In un momento cruciale della sua esistenza Luisa Santandrea decide di allontanarsi dall’Italia per riflettere sulla propria vita; affronta in solitudine un viaggio verso nord, in una Norvegia spesso percepita come estranea e selvaggia. In questo panorama, oltre agli incontri reali, appaiono quelli costruiti dalla sua immaginazione, mentre altri riemergono dalla memoria; tutti sviluppano problematiche complesse che lasciano filtrare, attraverso il lessico e la struttura, significati ben diversi da quelli dichiarati. Alcuni di questi incontri sono particolarmente significativi e permettono a chi legge di entrare in sintonia con chi scrive: una donna alla ricerca di sé stessa mentre esplora un territorio sconosciuto.
Il primo incontro ha per protagonista un estraneo, un anziano norvegese, che avvicina la viaggiatrice poco dopo il suo arrivo a Christiania, mentre è seduta sulla panchina di un parco e sta meditando sul significato del viaggio e sul ruolo di chi viaggia; l’uomo, nell’abbigliamento e nell’aspetto, incarna lo stereotipo dello Scandinavo e, riconoscendola straniera, la apostrofa in «un inglese abbastanza chiaro», chiedendole la provenienza; Santandrea si compiace della curiosità che suscita la sua risposta, notando «l’espressione tra stuzzicata e rispettosa» di lui. L’interlocutore siede «con discrezione […] in fondo alla panca» dando inizio così a una conversazione da cui traspare una corrispondenza ideale fra popolazione norvegese e italiana, «perché anche noi, qui, in politica quasi sempre il partito di sinistra, e per il resto grande entusiasmo, poesia a chi ne vuole e quattrini pochi». L’autrice preferisce tralasciare l’allusione politica e sottolinea invece le «strane analogie» emotive fra i due popoli; questa chiacchierata amichevole le permetterà di familiarizzare con la cultura locale, trascorrendo qualche giorno a casa dell’anziano signore, in un remoto villaggio del Telemark. In modo originale la viaggiatrice evita il confronto con la città e dirige l’itinerario direttamente verso montagne e gaard, fattorie isolate e autosufficienti dove la cultura tradizionale norvegese si mantiene intatta. Il suo percorso, come abbiamo visto nell’articolo precedente, è particolarmente travagliato e spesso tormentato da profonde riflessioni sul senso della vita, a metà strada fra il mistico itinerarium mentis ad Deum medievale e la moderna ricerca della propria identità. Le tappe di questa indagine sono caratterizzate dalla presenza di personaggi fittizi, strettamente intessuti con il resoconto e inseriti nell’atmosfera straniante del viaggio. Il primo di questi è il «paterno lettore», al quale si rivolge nel terzo capitolo: è presentato come un anziano signore, «sui sessant’anni, con i segni di passati dolori sul viso, tutto solo in una camera piena di libri […] e se solleva il capo per guardarmi, incontro nei suoi occhi quelli di un padre». Ecco il lettore ideale, al quale l’autrice rivolge la sua richiesta di sostegno e indulgenza per il suo stile atipico, perché lui solo può comprendere e apprezzare le necessarie divagazioni: «interrompere è respirare, è riprender forze, è vivere» e le interruzioni, afferma, stanno alla narrazione come le pause alla musica.

Così emerge dai ricordi Mimì Pinson, la protagonista di una poesia di Alfred de Musset, una tipica grisette, la francese di provincia che, a Parigi, abita in una misera mansarda. Mimì è la «compagna spirituale» che aveva accompagnato il primo soggiorno all’estero dell’autrice quando, curiosa del mondo, aveva occupato come una qualunque dattilografa un’angusta mansarda parigina.
Questa rievocazione lascia intuire a chi legge un periodo giovanile di cauta trasgressione: lontana da casa, indipendente, vicina alle lavoratrici che vivono nelle soffitte adiacenti alla sua, Santandrea si negava alle «famiglie di conoscenti che mi attendevano in quei giorni a Parigi, [e] non mi videro che più tardi comparire alla loro porta». Ecco che la sua unica, breve evasione di ragazza dal mondo borghese riemerge solo adesso, dopo tanti anni, mentre si trova lontanissima da casa per essere narrata all’immaginario «paterno lettore».
L’incontro reale più importante avviene a Bergen, dove la viaggiatrice conosce Benedicta Strand, una specie di alter-ego e un esempio di vita. Di età indefinita, ma piuttosto anziana, vive in solitudine e dignitosa povertà: «È una valorosa donna […] ha una passione per gli stranieri», veste come un uomo e porta «due grossi involti»; riemerge la giovane ribelle del soggiorno parigino, nuovamente libera da convenzioni e formalità in questo Paese lontano dal suo: «Poco dopo bussavo alla sua porta sulla strada. In Norvegia, le conoscenze si fanno anche così, e del resto si fanno sempre così, in quel bel paese che si chiama la nostra libertà!». L’incontro occasionale si trasforma subito in sintonia: «Benedicta m’aperse prontamente». L’abbigliamento e il viso deciso, dai tratti palesemente nordici, ripropongono lo stereotipo della corrispondenza fra aspetto fisico e carattere: «Portava un vestituccio nero, che faceva meglio spiccare il biondo argenteo dei suoi capelli e la chiarità degli occhi. Notai il suo mento forte, virile, quadrato, il naso fine, e molta distinzione nel tratto. Un perfetto tipo nordico». La casa è «modestissima» e l’ospite le parla con franchezza: «Voi avete la disgrazia d’essere giovane ancora […] e perciò non siete veramente libera ancora. Il motivo che v’ha spinta qui non è certo la probabilità di avere delle conoscenze comuni. Ditemi, vi prego, quest’altro motivo». Un’affermazione così diretta disorienta Luisa, che finisce per rivelare la sua irreprimibile curiosità per i «bizzarri involti» che la donna porta con sé e che si rivelano, nelle sue parole, una potente metafora dell’esistenza: «ogni contingenza della vita si traduce in pratica in un certo numero d’involti da portare». Improvvisa e inattesa la replica di Santandrea, che confessa di aver «sfidato l’opinione pubblica, e divorato la via con ogni sorta di ordigni di guerra: cucine a gas, quadri in cornice, annaffiatoi, la Somma teologica di san Tommaso, gabbie, acquari con tinche vive, lapidi mortuarie». Se a chi legge non rimane che accettare il mistero, l’ospite norvegese è conquistata da queste immagini eterogenee e misteriose, che alludono sia alla varietà delle esperienze femminili sia a qualche drammatica vicenda del passato; sorride e invita l’italiana a cena. La conversazione continua il giorno seguente, quando l’autrice offre in dono un ramoscello d’ulivo che ha portato dall’Italia, segno di pace e di equilibrio. Durante il nuovo incontro la norvegese le racconta la sua vita: un matrimonio con un russo violento e ubriacone, finito in divorzio; una madre, che ha rifiutato il suo reinserimento nella famiglia d’origine; la conseguente, inevitabile solitudine. Emerge in particolare il ruolo opprimente della madre, che «frugava» nei suoi cassetti come nella sua memoria: «quale legge, quale società si può invocare con una madre che non ci maltratta, ma ci opprime, ci rintuzza, ha per solo ideale di renderci simile a lei, tutto riassorbe in sé e accentra?». Oppressa e soffocata, deve perciò abbandonare la famiglia e affrontare una situazione di «miseria assoluta» cui riesce ad adattarsi solo grazie alla sua intraprendenza, aiutando i pescatori con un «lavoro da uomo», ricevendo come ricompensa gli «involti» di pesce che rivende ai ristoranti. Il monito di Benedicta è evidente: se da una parte è un esempio di emancipazione, dall’altra dimostra che una donna può ottenere la propria autonomia solo al durissimo prezzo della solitudine e dell’emarginazione.
Superati i momenti più difficili del suo viaggio spirituale, popolato da incubi notturni di naufragi e di defunti, Santandrea risolve i dubbi esistenziali e ritrova l’equilibrio: il suo rinnovato entusiasmo si rifletterà anche nei rapporti con gli altri e l’atmosfera degli incontri si farà rilassata. Nel Finnmark condividerà la quotidianità semplice dei pastori di renne, occupandosi delle mansioni casalinghe in un’atmosfera bucolica, dove pare essere l’unica figura femminile: «Preparavo il the in una pentola buona per le patate e i pastori venivano a prenderlo in ciotole di legno e cucchiaio, come fosse la zuppa; poi si rimaneva là tutti, per ore e ore, in un ozio apparente, ma in realtà lavorando di pensieri e di proponimenti come accade non di frequente nella vita». La compagnia di questi uomini semplici, dunque, consente di riflettere senza interferenze, mentre le renne suscitano un’esotica meraviglia: «Non mi saziavo di guardarle, come non ci si sazia di contemplare le carovane di cammelli per deserto quando si è in Africa». Finché un giorno, uscendo dalla sua abitazione, si ritrova all’improvviso circondata da un’immensa mandria che le impedisce il passaggio: «ero capitata in un gruppo di maschi di renne, vivacissimi e robusti […] mi si paravan davanti a capo basso, minacciando cornate […] Peraltro, se io restavo ferma, immobile, le renne maschi ritornavan tranquille; ma se appena avanzavo, eran nuovi tentativi di cornate». L’esito dell’avventura ha un risvolto quasi comico, che rivela la “debolezza” femminile dell’autrice e allude a una certa aggressività sessuale: mentre cerca di difendersi dall’attacco di un grosso maschio agitando il suo golf, questo si impiglia nelle corna dell’animale, impedendogli la vista e rendendolo ancora più furioso. Finalmente, al suo urlo disperato, un uomo accorre in suo soccorso e in un attimo si ritrova libera: Martino Ridder, «il più intelligente dei guardiani», la porta in salvo proprio a cavallo di una renna.
Un altro incontro inconsueto avviene a Narvik, dove giunge dopo un avventuroso viaggio in «carrozza, carretta, muli» durato diversi giorni. Santandrea prende alloggio nell’unico «piccolo, lindo albergo» dove suscita un’evidente curiosità fra i residenti, tutti uomini: «gli avventori mi guardavano con una intensa curiosità», perché nella Norvegia del nord si trovano solo inglesi o americani, «in numero limitato». La donna sola, dunque, suscita interesse: non è una spinster, una zitella inglese, tipo di turista abbastanza diffuso all’epoca; non un’americana, «perché non fa dello sport»; forse una russa? «Io lo capivo dal loro sguardo, che fissavan su di me fino a farmi durar fatica a non ridere ― si studiavano di scoprire di che paese fossi». Alle loro ipotesi l’italiana risponde dapprima solo con un silenzio compassato ma civettuolo, che dissimula il suo compiacimento. In seguito, tuttavia, l’arrivo di un misterioso americano ribalta i suoi rapporti con il gruppo maschile: se all’inizio era isolata in quanto donna, adesso non è più l’intrusa, ma viene ammessa a investigare sul nuovo venuto. La vicenda si trasforma in un’autentica indagine: seguendo gli indizi che l’americano inavvertitamente lascia intorno a sé e scoperta la sua destinazione (Kiruna, l’importante centro minerario svedese) appare evidente che si tratta di un pericoloso «viaggiatore in esplosivi», prontamente cacciato dal proprietario dell’albergo a causa del materiale che trasporta.

Il viaggio di Santandrea si conclude con un ultimo, tragico incontro: durante una visita a un campo Sami nel Finnmark conosce Habo, un bambino di circa quattro anni paralizzato dalla nascita, con il quale sviluppa subito un rapporto di attaccamento reciproco; deve però affrontare la gelosia della madre: «spiavo i momenti nei quali usciva a far legna; sicura di non esser veduta, entravo, mi prendevo in collo il bambino, e lo baciavo furiosamente fino a farlo ridere forte». La donna, quando si accorge delle sue intrusioni arbitrarie, le strappa il piccolo dalle braccia, cacciandola di casa e gettandola nella disperazione, finché il giorno prima della partenza è la madre stessa a bussare alla sua porta, «sola e misera come una cagna ferita». Il bambino è ormai morente e l’autrice condivide i suoi ultimi momenti: «― Habo, animuccia, amor mio, piccolo santo ― gli dissi. Non so più cosa gli dissi, la bocca sulla bocca, il cuore sul cuore […] mi parve che Habo rifiorisse un po’, con le cure, e più con le carezze». Purtroppo il piccolo muore di un attacco convulsivo, dibattendosi «a lungo, fra me e la madre». Il comportamento di Santandrea, che una lettura moderna condannerebbe come inappropriato, è invece comprensibile alla luce delle sue vicende biografiche, peraltro mai dichiarate nel testo: la perdita del proprio figlio alla nascita. Questo episodio di «imperfetto amore» conclude il resoconto e consente all’autrice di riprendere la sua vita con una nuova consapevolezza: «Con una morte e una sepoltura chiudevo questo periodo della mia vita errante. Avevo mutato tutto, tutto era mutato […] ma la vita degli uomini non era mutata […] ed io povero atomo sperduto in quell’immenso mondo, non avevo potuto far altro che amare imperfettamente, sebbene sinceramente, quanto m’era passato vicino».
In copertina: la contea norvegese del Telemark.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.