarla, renderla eterna. «Molti giornali – accusa Tano – parlano di pace con fotografie che sono inni alla guerra». «L’immagine che serve a compiacere, che lascia il mondo così com’è, non serve a nulla». A dare vita a un’immagine è la bellezza

La bellezza dell’immagine è quella che non lascia indifferente nessuno, neanche i detrattori, è un’immagine viva, coinvolge lo spettatore, non lo lascia passivo. «La vera bellezza è critica, non lascia le cose come stanno, non mette in bella copia i luoghi comuni su cui si basa il potere culturale». Le fotografie di Tano non sono mai state portate in tribunale, non sono mai diventate prove contro qualcuno o atti d’accusa, non possono essere usate a tale scopo perché non mostrano la colpa del carnefice ma la ragione della vittima, portando chi guarda a schierarsi dalla parte di quest’ultima. La fotografia Ragazza e carabinieri, per esempio, non è servita a condannare la ragazza con il volto coperto per resistenza a pubblico ufficiale, semmai a identificarsi con lei e a darle ragione. Certo, delle buone immagini possono smentire una menzogna, come quando, il 12 maggio 1977, il ministro Cossiga disse di non aver mandato alcun agente infiltrato nella manifestazione e che a usare armi da fuoco erano stati solo i famigerati “autonomi”, un ottimo capro espiatorio, e Tano pubblicò la foto intitolata Il giorno che uccisero Giorgiana Masi, un documento che non lasciava adito a dubbi. 

Il giorno che uccisero Giorgiana Masi, Roma 1977

La bellezza non ha bisogno di regole, ma in sua assenza l’immagine è un oggetto morto. «Non ci sono regole per la fotografia come non ci sono regole per la poesia. Si possono contare le sillabe, gli accenti e il ritmo, ma Omero è Omero. Così nella fotografia: si possono riproporre le linee e i ritmi delle immagini belle, ma una fotografia bella non è solo linee e ritmo. Una fotografia bella è grazia divina: se c’è c’è e se non c’è non c’è». «Una foto che mostra soltanto ciò che di visibile vi è già in essa, è ben poca cosa, non serve a nulla»; deve far vedere oltre, mostrare le idee e le speranze della figura ritratta, le sue ragioni, i suoi sentimenti, deve puntare all’astrazione: gli occhi tondi dei bambini Rom ricordano il cerchio della ruota dipinta sulla loro bandiera.

Bambini Rom, Roma 2000

La bella immagine, pur rappresentando un soggetto in carne ed ossa, è astratta come le note musicali e come le traiettorie percorse con grazia dagli oggetti lanciati dai saltimbanchi. «Fotografi, guitti, mimi e saltimbanchi sono fratelli», sostiene Tano. Spesso un’immagine nuova, se bella, se potente, se vera, se viva, riprende i classici. Le luci che colpiscono i personaggi di Tano hanno un che di caravaggesco, gli sguardi che le madri palestinesi rivolgono ai figli uccisi ricordano delle moderne Pietà, la forma stretta e allungata con cui è stata stampata la fotografia Il funerale di Giorgiana Masi richiama i dipinti religiosi rinascimentali, la pausa pranzo degli operai della Fiat riprende L’ultima cena, nella foto Le sorelle di Giorgina Masi gli uomini armati sullo sfondo sembrano fare da coro alle protagoniste in primo piano come in una tragedia greca. 

Il funerale di Giorgiana Masi, Roma 1977
Le sorelle di Giorgiana Masi, Roma 1977

La fotografia non è una semplice e acritica rappresentazione passiva degli avvenimenti. Anzi, Tano sostiene che «le immagini vengano prima dei fatti». Non è il fotografo che vede qualcosa e decide di ritrarlo, è la cosa stessa che si compone davanti al suo obiettivo e vi rimane fino al momento dello scatto. È l’immagine vivente che doveva nascere, materializzarsi, esistere, dire qualcosa. Questo perché la fotografia mostra la consapevolezza di un gruppo umano. L’immagine frutto del conflitto è la dimostrazione del cambiamento proprio perché durante il conflitto la prima cosa che cambia è il modo di guardare. Pensiamo, ad esempio, al Diciannovesimo secolo: già Eugène Delacroix, con il dipinto La Libertà che guida il popolo, mostrava una nuova concezione non solo di libertà, di popolo e di società, ma anche di uomo e di donna. Il parigino Nadar, uno dei primi fotografi, con i bellissimi ritratti di Sarah Bernardt mostra una bellezza nuova. 

Nadar, Sarah Bernardt, Parigi 1864

Poi Parigi insorge e Nadar lascia l’arte per prendere parte alla Comune. «Senza la Comune non avremmo avuto l’Impressionismo», afferma Tano. Dopo la Comune, troviamo le figure femminili dei quadri di Manet, di Renoir e di Gauguin: sarebbero esistiti anche senza lo sguardo di Nadar? Il dipinto di Victorine che posa nuda per Manet mostra una donna vera, lontana dalla perfezione divina della Venere di Botticelli: è un’opera contemporanea alla Comune di Parigi e frutto del nuovo modo di guardare. E Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo non è forse un omaggio a un’altra “settimana di sangue”, quella del 1898 a Milano? Le immagini parigine hanno aperto e anticipato il processo rivoluzionario che è stato seguito e chiuso con le parole, quelle di Arthur Rimbaud e di Victor Hugo, di Charles Baudelaire e di Louise Michel, di Paul Verlaine e di Emile Zola. Joseph Goebbels, ministro della cultura di Hitler, ordinò di rubare i quadri e bruciare le fotografie dei Paesi occupati dalla Germania: è lì, nelle immagini di un popolo, che si cela la sua anima. La traiettoria delle mani di un giocoliere è difficile da descrivere a parole, ma si può immaginare, rendere con un’immagine che va oltre, arriva dove le parole non la possono raggiungere: quante denunce rischierebbe chi dicesse con le parole ciò che Tano ha detto con le fotografie?

Ragazza di Lotta Continua, Roma 1977

Le donne, piene di una bellezza che è spesso rivoluzionaria, sono tra i soggetti preferiti di Tano: la bellezza delle loro istanze e delle loro lotte. Sono concetti non separabili tra di loro. Sono bellezze “impegnate”, non da calendario. 

A Genova nel 2001 Tano assiste a quella che Amnesty International definisce «la più grave violazione dei diritti democratici in uno Stato occidentale dopo la Seconda guerra mondiale». Fotoreporter assetati di sangue si aggirano come avvoltoi tra quella tragedia. Il cadavere di un ragazzo di 23 anni riceve forse più foto di quante lo stesso ragazzo non ne abbia ricette da vivo. Tano ne ritrae il volto mite circondato dalla prepotenza e dalla brutalità degli scudi e degli scarponi dei suoi assassini. L’indole pacifica di quel ragazzo, taciuta da giornali e televisione, è narrata da quell’immagine. In quelle giornate terribili, non ritrae la carne da macello ma la bellezza, l’affetto tra due ragazze nello stadio Carlini.

A sinistra: Ragazze nello stadio Carlini; a destra: Carlo, Genova 2001

È anche grazie a lui se del movimento di Genova ricordiamo le idee e non solo il sangue. Quanto al lavoro dei fotocronisti, Tano definisce il G8 del 2001 «un colossale, acritico, morboso safari fotografico. Un disumano, poliziesco safari fotografico. Anche il manifestante munito di macchina fotografica giocava al piccolo giudice, al piccolo poliziotto. E poi i video. La morte di Carlo in diretta. […] Dopo anni di frenetica diffusione di questi video, la magistratura ha trovato gli elementi e il coraggio per sentenziare che era stato fatto un uso corretto delle armi da fuoco.» Nella Bologna del 1977, mentre i giornalisti riprendono i blindati del ministro Cossiga e l’omicidio di Francesco Lorusso, Tano fotografa i sorrisi degli studenti, le ragazze e i ragazzi che si incontrano sotto i portici, che sembrano felici anche in fuga dai lacrimogeni.

A sinistra: Il cortile dell’università; a destra: Dopo la cacciata di Lama, Roma 1977

Con lo stesso criterio ha lavorato Tano a Roma il 17 febbraio del 1977, «quando Lama volle imporsi all’università»: le sue foto ritraggono la contestazione dei ragazzi e delle ragazze nel cortile della Sapienza e non l’arroganza del dirigente.

A sinistra: Dorothea Lange, Migrant Mother; a destra: Tano D’Amico: La madre dell’ucciso, Gerusalemme 1988
Ayat. Una bambina di nome Versetti, Gerusalemme 1988

Verso la fine degli anni Ottanta, Tano si reca in Palestina. Al suo ritorno, pubblica con il manifesto il libro fotografico intitolato Palestinesi. È il periodo della prima Intifada. Quello palestinese è un popolo depredato di tutto, abituato fin dalla nascita a giocare tra le macerie e a subire soprusi quotidiani. I volti coperti dei combattenti dell’Intifada si ergono nell’aria come i minareti delle moschee, armati solo di fionde contro i carri armati. La foto La madre dell’ucciso, scattata a Gerusalemme, è una versione palestinese della Migrant Mother di Dorothea Lange e l’immagine del primo bambino nato sotto il coprifuoco e cullato dalla giovane madre è a tutti gli effetti una icona classica. Del resto, è la stessa fotografa americana a ricordare le icone sacre con i ritratti dei poveri dopo la crisi del 1929. 

Nel 2000 Roma ospita il Giubileo. Nei mesi precedenti, per preparare la città alle orde di turisti che arriveranno, viene ripulito il centro e spostati i campi nomadi dai quartieri popolari alle estreme periferie. Durante lo sgombero di Tor Bella Monaca, muore una bambina rom neonata, calpestata dagli scarponi della polizia. Tano, criticando il concetto di “decoro” dell’amministrazione capitolina, realizza uno dei suoi lavori più belli, pubblicato nel libro Il giubileo nero degli zingari. Le sue foto nel campoRom ricordano quelle di Tina Modotti che negli anni Venti ritrae i bambini poveri di Città del Messico con forme drastiche e luci forti.

Tina Modotti, Bambini di Città del Messico, Città del Messico 1920-1929
Tano D’Amico, Bambine rom, Roma, 1999-2000

Le bambine rom ritratte da Tano sembrano delle principesse e non le “zingarelle” tanto disprezzate dai ricchi d’Occidente; i bambini in braccio alle madri, tanto quelle rom quanto quelle palestinesi, sono delle nuove Pietà, la madre che urla con la bambina in braccio durante lo sgombero del campo ha una potenza paragonabile a quella di Anna Magnani nel film Roma città aperta, immagine che Tano definisce «il più bel fotogramma della Seconda guerra mondiale». C’è una somiglianza tra le foto di Tano delle bambine palestinesi e quelle delle rom, due popoli accomunati dalla miseria e dalla discriminazione, ritratti però con grazia ed eleganza.

Il popolo rom, da sempre perseguitato, eppure l’unico che non ha mai fatto una guerra, è uno dei soggetti preferiti di Tano proprio per la libertà che incarna; la letteratura e l’arte hanno sempre celebrato questo popolo: pensiamo ad esempio alla meravigliosa figura di Esmeralda che illumina le notti parigine del XV secolo nel romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo o al saggio alchimista Melquíades che compare nei primi capitoli di Cien años de soledad di Gabriel García Márquez, pensiamo ancora alla Carmen di Prospère Merimée o al Romancero Gitano di Federico García Lorca o ai Rom repubblicani citati da Ernest Hemingway nel romanzo For Whom the Bell Tolls, fino alla Khorakhanè cantata da Fabrizio De André. Nel reportage dal campo rom l’astrazione gioca ancora un ruolo chiave: le forme irregolari delle donne fotografate, corpi rannicchiati, gomiti spigolosi, braccia incrociate, si contrappone allo schieramento di poliziotti, tesi e irrigiditi come a disegnare delle sbarre sul fotogramma. Lo stesso si può vedere tra le occupanti delle case di San Basilio nel 1974.

Case occupate a San Basilio, Roma 1974
Coppia in viale Trastevere, Roma 1977

È ricorrente, nei suoi scatti, l’accostare la delicatezza di un atto d’amore come un bacio o un abbraccio alla prepotenza di dei blindati schierati a chiudere una strada: senza bisogno di fotografare la violenza, è sufficiente la contrapposizione tra dolcezza e brutalità a ribaltare i rapporti di forza. Dunque, afferma Tano, «non è mai esistita una bella immagine di destra».

Oggi Tano tiene, presso il Centro Sperimentale di Fotografia Adams di Roma un bellissimo corso, che ho avuto la fortuna di seguire e che consiglio caldamente, intitolato Storia sociale dell’immagine. È un percorso poliedrico che spazia attraverso secoli di pittura e fotografia: a partire dai particolari della Colonna Antonina, commissionata dall’Imperatore per celebrare le proprie conquiste ma realizzata dagli schiavi ritraendo le proprie famiglie vittime dell’imperialismo, e dal Trionfo della Morte, affresco anonimo del 1446 conservato a Palermo, passando per i poveri romani del Seicento, ladri, ubriaconi e puttane che Caravaggio trasforma in apostoli e madonne, per Dürer, che ritrae i contadini tedeschi che si ribellano nel XVI secolo, per i principali maestri della fotografia del Novecento (Tina Modotti, Robert Capa, Gerda Taro, Dorothea Lange, Eugene Smith, Uliano Lucas, Diane Arbus, Tazio Secchiaroli…) fino alle opere dell’autore stesso. Non sarebbe affatto fuori luogo considerare Caravaggio come il primo fotografo, sia per la maniera di servirsi della luce e di indirizzarla sui personaggi, sia per i contenuti sociali che quelle luci esprimono.

Gli scatti di Tano hanno delle caratteristiche ricorrenti, ma l’autore si rifiuta di parlare di tecnica. «Non cercare le regole, cerca la bellezza». Durante le lezioni non si parla di parlare di obiettivi o di diaframmi, preferisce che a fare l’immagine siano il contenuto dell’opera e la motivazione dell’autore. «Il vero maestro», dice ancora, «non è colui che insegna la tecnica ma colui che trasmette il coraggio». 

Comunione davanti ai cancelli di Mirafiori, Torino 1980

Tano invita a diffidare, senza voler fare nomi, dei virtuosismi formali, della perfezione delle linee dietro cui non vi è alcun contenuto. Tano, che non è un fotogiornalista ma un autore fotografico, pone una domanda: chi è il fotografo? È semplicemente colui che ha in mano una macchina fotografica e in casa una camera oscura? È chi preme il tasto photo del cellulare? È chi ha studiato le regole tecniche della fotografia? Si può considerare fotografo chi scatta perché non sa cos’altro fare del proprio pomeriggio e magari ha fortuna o chi produce immagini vuote, fatte per riempire un foglio ma che scompariranno presto dalla memoria? Se così fosse, oggi il mondo sarebbe invaso dai fotografi. Fotografo è chi la bellezza la cerca, non chi ci inciampa casualmente. E la ricerca della bellezza non è un mestiere: Tano non ha mai usato la fotografia per fare carriera, non si è mai messo in vendita, non ha mai prostituito il proprio lavoro sottomettendolo alle logiche del profitto e del mercato, non ha mai cercato pubblicità né trasformato la propria arte in una merce.  Il fotografo vero è chi ha qualcosa da dire.A proposito di chi invece si è messo in vendita per fare carriera, ha obbedito ai capi, ha accettato le gerarchie del mercato, egli ricorda il titolo (completo) di una delle opere più belle del sacerdote don Lorenzo Milani: L’obbedienza non è più una virtù ma la più subdola delle tentazioni.

Tano D’Amico a una manifestazione per il Kurdistan, Roma 2016, foto di Andrea Zennaro

Bibliografia

Tano D’Amico, Palestinesi, il manifesto, 1988

Tano D’Amico, Il giubileo nero degli zingari, Editori Riuniti, 2000

Tano D’Amico, Una storia di donne: il movimento al femminile dal ’70 agli anni no gobal, Intra Moenia, 2003

Tano D’Amico, La dolce ala del dissenso: figure e volti oltre il cliché della violenza, Intra Moenia, 2004

Tano D’Amico, Di cosa sono fatti i ricordi: tempo e luce di un fotografo di strada, Postcart, 2011

Tano D’Amico, Anima e memoria: il legame imprendibile tra storia e fotografia, Postcart, 2012

Gabriele Agostini (a cura di), Tano D’amico, Pablo Echaurren, Il piombo e le rose: utopia e creatività nel movimento del 1977, Postcart, 2017

Tano D’Amico, Fotografia e destino: appunti sull’immagine, Mimesis, 2020

Tano D’Amico, Misericordia e tradimento: fotografia, bellezza, verità, Mimesis, 2021

***

Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.

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