La ragazza di via Orazio: Marisa Musu 

Può una persona divenire “un classico”, in quell’elenco di sensi e significati che Calvino attribuisce alla letteratura?  
Può una donna, con la sua vita e soprattutto con la sua testimonianza, rappresentare qualcosa che deve essere conosciuto in maniera imprescindibile per poter tentare di dare valore anche a ciò che ci rappresenta oggi e che spesso, invece, vien fatto cadere nella retorica e, peggio, nell’inutilità? 
Può, assolutamente.  
La storia di Marisa Musu, la ragazza di via Orazio, la “comunista irrequieta”, così come lei stessa si definisce nella sua biografia, ha talmente tanta straordinarietà e talmente tanta normalità da riuscire a mettere a posto tutti i collegamenti saltati tra il passato, suo, e il presente, nostro; collegamenti che sono arrugginiti sotto la vigile costanza della nostra pigra e abulica indifferenza. 

Marisa Musu nasce nel 1925, a Roma, da due genitori di origini sarde ormai radicati sul “continente”. Nasce che il fascismo ha già preso il potere: un regime più propagandistico che violento, forse, più infido, che non ha ancora mostrato con assoluta evidenza la ferocia che gli ribolle dentro. Eppure, un regime già coercitivo e pervasivo, soprattutto nell’ambiente scolastico: «il più importante veicolo di penetrazione erano i libri di testo, tanto più subdoli in quanto scritti con indubbia abilità». Ed è lì, nella scuola, che Marisa Musu coltiva il suo forte sentimento antifascista. 
I genitori, Domenico Musu e Bastianina Martini, crescono la loro unica figlia con la convinzione che l’impegno, sia esso civile o politico, debba divenire un principio necessario. Il padre, che lavora nel campo delle assicurazioni, la porta ad assistere a tutti gli eventi che è permesso loro raggiungere, perché vuole che lei ricordi gli avvenimenti importanti per avervi presenziato: «Quando si vede con i propri occhi, si capisce meglio».

Racconta Marisa Musu: «Così, noi, non fascisti, andavamo alle adunate in Piazza Venezia, gli altri applaudivano, noi no. Non cattolici e non credenti, andavamo alla vestizione del Papa, gli altri si facevano il segno della croce, noi no. Non era un atteggiamento di irrisione — la nostra diversità non implicava mai disprezzo per gli altri — era un voler vedere “di che si tratta”».  
Di politica attiva, invece, si occupa la madre, Bastianina Martini, la prima e unica donna nominata dal Partito d’azione alla Consulta Nazionale del 1945: «giovanissima, era già nota nell’ambiente degli intellettuali repubblicani sassaresi, amica di Mario Berlinguer e legatissima a Mariuccia Loriga, futura moglie di Mario e madre di Enrico e Giovanni».  
In quest’ambiente, che mai le impone una linea di pensiero, «la linea che avevano adottato nelle questioni politiche, come in quelle religiose, era quella di non contrastare le infatuazioni, di aspettare saggiamente, che maturassi». Marisa Musu matura una propria coscienza: si rende conto di quale sia la situazione di un Paese sotto scacco di un regime assolutistico e, soprattutto, adolescente, capisce che la prima e vera libertà è la libertà dal bisogno. 
Così, nonostante non siano frequentazioni a lei familiari, all’età di diciassette decide di avvicinarsi all’ambiente comunista perché «là dove gli altri si limitavano a “parlare”, i comunisti erano quelli che “agivano”». 

Prima staffetta, dopo l’8 settembre entra a far parte dei Gap, i Gruppi di azione patriottica, nome di battaglia “Rosa”: «la scelta dei Gap come scelta di un compito rischioso ma giusto da assolvere. […] La convinzione che, per usare una frase di mio padre “ciò che è giusto fare va fatto”, a qualsiasi costo, affiancata però dall’idea che se c’è un compito difficile — materialmente o intellettualmente — da affrontare, tocca a me farmi avanti, perché sicuramente posso venirne a capo. Il “non sono capace”, il “non sono all’altezza”, il “mi fa paura”, il “non me la sento” non avevano avuto posto nella mia formazione. […] Davanti alla lotta armata, la mia reazione naturale è stata, se si vuole, primitiva, elementare, certo non metafisica, né filosofica. Condividevo totalmente l’indicazione dei nostri dirigenti: non dare tregua agli occupanti. Certamente, il modo più diretto ed efficace era il ricorso alle armi. Quindi, lì era il mio posto». 
Amendola, che rappresenta i comunisti nella Giunta militare centrale del CLN così commenta la sua richiesta di ingresso nei Gap: «Io non sono d’accordo. Secondo me il tuo ruolo dovrebbe essere quello di stare accanto a Valentino e di rammentargli i calzini, la sera». 
Valentino è Valentino Giarratana, uno dei primi contatti che Maria Musu ebbe con l’ambiente comunista, nonché, all’epoca, suo fidanzato. Nonostante l’idea di Amendola, la partigiana Rosa avrà un ruolo assolutamente determinante nel contesto della Resistenza romana.  
Il racconto che lei stessa fa di questo periodo è incredibile: la resistenza disperata di Roma a Porta San Paolo, il bombardamento di San Lorenzo, l’azione di via Rasella, la rappresaglia tedesca e la strage delle Fosse Ardeatine, la delazione di un compagno gappista, l’arresto e la fuga disperata. E, in mezzo a tutto questo, il ricordo costante per i compagni e le compagne che con lei hanno combattuto. Tutto, sempre, vissuto da protagonista e in prima linea: 
«Sono invece partecipe della reazione di tutti noi all’annuncio della rappresaglia nazista alle Fosse Ardeatine, che venne dato — non sarà mai ripetuto abbastanza — a strage avvenuta, sui quotidiani del 26 marzo e non fu preceduto da nessun invito a consegnarsi per evitarla. Le accuse rivolte ai patrioti a questo proposito si basano dunque su un falso storico. Ma deve essere anche ribadito che la Resistenza è una vera e propria guerra nella quale in ogni azione i partigiani rischiano di essere uccisi, catturati, torturati. Se gli autori di ogni azione si fossero consegnati al nemico cedendo al ricatto della rappresaglia, la Resistenza non sarebbe esistita, sarebbe stata stroncata al suo sorgere. Catturati e uccisi i partigiani, l’oppressione nazista non avrebbe più avuto freno; rastrellamenti, stragi, deportazioni si sarebbero moltiplicate. Né, d’altra parte, si è mai creduto alla presunta lealtà del nemico nazista verso gli impegni sottoscritti e le leggi di guerra. Niente di più infondato, anche solo riferendosi alla situazione romana: poche ore dopo che, il 10 settembre del ’43, il generale Siegfried Westphal aveva firmato con i responsabili militari italiani l’accordo secondo cui le truppe tedesche si sarebbero “mantenute ai margini” della città aperta, esse entravano in forze nella capitale e vi instauravano la “legge militare generica”. Chiunque tenti, si leggeva nei loro bandi”, di “disturbare la quiete e l’ordine” è destinato “a subire tutta la durezza delle leggi militari tedesche” e “non soltanto i malfattori ma anche le loro famiglie dovranno subire la stessa sorte”». 

Finita la guerra, Marisa Musu diventa un’attivista di primo piano all’interno del Partito Comunista, anche se, come racconta: «non fu facile smettere l’abito della combattente clandestina. Per molti mesi ancora continuai a tenere la rivoltella nella borsetta — senza non mi sentivo sicura — e fui attenta ai movimenti dei passanti alle mie spalle, timorosa di un possibile attacco». 
Il suo impegno principale riguarda la questione femminile: avvicinare le donne e parlare loro di politica, di diritti, di opportunità: «le ragazze avevano tutte una gran voglia di imparare qualcosa, di uscire di casa, di emanciparsi, anche se questo verbo era allora assolutamente sconosciuto». 
Questa stessa, incessante voglia la porta in giro per il mondo, prima come rappresentante del PCI, poi come giornalista: Cina, Russia, Cecoslovacchia. 
E ancora, Vietnam, Mozambico, Palestina, sempre dalla parte delle donne, sempre dalla parte dei bambini e delle bambine, sempre dalla parte di chi è oppresso, sempre dalla parte della rivoluzione. 
Le pagine che sono dedicate ai suoi viaggi di reportage nelle zone di guerra hanno il ritmo concitato e il respiro trattenuto. E hanno, soprattutto, il punto di vista di una donna dal pensiero amplio e dalla mente avanti: «Attraversiamo un villaggio nella foresta. Qui, i portoghesi non hanno mai messo piede, anche se esiste, per sentito dire, la paura delle squadre di incursori elitrasportate. Non si è mai visto, in realtà, un bianco. I primi siamo stati noi e la popolazione, che festeggia gli uomini di Frelimo, sa che siamo amici. Non lo sanno però i bambini più piccoli. Quando ho teso la mano per accarezzarne uno, il piccolo è scoppiato in pianto dirotto […]. La scena si è ripetuta. Mi è stato spiegato che le madri raccontano ai loro bambini delle storie deterrenti, nelle quali il personaggio cattivo, che da noi è “l’uomo nero”, è invece “l’uomo bianco”. Per la prima volta, mi sono imbattuta nell’uomo bianco visto dell’altra parte». 

I suoi racconti nulla hanno da invidiare a quelli di firme ben più famose, ma forse meno coerenti con gli ideali e i valori che inizialmente le caratterizzavano. Marisa Musu, invece, ha fatto della fedeltà ai propri principi una caratteristica per lei irrinunciabile: «Sul finire del ’70, lascio Paese Sera per l’Unità […]. Finito il praticantato, divenuta redattrice e poi caposervizio, lo stipendio che ricevo dal giornale è molto consistente e una serie di aggiunte (le festività, gli straordinari e via dicendo) lo rendono addirittura cospicuo.
Entrano troppi soldi in casa e mi accorgo che ciò comincia a influire negativamente anche sulla nostra vita familiare. Non solo per una certa, pur inconsapevole, spinta verso il consumismo, ma per qualcosa di meno definito, che però pesa su di me e sui miei rapporti con i figli. Per la prima volta nella mia vita non c’è coerenza fra le mie idee, i miei valori, da una parte, e la vita che faccio dall’altra. I ragazzi, sia seppur velatamente, con battute e allusioni, mi contestano e sento che li sto deludendo. L’Unità è al piano inferiore dello stesso edificio. Alcuni dei suoi da redattori avevano aspirato a salire quelle scale, io le discendo per porre il mio problema al nuovo direttore, Aldo Tortorella. È lieto di accogliermi, ma mi avverte che mi ritroverò con lo stipendio dimezzato. D’accordo, dico. La liquidazione di Paese Sera, la investo in parte in un viaggio in Bolivia, dove è in atto un movimento di guerriglia». 

Una donna, Marisa Musu, davanti alla quale ci si può solo togliere il cappello; una politica dalla schiena dritta; una giornalista e una professionista di un valore estremo. Ha sempre fatto quello che doveva esser fatto, senza scuse, capricci o tentennamenti. Semplicemente perché si è assunta la responsabilità di non stare con le mani in mano e combattere per tentare di costruire una prospettiva e una speranza migliori per un mondo che l’avrebbe vista solo di passaggio:  
«Io, invece, ho fatto sempre le piccole cose, che sono quelle più frequenti. Se le fai, puoi arrivare a settant’ anni ed essere soddisfatta di te. Se non le fai, non hai le tue forze. Anche se è vero che le cose grandi, in vista delle quali facevi le piccole, non sono realizzate, o, peggio, sono andate in pezzi. Ma voglio essere sincera fino in fondo. Se sono serena, non è solo perché ho fatto tante piccole cose e, nel farle, ho incontrato uomini e donne e con loro ho vissuto e lavorato per qualcosa che credevo giusta. Già questo sarebbe molto. Ma forse non abbastanza. Sono serena perché, incorreggibile ottimista — figlia, in questo, di mio padre — sono convinta che le grandi cose che hanno costituito il filo conduttore del mio impegno — la fine delle ingiustizie sociali, una reale uguaglianza tra i popoli, la libertà, la pace — e quelle che sono venute dopo — un mondo libero dall’inquinamento, rispettoso delle leggi della natura, multietnico — ci mettono, per realizzarsi, più tempo di una vita, della mia certamente, ma alla fine si compiono». 
Meravigliosa ragazza di via Orazio. Meravigliosa, Marisa Musu. 

La ragazza di via Orazio. Vita di una comunista irrequieta
Marisa Musu
Mursia, Milano, 1997
pp. 208

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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