Bellezza e democrazia. Giuliana Longo, modista

«Non potete non soffermarvi da Giuliana Longo, non foss’altro che per vedere la sua vetrina, impossibile da evitare anche perché ubicata in una calle affollata, passaggio obbligato per arrivare a San Luca da Rialto. L’allegro disordine che regna all’interno vale veramente il viaggio, per l’arredo d’antan vincolato e per i vecchi armadi incassati che traboccano di meraviglie…». Così recita la Louis Vuitton City Guide.

Ma io, il negozio di Giuliana, lo conosco da sempre. Mi ci fermavo davanti, attratto dai colori e dalle forme, anche se per me, da bambino e adolescente, le vetrine più affascinanti erano altre, prima i giocattoli di Linetti, poi gli strumenti musicali e i dischi di Barera e Gasparini. Ma queste non ci sono più e, girando per Venezia, trovo solo quello che c’è ovunque e mi passa anche la voglia d’inveire contro la spazzatura commerciale globalizzata, tanto ci ho fatto il callo. Non è detto che qualche volta non possano tornare utili anche gl’infiniti chioschi di pattume che s’incontrano – ci si sbatte contro, in realtà – nel percorso dalla stazione di Santa Lucia a Rialto, se si muore di fame o di sete può andar bene anche un pezzo di pizza o una bibita, se il sole picchia ci si può accontentare di un berretto cinese in fibra sintetica o un finto panama cinese di carta, costano due soldi e si evita l’insolazione. Ma io l’acqua me la porto sempre appresso e il cappello pure, quindi quella roba non la vedo nemmeno più. Non sono nemico della globalizzazione a prescindere, e non lo sono nemmeno gli artigiani e le artigiane di qui: Venezia è ormai ridotta a meno di cinquantamila residenti – non intendo farla tanto lunga sulla politica dissennata che ha fatto di questa città un parco a tema – e tutto sommato è stata pioniera del commercio internazionale, del trovare cose che gli altri non trovavano, come faceva Marco Polo. Il problema è: cosa resta della bellezza?

La modisteria non ha insegna. «Sta qua dal 1901, un anno prima che il vecchio campanile di San Marco crollasse», dice Giuliana, intendendo: sarà ben conosciuta, no? «Qui dentro non è cambiato niente, e intendo proprio niente. Gli stessi mobili, gli stessi armadi. Ogni tanto li faccio restaurare, l’anno scorso è toccato alle dorature di questi cassetti, l’anno prossimo agli armadi». Il negozio è piccolissimo, strapieno di cappelli, ogni tanto mi devo spostare per permettere a qualche cliente di osservare con agio la mercanzia, eppure non dà l’impressione di sovraffollamento e, pur nel viavai caotico di calle del Lovo, a due passi da Rialto e dalle Mercerie, è un luogo tranquillo e intimo. Giuliana Longo è una modista, ci tiene a dichiarare. Io di cappelli non so molto, sebbene ne faccia un uso costante, e le chiedo spiegazioni di tutto; Giuliana precisa didattica: la modista fa i cappelli da donna, il cappellaio quelli da uomo. Erano modiste anche la mamma, la nonna e la bisnonna, e Giuliana ha imparato qui, a bottega, la sua arte. È dunque rimasto tutto uguale?

«No, non era possibile. Io tratto anche cappelli da uomo, qui sopra c’è il mio sancta sanctorum, il laboratorio, che è anche più piccolo del negozio e dove non faccio salire nessuno, solo io e la mia assistente Valentina. Quando ho cominciato, la modisteria era ben avviata, poi sono seguiti anni difficili. Negli anni Sessanta e Settanta il cappello non lo voleva più nessuno. Era di moda andare a capo scoperto e ormai c’era il riscaldamento dappertutto, si andava in auto o in tram, non si sentiva il bisogno di coprirsi la testa. Il cappello era diventato roba da vecchi. Quindi ho diversificato l’offerta, vendevo anche abbigliamento, accessori, perfino abiti per guidare veicoli d’epoca. Poi ho scoperto il panama».

La vetrina e il negozio sono pieni di panama di mille fogge. Alcuni sono come quelli che ci s’immagina in testa a Hemingway, altri più grandi o più piccoli, bianchissimi o color paglia, con nastri neri, colorati, senza nastro.

Giuliana racconta: «Dei panama si sentiva parlare», ma sembravano un topos letterario e non si sapeva bene cosa fossero né dove procurarseli. «Intanto bisogna sapere che i panama non si fanno a Panama: si fanno in Ecuador». E allora perché si chiamano così? «Perché quando cominciarono a scavare il canale – e questa bottega esisteva già da sei anni! – si resero conto che dirigenti, ingegneri e maestranze dovevano lavorare duramente sotto un sole feroce, e servivano cappelli freschi e leggeri in quantità enorme. I cappelli si facevano a Jipijapa, in Ecuador, da ben prima di Colombo, e il canale di Panama diventò il principale cliente, al punto che cominciarono a chiamarli “panama” e non più “jipijapa”. I panama si fanno solo in Ecuador, come il brunello si fa solo a Montalcino. Gli altri sono “cappelli di paglia”: possono essere anche buoni, ma non hanno le caratteristiche organolettiche del panama. Io vado in Ecuador ogni anno, a Montecristi e a Cuenca, a cercare e comprare cappelli direttamente dalle artigiane che li fanno, ma inizialmente la ricerca fu difficilissima. Cominciai a pensarci negli anni Settanta, ma non trovai niente, solo un grossista fiorentino che li teneva in cassaforte e me ne riforniva a prezzi esorbitanti. A metà degli anni Novanta scovai un libro in francese che parlava dei panama in dettaglio, ma le indicazioni sui luoghi di produzione erano tutte fuorvianti». L’avranno fatto apposta? «Certo. Chi scrisse il libro vendeva cappelli e non voleva certo favorire la concorrenza. Ho dovuto fare l’esploratrice, a quasi tremila metri di altitudine! Fu proprio dura. Ma alla fine li ho trovati». Così ogni anno, il giorno dopo il mercoledì delle Ceneri, Giuliana chiude e se ne va un mese in Ecuador. «Ma vado ogni anno anche a Parigi, perché c’è poco da fare: Milano e New York, checché se ne dica, non contano niente. Per sentire dove va la moda c’è solo Parigi. E io sono e resto una modista». Giuliana è gentile, ma il suo orgoglio non si tocca.

La bottega

Molta gente si ferma a osservare la vetrina, indica i cappelli, mostra meraviglia, entra, chiede prezzi, esce. «La gente si scandalizza perché è abituata alle porcherie. Ma fare un panama è complicato. Bisogna raccogliere il cuore di una certa palma selvatica (bombanaxa, specifica, dai conquistadores chiamata Carlo Ludovica Palmata), ridurlo a fibre e intrecciarle e cucirle, sono così sottili che la trama nemmeno si vede. Sembra seta. E poi guarda questo», e mi mostra un cappello color panna con un nastro nero, lo torce, lo comprime, lo appallottola, poi lo lascia libero e quello, letteralmente, si riapre senza una piega. «Il panama te lo metti in tasca, lo tiri fuori e te lo ritrovi nuovo, senza una grinza: lo puoi fare con la roba cinese? Non tutti lo capiscono». Infatti diverse persone che si affacciano e chiedono prezzi non lo capiscono. «C’è gente che entra e tocca quello che gli pare. Io m’infurio. Per carità, non è roba proibita, se desiderano provare un cappello per me va bene, ma prima si chiede, che non tollero che si stropicci un cappello bianco come la neve, magari appena dopo mangiato un hamburger. Un panama richiede mesi di lavoro. Tanta gente entra in bottega come fosse un luogo ludico, vogliono fare fotografie. Qui le foto le fa solo chi mi sta simpatico, che le foto, comunque, le trovi in internet».

I prezzi non sono esattamente “bassi”, ma nemmeno spropositati, in particolare per alcuni modelli. «I costi di produzione e spedizione sono enormi, e il covid li ha moltiplicati. In Ecuador, che esportava cappelli per quindici milioni di dollari l’anno, il venticinque per cento delle imprese ha chiuso, e anche qua non è che ce la passiamo bene. E non parlo solo dei panama. Pensa che un cappello di feltro passa attraverso una cinquantina di lavorazioni diverse. È un lavoro difficile, un comparto povero. I feltrifici italiani ormai sono chiusi. Stiamo perdendo dei saperi che non recupereremo più. Si fa fatica perfino a trovare del filo di cotone decente, ben ritorto, con quello che c’è in giro non si riesce a cucire. Per fortuna ho ancora qualche fornitore come si deve».

Due francesi, forse fratelli, entrano e chiedono di provare un panama color corda, dalle ampie tese e senza nastro («alcuni fanno storie sui nastri, chiedono colori assurdi, così ho cominciato a proporre anche panama senza nastro, che sono belli e costano anche di meno»), Giuliana li assiste con gentilezza in un ottimo francese («l’inglese non lo so e non m’interessa impararlo, giusto i numeri, parlo veneziano, tanto ci si capisce lo stesso») e i fratelli, soddisfatti, alla fine escono con un cappello a testa. Ho sempre pensato che un cappello importante richiedesse un abito importante, invece i due, come quasi tutta la gente che passa per calle del Lovo in questi giorni torridi, sono vestiti in modo pratico, pantaloni con tasconi, sandali, zainetto, eppure i loro panama stanno splendidamente. «Non c’è più tutta questa necessità formale. Un cappello è un cappello. Se ti sta bene in testa, se ti piace, ti puoi vestire come ti pare».

Ma la clientela è solo “foresta”? «Per la maggior parte sì. A Venezia, cosa vuoi, ci sono rimasti quattro gatti. Ma anche loro hanno bisogno di cappelli». Infatti entra un ragazzo alto e abbronzato, e chiede in veneziano: «Vorrei un cappello da lavoro». Da lavoro? Anche lui sta scavando un istmo? Giuliana apre un’anta dell’armadio e mostra una quantità di cappelli da gondoliere con il lungo nastro colorato. «Che taglia? Che colore il nastro?». Il gondoliere sceglie un bel rosso bordeaux, lo prova, sorride, lo paga ed esce. «I cappelli da gondoliere una volta erano considerati robetta. Mia madre e mia nonna non ne avrebbero mai venduti. Io invece ho pensato che lavoro a Venezia, che il cappello, bene o male, i gondolieri se lo mettono tutti e perfino i turisti si comprano le magliette a righe e i cappelli di paglia col nastro. Perché fare la snob? Ma i miei sono speciali. Sono belli. Mi sono stufata dello stereotipo del nastro di nylon rosso o blu, quelli li lascio agli altri. I miei cappelli hanno nastri (svizzeri) di colori diversi, cuciti accuratamente e trattati a raso da tutt’e due i lati, così, quando sventolano in mezzo al Canal Grande, brillano sempre. E metto un bordo anche tutt’intorno alla tesa. E soprattutto i miei cappelli (no, non “pagliette”: a Venezia si chiamano “magiustrine”) galleggiano! Non è roba da poco, per chi vive in barca, no? E grazie a questi cappelli io, modista, ho aperto il negozio anche agli uomini». Anche i cappelli da gondoliere sono ecuadoriani? «No, sono marchigiani. Li fanno in tre comuni, Montappone, Massa Fermana e Monte Vidon Corrado, un triangolo interessante». Giuliana prende ago e filo, dà dei punti a un nastro. Poi mi guarda: «Sai che a Massa Fermana c’è stata la prima sindaca dell’Italia repubblicana? Ada Natali, comunista e partigiana. Le hanno dedicato perfino un francobollo», sorride.

Ripenso al giovane gondoliere. Quindi, oltre all’Ecuador, a Parigi e alle Marche, anche Venezia è ben presente. «Certo. Volevo che la mia produzione non fosse limitata solo all’alta moda, e ho avuto fortuna. Nel Duemila sono andata a Navalia, una mostra nautica all’Arsenale, più che altro per curiosità: pensa che esponevo costumi da pilota di idrovolante di cent’anni fa! Ho portato i miei cappelli da gondoliere e ho incontrato Saverio Pastor, che faceva remi e forcole per le imbarcazioni lagunari. Ci è venuto in mente di riunire tutti i mestieri della gondola, patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco, così è nata l’associazione El Felze, che raggruppa gli artigiani e le artigiane che fanno tutto, dalle barche alle scarpe, dai cappelli all’oro in foglie per le dorature».

Entra una donna, anche lei parla veneziano, è pronto il suo cappello? Giuliana s’infila dietro la tenda che cela la scala e torna con uno splendido panama giallo zafferano, un nastro multicolore perfettamente accordato. Mentre Giuliana e la donna parlano in veneziano mi guardo intorno, sbircio cappelli bellissimi da uomo e da donna, fogge classiche e audaci, accostamenti di colori armoniosi e imprevedibili. La signora esce dal negozio contentissima, il cappello è un regalo per suo marito, che ne sarà felice. Mi ha colpito l’allusione alla prima sindaca italiana, alla comunista partigiana. E il fatto che Giuliana, attentissima alla moda, viaggiatrice internazionale, mercatante e artigiana nel più puro stile veneziano, sia così attenta al rispetto della produzione corretta, alla necessità imprescindibile di pagare il giusto, di non sfruttare, di non cedere al miraggio del guadagno facile.

«Sarà perché abito a Marghera». Come? Non nel centro storico? «No. La vita mi ha portato in terraferma, ma ne sono contenta. Marghera è un posto molto interessante, ha una sua tradizione, una sua fisionomia. È un luogo popolare». «Un posto industriale, pieno di problemi». «Sì. E me ne sono occupata parecchio». In che senso? «Negli anni Settanta e Ottanta ho militato nel Partito comunista, ero una funzionaria, e mica per scherzo: ho fatto la scuola di formazione politica di Frattocchie. Tempi duri». Me l’immagino: le lotte contrattuali, l’inquinamento del petrolchimico, le patologie del lavoro, le rivendicazioni egualitarie che andavano contro la visione taylorista-fordista della divisione dei lavoratori e delle lavoratrici, l’autunno caldo, i problemi ambientali, la chiusura delle fabbriche, l’archeologia industriale. «Sono rimasta nel Partito fino alla fine. Quando ha smesso di essere comunista me ne sono tornata a bottega. Ma Marghera è stata una scuola di vita». «Sarà stato difficile fare la modista e la funzionaria di partito». «Molto. Ma mi andava bene così».

Mi vengono in mente mille domande, ma clienti e curiosi entrano in continuazione nel piccolissimo negozio, chiedono, guardano, Giuliana li scruta attenta, risponde, mostra, batte uno scontrino, infila un cappello in una delle sue belle borse rosse, contemporaneamente cuce un nastro.

Più tardi, parlando di questo incontro, un’amica ha osservato: ma come si può essere allo stesso tempo comunista e modista? A conciliare politica e frivolezze? A organizzare gli scioperi del petrolchimico e vendere ai ricchi? Possono essere obiezioni ragionevoli. Però, nella bottega di calle del Lovo, non ho sentito contraddizioni. Dietro al lavoro di Giuliana c’è quello di molte altre persone, c’è il sapere artigiano, c’è il senso della bellezza. Non voglio citare la citazione stracitata e ormai insopportabile che «la bellezza ci salverà». Il problema, come ha osservato qualcuno, è che prima dobbiamo salvare la bellezza. Come insegnano l’arte, l’artigianato, le lotte operaie, il femminismo, il solo pane non basta, ci vogliono anche le rose. Senza bellezza Venezia muore, e non solo lei. Non riesco a uscire dal negozio senza un cappello. Appena entrato con la mia coppola colorata, a Giuliana è bastata un’occhiata per stabilire: «Carina. Siciliana, eh?». Sono rimasto stupito e ho confermato: comprata a Palermo in un negozio pizzo-free, è così che abbiamo cominciato a parlare di cappelli e politica. Adocchio un bellissimo pork pie di feltro nero, la mia passione. «Anche la mia. Se vuoi ti faccio un buon prezzo, è fuori stagione e qui il pork pie non è molto apprezzato. Tanti me lo chiedono, ma appena se lo vedono in testa cambiano idea. Non so perché. È bellissimo. Provalo». Il feltro di pelo di coniglio è caldo e leggerissimo. Non vedo l’ora che torni l’inverno.

***

Articolo di Mauro Zennaro

Mauro Zennaro, grafico, è stato insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e altro in una blues band.

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