Per secoli donne e montagne sono state ritenute incompatibili. Si è sempre pensato che mai e poi mai le donne avrebbero potuto reggere alle alte quote. Nel Settecento alcuni medici, non si sa fino a che punto in buona fede o per misoginia, pensavano che, se una donna avesse voluto un giorno provare a scalare una montagna, lo sforzo l’avrebbe resa sterile a vita.
«Intorno alla metà dell’Ottocento, nell’epoca d’oro della conquista delle cime, anche le donne, in compagnia di padri, fratelli e mariti, iniziarono a frequentare le montagne». Così l’Enciclopedia Treccani racconta l’avvio della storia dell’alpinismo al femminile.
Le donne muovono i primi passi nel mondo alpinistico in tempi relativamente brevi, considerate le norme igieniche e la mentalità dell’epoca. Non conosciamo i loro nomi, non si devono sapere. Alcune salite realizzate dalle donne finiscono nel dimenticatoio. Le guide alpine accettano volentieri di accompagnarle, però vengono etichettate come “guide per le donne”.
Con il passare del tempo, le donne frequentano le vette e alcune ottengono importanti risultati, ma l’alpinismo sembra non togliersi di dosso l’etichetta di un’attività per uomini, non solo per un’ipotetica predisposizione fisica e mentale che vuole l’uomo più forte e resistente, ma anche per ragioni di ordine sociale, come la cura della famiglia. Per le donne è difficile conciliare gli impegni domestici con l’attività alpinistica, soprattutto per i rischi che comporta.
La prima a scalare la vetta del Monte Bianco è Marie Paradis, cameriera in una locanda a Chamonix, che senza nessuna esperienza alpinistica, a trent’anni, sale in cima al Monte Bianco il 14 luglio del 1808. Si unisce, unica donna, a un gruppo di alpinisti intenzionati a inerpicarsi sulla montagna. Marie spera con questa impresa di farsi un po’ di pubblicità e di avere qualche mancia dai suoi clienti alla trattoria. Non abituata alle alte quote, durante l’ultima parte della scalata, è stremata, stenta a respirare e a parlare, le si annebbia la vista: indizi di un imminente svenimento, tanto che, come confesserà più tardi, chiede di «essere sbattuta in un crepaccio». I compagni se la caricano sulle spalle e, grazie a loro, riesce a raggiungere la vetta e a ridiscendere a valle. In seguito, Marie riprende il suo lavoro di cameriera e non fa nessun’altra scalata, ma le resta l’appellativo di Marie du Mont Blanc. La sua impresa apre la strada dell’alpinismo al suo sesso.

Trent’anni dopo di lei, la contessina francese Henriette d’Angeville, che ha già 44 anni, ma un’adeguata preparazione alle spalle, si avventura sulle ripide pareti del Monte Bianco con le proprie forze il 3 settembre del 1838, portandosi addosso più di sette chili di roba: pantaloni pesanti in lana, un vestito in lana scozzese imbottito, un cappello foderato di pelliccia, una maschera in velluto per proteggere le guance e un boa pure di pelliccia, più un grande ventaglio che le guide avrebbero potuto usare per assisterla nel caso le fosse mancata l’aria, un ventaglio più piccolo, uno specchio, un cannocchiale, due fiaschetti di latte di mandorla e limonata, un corno per calzare le scarpe, un fornellino per preparare il tè e un set di penne per prendere appunti sul proprio taccuino. Henriette chiede spesso di fermarsi a riposare, tanto che una guida vorrebbe portarla a spalla per l’ultimo tratto. Ma lei ce la fa e, raccogliendo le residue energie, alle 13:25 del 3 settembre tocca la sommità e festeggia insieme ai compagni brindando con bicchieri di champagne. Una guida di Chamonix vedendola tornare le dice: «Avete avuto il grande merito di andare sul Monte Bianco, ma bisogna convenire che il Monte Bianco ne avrà molto meno ora che anche le signore possono scalarlo». L’avanzare degli anni non la ferma. In seguito, la “fidanzata del Monte Bianco”, come viene soprannominata, scala più di venti vette, l’ultima, l’Oldenhorn in Svizzera di circa 3000 metri, nel 1863, a 69 anni. Nel 1987 esce l’edizione italiana del suo libro La mia scalata al Monte Bianco.
Alessandra Boarelli sale la cresta del Monviso il 16 agosto del 1864 in compagnia della damigella quattordicenne Cecilia Fillia. Il periodico La sentinella delle Alpi del 25 agosto liquida l’ardua prova con queste scarne righe: «Ora che è provato che perfino le donne raggiunsero quella punta culminante, che fino all’anno scorso si credette inaccessibile, chi sarà quel turista che si perderà all’atto della prova?».
È difficile per le donne farsi strada in un mondo dominato dagli uomini, che le vuole solo mogli, figlie e madri degli alpinisti. Esse aspirano legittimamente a essere protagoniste, ma per riuscirci hanno da scalare la cima, ancora più impervia, di pregiudizi, scherni e presunta superiorità maschile. Le intrepide pioniere devono innanzitutto combattere con lo scetticismo generale e riescono nelle loro imprese, ché di imprese si tratta, solo grazie alla propria determinazione, con l’aiuto imprescindibile di qualcuno disposto ad accompagnarle nelle salite. Donne simili poco ci manca che vengano considerate delle mezze matte, poiché tutti credono che la donna per natura non abbia le caratteristiche fisiche né mentali per svolgere un’attività che richiede un tale dispendio di energie.
Che dire della regina Margherita di Savoia, che nel 1885 scala il Monte Rosa in slitta? La spedizione della sovrana è un volano per le donne dell’aristocrazia e delle classi più elevate. Per le signore dalle ampie gonne con volant che non si arrischiano a imitarla prende piede l’escursionismo: fa bene alla salute e non costringe a cambiare abbigliamento. Margherita dà il suo nome non solo alla pizza, è una sportiva nata: passeggia nei boschi, dorme nei rifugi alpini, indossa i costumi locali… Tra il 1899 e il 1904 fa costruire il Castello Savoia e vi passa ben trentasei estati nel fresco della Valle d’Aosta. Porta il suo nome la capanna Regina Margherita, un rifugio nel gruppo del Monte Rosa, a quota 4554 m, il ricovero alpino più alto d’Europa, inaugurato dalla sovrana il 18 agosto 1893.
L’alpinismo femminile è un mattone molto solido nella costruzione dell’emancipazione delle donne. Scalare significa “farcela” e oscurare la figura dell’uomo unico vero detentore della forza fisica e quindi il solo a poter affrontare le estreme difficoltà poste dalle alte vette.
La storia delle alpiniste si arricchisce nel tempo di figure illustri, autrici di imprese senza precedenti, che annullano qualsiasi differenza di genere. Nel lasso di tempo che separa Marie du Mont Blanc da Élisabeth Revol (famosa per le sue imprese himalayane a partire dalla metà degli anni 2010), innumerevoli sono le prove messe in campo da quello che superficialmente viene chiamato il gentil sesso.
Julia Archibald Holmes e il marito James si recano sulle Montagne Rocciose in Colorado nel 1858 con alcuni cercatori d’oro. Arrivati ai piedi del Pikes Peak, decidono di affrontare la montagna. Il 5 agosto 1858, toccando la vetta in calzoncini, Julia Holmes è la prima donna a conquistare il Pikes Peak. Dalla cima scrive una lettera alla madre: «Quasi tutti hanno cercato di dissuadermi dal tentare, ma io credevo di riuscirci, e ora eccomi, e non mi sono perso questo spettacolo glorioso per niente».
Nel 1867, Miss Fannie S. Case e Miss Mary Robinson raggiungono il cocuzzolo del monte Hood nell’Oregon (3429 m). Nel 1871 Addie Alexander scala i 4345 metri del Longs Peak nelle Montagne Rocciose (Colorado) e nel 1906 il Pinnacle Peak, situato nella catena himalayana, nel corso di una delle otto spedizioni cartografiche compiute tra il 1898 e il 1912.
La 36enne inglese Lucy Walker è la prima donna a raggiungere la vetta del Cervino lungo la cresta Hörnli il 22 agosto 1871. Ed è solo la più nota delle 98 arrampicate che compie nell’arco della sua vita.
Mentre le altre alpiniste dell’epoca indossano abiti pesanti e gonne lunghe fino ai piedi, un abbigliamento che rispetta la moda femminile del tempo e protegge dal freddo, ma scomodo e pericoloso, l’americana di New York Meta Brevoort è la prima ad arrampicarsi in abiti maschili con pantaloni di lana e un paio di ghette, ma non si fa mai fotografare in tenuta da alpinista. Il 5 settembre 1871, appena due settimane dopo Walker, è la prima a scalare il Cervino da Zermatt a Breuil-Cervinia, una salita riuscita solo quattro volte agli uomini. Nelle settimane successive, porta a termine la prima ascensione femminile del Weisshorn (4505 m) e della Dent Blanche (4357 m) in Svizzera.
Annie Smith Peck, ardente suffragetta e scrittrice, con la prima ascesa al Pico de Orizaba (5610 m), nel 1897, compie la più alta scalata mai fatta da una donna in America. Poi mette la propria firma sul Popocatépetl (5426 m), in Messico, e nel 1908 si cimenta sulle pareti del Huascarán (6768 m), in Perù. Nel 1895, Annie segue la scalata del Cervino di Lucy Walker, ma il suo equipaggiamento, una tunica lunga fino ai fianchi, alti scarponcini da arrampicata, un paio di pantaloni a zampa di elefante e un cappello di feltro fissato con un velo, accende un vespaio di discussioni sul New York Times. A più di cinquant’anni suonati, Annie cerca una montagna più alta dei 6960 metri dell’Aconcagua in Argentina. Tenta i 6368 metri dell’Illampu in Bolivia nel 1903 e di nuovo nel 1904. In compagnia di due guide alpine, nel 1908, la sua spedizione tocca la vetta nord del Huascarán. Un record di altitudine nel mondo occidentale. Nel 1911, all’età di 61 anni, Peck raggiunge uno dei sei picchi del Coropuna (6377 m), il più grande e alto vulcano del Perù. Arrivata alla cima, vi pianta uno striscione con la scritta «Voti per le donne».
Nel 1906, la statunitense Fanny Bullock Workman si spinge fino ai 6930 metri del Pinnacle Peak nell’Himalaya. È disposta a tutto Fay Fuller, prima donna, nel 1890, a tentare la vetta del Monte Rainier (4392 m), a 95 km da Seattle. Ci prova nel 1887, ma si ferma a circa 2.600 m, fissando l’obiettivo di «salire in vetta un giorno». Nel 1890, invitata dal provetto alpinista e scrittore PB Van Trump a partecipare a un’arrampicata per un secondo tentativo di “domare” la montagna, non dice certo di no. Nel pomeriggio del 10 agosto, lei e i suoi quattro compagni di squadra posano il piede sulla Columbia Crest, il pinnacolo del Rainier. Tempo dopo, un gruppo di scalatori trova sulla montagna le forcine che le trattenevano i capelli: la prova del nove che «una donna era davvero arrivata in vetta».

Ninì Pietrasanta è una sportiva, tra le più amate e iconiche dell’alpinismo italiano, dopo Mary Gennaro Varale, una delle prime donne a cimentarsi in una disciplina tradizionalmente praticata dagli uomini. Tra lei e le montagne è un amore a prima vista. Incoraggiata dal padre, affronta le prime ascese sul gruppo del Monte Rosa e dell’Ortles. Seguono salite che richiedono un crescente impegno fisico e mentale: la Punta Thurwieser (3641 m) tra la Lombardia e l’Alto Adige il 7 agosto 1929 attraverso la cresta sud; la cima nord del Lyskamm Orientale (4527 m), la vetta più alta del Lyskamm nel massiccio del Monte Rosa lungo la linea di confine tra l’Italia e la Svizzera il 26 agosto 1929, il versante nord del Corno Bianco (2316 m), una montagna delle Dolomiti di Fiemme. Sono le prime esperienze in quota che le danno notorietà nell’ambiente alpinistico italiano degli anni Trenta.
Così la descrive un editoriale di Lo Scarpone, organo di stampa ufficiale del Club Alpino Italiano: «Una gentile fanciulla che difende la propria passione nei confronti di un’opposta tendenza che vorrebbe vedere la donna vera solo sotto l’aspetto di un fiorellino ovattato, privo di energie e di colore, e senza un carattere e una propria personalità». Nel 1932 il conte Aldo Bonacossa, successivamente presidente del Club alpino accademico italiano dal 1933 al 1947, invita Pietrasanta in Abruzzo a scalare il Gran Sasso ed effettuare la prima salita con gli sci della vetta orientale del Corno Grande. Tra il 1932 e il 1936 lei e Gabriele Boccalatte firmano imprese memorabili. La più ostica è la conquista della parete ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey, una delle più belle e difficili del versante italiano del Monte Bianco. Quella del 28 agosto 1936 è l’ultima scalata importante che i due compiono insieme. Due mesi più tardi, il 28 ottobre, si sposano e l’anno dopo hanno il figlio Lorenzo. Il 24 agosto 1938 il marito tenta, insieme a Mario Piolti, una nuova via sull’inviolata parete sud dell’Aiguille de Triolet: i due alpinisti precipitano e perdono la vita. Ninì, che ad appena 27 anni si ritrova vedova e con un figlio neonato, abbandona l’alpinismo dopo soli pochi anni di impegno e numerosi successi. Nel 1998, due anni prima della morte avvenuta nel 2000 a 91 anni, è nominata socia ad honorem del Club alpino accademico italiano.
La polacca Wanda Rutkiewicz, classe 1943, all’età di 35 anni, il 16 ottobre 1978 è la terza donna al mondo (la prima europea) a scalare l’Everest. Nel 1986 sarà la prima in assoluto a toccare la cima del K2 e lo farà senza l’ausilio di bombole di ossigeno.

L’arrampicata non è uno sport esclusivo di uomini muscolosi e impavidi. Un’arrampicata sulla roccia o sul ghiaccio è tra gli sport estremi preferiti dal gentil sesso. Sono tante le ragazze che amano il brivido e sanno esprimere il meglio su ruvide, grezze e inospitali pareti rocciose. Alcune con la loro tecnica elegante e la loro determinazione scrivono la storia dell’arrampicata. Meglio per loro che stare davanti a uno specchio a impiastricciarsi il viso con cipria, fard e rossetto. Ci si può cimentare con un’attrezzatura adatta ma chi opta per il free climbing avanza sulla parete utilizzando solo mani e piedi e nient’altro. Lo sforzo c’è insieme alla massima concentrazione e alla padronanza assoluta del proprio corpo. Ma non manca la soddisfazione di sentire il cielo più vicino e poter osservare gli stambecchi o i nidi delle aquile.
Non è una gigantessa Lynn Hill, americana di Detroit, classe 1961, 157 cm e 56 kg di eleganza e forza, una vera leggenda dell’arrampicata, l’unica che nel 1993, a 32 anni, fa per prima quello che non è riuscito ancora a fare un uomo: la salita in libera della difficile parete rocciosa a picco di The Nose su El Capitain, un monolite granitico alto 2307 metri nella Yosemite Valley. La ripete l’anno dopo in meno di 24 ore. L’impresa, ritenuta impossibile, ne fa una delle migliori scalatrici di tutti i tempi. Scrivendo una grande pagina di storia sulle pareti granitiche di Yosemite, Lynn Hill può ben sbandierare ai quattro venti l’arrampicata su roccia come il vessillo della piena uguaglianza dei sessi. È grazie a lei che si abbatte qualsiasi differenza di genere in scalata.

Tra le migliori scalatrici di sempre, la francese Catherine Destivelle inizia le prime esperienze a dodici anni sui sassi d’arenaria di Fontainebleau. Non solo è un’arrampicatrice di un’eleganza unica ma anche un’alpinista di altissimo livello. Sale numerose vie in montagna in solitaria e scala la marcia solo quando è diventata madre. Luisa Iovane, una veneziana nata nel 1960, che pesa appena 48 chili, compagna di vita e di scalata di Heinz Mariacher, è un’arrampicatrice completa eccellendo sia nelle competizioni che su roccia. Tra le migliori atlete italiane nelle gare internazionali di difficoltà, a oggi l’unica ad avere vinto una prova di Coppa del Mondo, negli anni Ottanta, insieme al suo gruppo di amici, scrive la storia dell’alpinismo sulle Dolomiti aprendo numerose vie, come la famosa “Tempi Moderni” insieme ad Heinz sulla parete sud della Marmolada.

Avanguardia dell’arrampicata femminile, la fortissima climber basca Josune Bereziartu, del 1972, è la prima donna a timbrare alcuni tra i gradi più duri d’arrampicata sportiva, i gradi 8c, 8c+, 9a e 9a+, spostando sempre più avanti i limiti della scalata. Il suo segreto? Scalare con gli uomini e come gli uomini, per diventare forte oltre che tecnicamente irreprensibile. Come dice la scalatrice inglese Hazel Findlay: «Anche se una ragazza non può essere fisicamente più forte di un ragazzo, può essere più coraggiosa». Come un vero e proprio flashback, ricalca le orme della veterana Bereziartu un portento della più giovane generazione di scalatrici, la statunitense Ashima Shiraishi. Nata nel 2001 a New York da genitori giapponesi, impara il mestiere da piccolissima e brucia le tappe. A soli tredici anni si rivela la più giovane (senza differenza di genere) a salire una via di grado 9.
Nives Meroi, himalaysta nota per aver svettato su tutti e quattordici gli Ottomila del mondo, afferma: «L’Himalaya era il terreno dell’ultima epica maschile, abbiamo tolto loro anche quello». Nel 1975 Junko Tabei, a 36 anni, è la prima donna a posare il piede sull’Everest, tre anni prima della leggendaria salita di Messner e Habeler. È la prima donna ad arrampicarsi sul Manaslu, nel 1974, lo Shisha Pangma, nel 1981, il Cho Oyu, nel 1996, e la prima a raggiungere la cima delle montagne più alte di ciascuno dei sette continenti della Terra, secondo la versione anglosassone: Asia, Africa, Nordamerica, Sudamerica, Europa, Oceania e Antartide.

Dà la scalata al cielo la polacca Wanda Rutkiewicz, che il 16 ottobre 1978 è la terza donna a scalare il monte Everest (la prima europea), e la prima al mondo, nel 1986, a sostare sulla cima del K2 senza ossigeno supplementare. Il suo sogno nel cassetto: l’ascensione su tutti i 14 ottomila, le quattordici montagne della Terra che superano gli 8 chilometri d’altezza. Muore sul Kangchenjunga, che sarebbe stato il suo nono Ottomila. La britannica Alison Hargreaves è al sesto mese di gravidanza, incinta del suo primo figlio, che diventerà poi il famoso alpinista Tom Ballard, quando scala la parete nord dell’Eiger nel 1988. È la prova evidente che non ci sono barriere fisiologiche alla forza di volontà e si può fare tutto anche durante una gravidanza avanzata. Scala da sola nel 1995 l’Everest senza ossigeno supplementare, e prosegue il suo avventuroso show affrontando in solitaria tutte le classiche pareti nord delle Alpi in una sola stagione, un primato per qualsiasi alpinista. L’attende un triste destino. Muore ad appena 33 anni nel 1995 durante la discesa dalla vetta del K2, mentre imperversa una violenta tempesta.
La spagnola Edurne Pasaban, classe 1973, è la prima donna a scalare nel giro di nove anni tutti e 14 gli 8000 tra il 23 maggio 2001 (Everest) al 17 maggio 2010 (Shishma Pangma). L’austriaca Gerlinde Kaltenbrunner, che il 23 agosto 2011 a 41 anni tocca la vetta del K2 senza ossigeno, diviene la seconda donna al mondo a salire nel corso di tredici anni, dal 1998, su tutti e 14 gli Ottomila, ma la prima in assoluto a inerpicarsi su tutti gli Ottomila senza bisogno di ossigeno supplementare.
La svizzera Marianne Chapuisat nel 1993 passeggia per prima su un Ottomila in pieno inverno, il Cho Oyu, la sesta montagna più alta della Terra, sul confine tra Cina e Nepal, all’interno della catena himalayana. «È in montagna che provo emozioni così forti, perché solo lì sono in mezzo ai miei sogni, lì realizzo i sogni che avevo da bambina». Lo dice Élisabeth Revol, una signora di cinquanta chili, seconda donna a raggiungere nel gennaio del 2018, quando ha 39 anni, la vetta di un Ottomila, il Nanga Parbat, durante la stagione invernale: una spedizione tragica che costa la vita al suo compagno di cordata. Revol strappa il primato alla fortissima Tamara Lunger che si ferma a 100 metri dalla vetta del Nanga Parbat. La francese non è la prima donna a compiere un’invernale a un 8000 (l’ha preceduta Chapuisat), ma la prima ad aprire una nuova via in invernale su un Ottomila.
Eccezionale la resilienza di Silvia Vidal, alpinista e climber spagnola di 45 chili, capace di rimanere sulla parete ovest dell’Arrigetch Peaks, in Alaska, per diciassette giorni. Un’impresa che lascia il segno nella storia alpinistica compiuta in solitaria dopo essersi portata 150 chili di materiale fino alla base della montagna, attraversando luoghi pieni di orsi e senza un riparo. Nel luglio 2007, fa una spedizione in solitaria sul Karakorum, in Pakistan. Qui si costruisce un’enorme rotta di 900 piedi, Life is Lilac, sulla Shipton Spire (5852 m), una montagna simbolo, una guglia di granito con pareti verticali, e vi trascorre 21 giorni consecutivi da sola. A febbraio e marzo 2012, in un’altra spedizione in solitaria, Vidal consolida la sua fama di essere tra le più forti specialiste di alpinismo sulle big wall (grandi muraglie) con la sua prima salita, in solitaria, di Sincronia Magica (1180 m) sulla parete ovest del Cerro Chileno Grande, nella Patagonia cilena. Senza alcun mezzo di comunicazione, resta completamente isolata dal resto del mondo appesa al muro per un mese e mezzo sotto la pioggia e le intemperie mentre apre la prima via su questa parete.


Sono spedizioni epiche che mostrano come l’alpinismo sia divenuto negli anni una pratica, o meglio un’avventura, sempre più femminile: circa il 33 per cento degli iscritti/e al Cai (Club alpino italiano) sono donne, un esercito di centomila signore pronto a rompere schemi precostruiti e portare nuova linfa vitale a un mondo che per sua natura appartiene a tutti e tutte. E poi, come annotava giustamente Dino Buzzati, se si vuol chiamarlo sport, l’alpinismo è certo la disciplina più nobile di tutte: non ci sono premi né compensi in denaro; non c’è la folla che applaude; non c’è il giro con il mazzo di fiori dopo la vittoria. E per questo le donne che hanno nel cuore la passione per la montagna e le spericolate ascensioni sono doppiamente meritevoli di ogni stima e apprezzamento.
In copertina: arrampicata su via ferrata Piz Mitgel (3158 m), Canton Grigioni Svizzera.
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Articolo di Florindo Di Monaco

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.