La violenza sessuale nei conflitti bellici

«La guerra è profondamente reazionaria e regressiva: detesta le libertà e la rivendicazione dei diritti. Probabilmente è per questo che piace tanto ai tiranni. Chi ancora pensa e scrive che lo stupro è un atto che viene acceso da un impeto sessuale, anzi da un desiderio improvviso e focoso nei riguardi del corpo femminile, sbaglia di grosso. Lo stupro, soprattutto quello di gruppo, sconosciuto fra gli animali, è un’arma intimidatoria tutta umana, e ha un valore simbolico grave e devastante». È con questa citazione di Dacia Maraini che si apre la conferenza per la presentazione del report La violenza sessuale nei conflitti bellici, tenuta al Senato nella sala Caduti di Nassiriya il 19 luglio alla presenza della senatrice Valeria Fedeli e della viceministra agli Affari esteri Marina Sereni. Il report è stato redatto dall’associazione Stop Rape Italia con lo scopo di analizzare il fenomeno della violenza sessuale come strumento di guerra e genocidio, in occasione della VIII edizione della Giornata Internazionale contro l’eliminazione della violenza sessuale dai conflitti indetta dall’Onu nel 2015. Sono presenti anche Tibisay Ambrosini, coordinatrice di Stop Rape Italia e moderatrice dell’evento, l’ex senatrice Silvana Amati, che ha scritto l’introduzione al report, il professor Francesco Antonelli e la dottoressa Pina Sodano, che ne sono stati i curatori.

Da sinistra: la dottoressa Pina Sodano, il professore Francesco Antonelli, la senatrice Valeria Fedeli, la già senatrice Silvana Amatix e la dottoressa Tibisay Ambrosini

Ad accompagnare la presentazione c’è la mostra fotografica Portraits of Courage: Survivors at the Forefront of Peace and Change, promossa da Stop Rape Italia con la collaborazione della Dr. Denis Mukwege Foundation e della rete Sema (Global Network of Victims and Survivors to End Wartime Sexual Violence) e il supporto del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale. 

Tanti sono stati i temi toccati durante la conferenza: Fedeli ricorda che è passato quasi un mese da quando ha presentato la mozione n.489 per chiedere al governo italiano un maggiore coinvolgimento e supporto finanziario all’attività della Corte penale internazionale, con particolare riferimento ai casi di violenza di genere e sessuale durante le guerre, evidenziando l’importanza di portare a processo i carnefici e definendosi piacevolmente colpita dal vedere tutti i partiti uniti nel voto a favore della mozione. La ex-ministra ha inoltre parlato dell’importanza di aiutare le vittime tramite un concreto sostegno economico e di reinserimento nel tessuto sociale, dal quale sono spesso rigettate perché accusate di essere state cause del loro stesso male, una linea di pensiero arretrata che ancora fatica a morire.

Prende poi la parola Silvana Amati, che ricorda come lo stupro sulle donne abbia sempre accompagnato le guerre: già nell’Iliade e nell’Odissea sono narrati numerosi episodi di stupro, presentati come se fossero un fatto normale, scontato. La guerra, oltre ad essere una tragedia, è sempre stata soprattutto nemica delle donne: oltre al dolore della perdita dell’amato o dei figli chiamati al fronte, la loro stessa incolumità è a rischio perché potrebbero diventare bottino di guerra del nemico e finire sue schiave. Nonostante tutto ciò sia ben risaputo da millenni ci sono volute le guerre degli anni Novanta – su tutti, il conflitto in Jugoslavia e la guerra civile ruandese – e il terrificante livello di violenza sulle donne e su bambine e bambini lì raggiunto affinché lo stupro venisse considerato non più un mero effetto collaterale, lo sfogo di un gruppo di soldati sbandati e incattiviti dalle condizioni belliche, ma una vera e propria arma che aveva il fine di distruggere la società avversaria.

Nel suo intervento la viceministra Marina Sereni parla del report come di uno strumento necessario al fine di studiare e analizzare lo stupro non solo come fenomeno di guerra: la pandemia da Covid 19 ha moltiplicato i casi di violenza sessuale in tutti i contesti, aggravando situazioni già di per sé complicate e drammatiche. Il professor Antonelli e la dottoressa Sodano hanno parlato delle difficoltà incontrate durante la stesura del report e dei quesiti sorti a seguito della ricerca: chiedere di eliminare la violenza sessuale dai conflitti è un tentativo di “civilizzare” la guerra, un fenomeno di per sé antitetico alla civiltà; invece che cercare di nobilitare la guerra bisogna adoperarsi per fermarla, un obiettivo raggiungibile solo tramite una cultura della pace e della concordia come atto preventivo. Inoltre, sottolineano la necessità di aiutare le vittime della guerra compresi i bambini e le bambine nati dalle violenze – troppo spesso abbandonati a sé stessi. La gravidanza forzata è forse l’atto più traumatico dello stupro a fine bellico perché espande la tragedia a persone prive di colpa se non quella di nascere. Le organizzazioni sociali hanno avuto un ruolo fondamentale nell’aiuto a questi individui, spesso contando solo sul supporto del volontariato e di donazioni private, senza che lo Stato intervenisse in modo concreto. 

La moderatrice dell’evento, dottoressa Ambrosini, ha più volte espresso gratitudine a tutte le persone coinvolte nella realizzazione del report e ha invitato i/le presenti a guardare l’esposizione di supporto, Portraits of Courage, in cui sono fotografate donne rifugiate da vari conflitti in giro per il mondo e che hanno subito violenze di ogni tipo ma ora sono al sicuro, in grado di rinascere e andare avanti con la propria vita.

Il report

Con il termine ‘violenza sessuale connessa al conflitto’ adottato dal Consiglio di Sicurezza ci si riferisce a ‘stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, aborto forzato, sterilizzazione forzata, matrimonio forzato e qualsiasi altra forma di violenza sessuale di gravità comparabile perpetrata contro donne, uomini, ragazze, ragazzi direttamente o indirettamente collegata a un conflitto’. In questo caso, i profili di vittima e carnefice e il contesto in cui sono inseriti sono molto chiari: lo stupratore è affiliato ad un gruppo statale o parastatale e gode frequentemente di impunità a causa del collasso dello Stato; la vittima è spesso parte di una minoranza – etnica, politica, religiosa, sessuale o di genere – ed è per questo perseguitata; essa è costretta a muoversi e a trovare rifugio presso altre nazioni, col rischio di cadere nella tratta di esseri umani o di organi. Come già detto, nulla di nuovo in teoria: queste informazioni sono da lungo tempo conosciute ma un reale dibattitto è iniziato solo a seguito dei conflitti in Jugoslavia e in varie zone dell’Africa negli anni Novanta. 

L’attività delle organizzazioni internazionali ha dimostrato il ruolo fondamentale che ricopre la prevenzione nel contenimento del fenomeno: la violenza sessuale nei conflitti non è una tragedia inevitabile, ma bisogna essere attivi nella lotta alla tratta degli esseri umani, al terrorismo, alla guerra e in generale contro una cultura che giustifica la violenza se la vittima è un nemico e che vede nella donna dell’avversario non una persona ma un oggetto di sfogo sessuale che ha il doppio fine di controllare i soldati e attaccare il tessuto sociale del nemico, perché di solito le vittime vengono rigettate dalla società civile a causa dello stigma. La comunità internazionale, però, non si è mai impegnata davvero nel contrastare tutto questo: oltre a dichiarazioni e risoluzioni, da un punto di vista concreto sono mancati sia un sostegno economico sia un impegno nella caccia ai carnefici. I drammi in Bosnia e Ruanda e la successiva istituzione dei tribunali internazionali dedicati alla ricerca dei colpevoli e alla loro condanna sono stati sicuramente passi avanti importanti ma sul lungo periodo, alla luce dei più recenti conflitti in Medioriente, Congo e Ucraina, insufficienti. Le vittime – donne e uomini, giovani o adulti – sono state spesso abbandonate a loro stesse perché lo Stato ha tutto l’interesse a dimenticare il più in fretta possibile in vista della ricostruzione, e dal lato internazionale sono poche le voci che chiedono allo Stato azioni più concrete. In quest’ottica è sicuramente un buon auspicio il voto a favore della mozione n.489 promossa dalla senatrice Fedeli e da altre importanti figure istituzionali come Emma Bonino e Monica Cirinnà che invita l’Italia a dare un sostegno più concreto alle Corti Internazionali, sia finanziariamente che aiutando ad assicurare i criminali alla giustizia, e ad adeguare l’ordinamento alle norme della Corte penale internazionale.

Stop Rape Italia

Stop Rape Italia è in prima linea in questa lotta: nata nel 2014 con il supporto della Campagna italiana contro le mine, Sri si pone l’obiettivo di porre fine all’uso dello stupro come arma di guerra, tortura, intimidazione e repressione, di informare sul fenomeno l’opinione pubblica e le istituzioni, di promuovere la ricerca sul tema e di supportare sopravvissute e sopravvissuti sia nella ricerca della giustizia sia nel reinserimento all’interno della società. Gli sforzi e gli impegni di Sri nascono sulla scia del dibattito internazionale scaturito dalle drammatiche esperienze delle donne jugoslave e ruandesi durante i confitti e alle complicate vicende dei bambini e delle bambine nati da quelle violenze. Per la prima volta lo stupro viene riconosciuto non come mero effetto collaterale della guerra, dove le donne sono un semplice bottino dei vincitori durante le razzie, ma un vero e proprio strumento di pulizia etnica e genocidio. Nel periodo post-bellico queste donne e i loro piccoli e le loro piccole sono state oggetto di emarginazione sociale e di ulteriori violenze fisiche e psicologiche, portando spesso a drammatici risvolti come abbandoni, infanticidi, reclutamento in organizzazioni criminali o terroristiche. Lo stupro è anche lo strumento ideale per tenere sotto controllo le popolazioni sottomesse, estromettendone una buona fetta dalla vita sociale a causa dello stigma negativo e controllandole tramite minacce di reiterazione del reato. L’impegno dell’Onu per assistere le vittime, per quanto importante, si è rivelato insufficiente, soprattutto dopo questi anni di pandemia che hanno acuito problemi preesistenti nei casi di violenza domestica; per gli istituti giudiziari e sanitari, rallentati dal Covid 19 e dal suo impatto su ospedali e lockdown, è sempre più difficile intervenire in tempi brevi. Le buone intenzioni della risoluzione 2467 del 2019 delle Nazioni Unite, con cui si riconosce e condanna lo stupro come arma di guerra e con cui gli Stati firmatari si sono impegnati ad incentrare qualunque strategia di supporto attorno ai sopravvissuti e alle sopravvissute, impiegando risorse per disincentivare la violenza sessuale, si sono scontrare con la real politik e il disinteresse degli Stati – preoccupa soprattutto l’astensione di Russia e Cina e il cedimento verso le richieste degli Stati Uniti, che hanno raccomandato di non includere la tutela della salute riproduttiva delle vittime in ottica antiabortista. Il testo stesso della risoluzione risulta manchevole: la parola ‘salute’ compare una volta sola, decentrando i diritti sessuali e riproduttivi delle donne; il rispetto delle raccomandazioni non è vincolante; ogni Stato membro legifera per conto proprio e qualunque tentativo di creare un meccanismo di attuazione valido per tutti è stato rigettato. È importante notare che i Paesi che hanno votato la risoluzione sono anche quelli che più acquistano o producono armi, soprattutto quelli appartenenti al Consiglio di Sicurezza; i costi per sostenere la produzione delle armi sono arrivati a superare quelli della sanità, il settore che si occupa delle vittime. Un paradosso evidente ma che si fa fatica a voler riconoscere. Va infine sottolineato che i rapporti al Consiglio di Sicurezza si concentrano su poco meno di una ventina di Paesi, mentre al mondo si registrano più di 50 conflitti in corso. Il rischio è che i diritti umani come questi diventino mero strumento diplomatico tra grandi potenze ― come già stanno facendo Cina e Russia, Paesi detentori del diritto di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza. Un altro membro del Consiglio, gli Stati Uniti, non ha mai neanche ratificato la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, assieme all’Iran, la Somalia e il Sudan. 

Cosa è stato o non è stato fatto

Qualunque azione adottata dagli organismi internazionali ha quindi dovuto scontrarsi con questi ostacoli invalicabili. Nonostante ciò, sono stati fatti importanti passi avanti: è stato creato il mandato del Rappresentante Speciale del Segretario Generale per la violenza sessuale nei conflitti, con un proprio ufficio e gruppo di esperti che presiede il Consiglio di Sicurezza e rimarca presso di loro che lo stupro ormai è da considerare un atto di guerra e come tale deve essere punito. Si impegna inoltre a portare a processo i colpevoli dei crimini e a combattere la dilagante impunità di cui godono, a garantire alle vittime accesso a servizi sanitari ed economici adeguati e ad affrontare le cause profonde della violenza, capire da cosa essa scaturisca. L’Ufficio del Rappresentante Speciale opera tramite comunicati congiunti o quadri di cooperazione, accordi temporanei con i singoli Stati che stabiliscono un elenco di priorità di intervento. Tuttavia, anche in questo caso, si possono notare delle falle non da poco: gli accordi con il Sudan instaurati nel 2018, ad esempio, sono stati di brevissimo periodo, hanno risentito della caduta del dittatore Omar al-Bashir – criminale di guerra ricercato – e delle successive vicende politiche, hanno lodato interventi da parte dello Stato per contrastare le violenze mai avvenuti, hanno completamente ignorato le organizzazioni che sul territorio erano già attive in tal senso, e non si sono preoccupati di studiare il contesto storico e culturale in cui il conflitto è deflagrato. Queste gravi carenze operative sono dovute soprattutto alla mancanza di fondi: l’Ufficio non è finanziato dal Consiglio di Sicurezza ma da contributi volontari dei singoli Stati, gli stessi su cui poi l’Ufficio andrà ad indagare e che hanno tutto l’interesse a creare un clima di impunità; in tal senso sfruttano il cavillo legale che obbliga l’Ufficio a ottenere il consenso dei governi operanti – spesso fragili e corrotti, che mancano di una forte volontà politica necessaria per interventi risolutivi – prima di poter operare sul territorio per ostacolarlo ulteriormente. Una relazione delle attività dell’Ufficio fino al 31 gennaio 2022 evidenzia uno scenario preoccupante e desolante: pochissimi Stati si sono adeguati alla risoluzione 2467 e a quelle successive sullo stesso tema, e oltre il 70% dei soggetti monitorati ha reiterato il crimine per cui era indagato o portato a processo. 

Il perché della violenza

La violenza non accade in un vuoto e in uno scenario bellico va inquadrata nella volontà dei vari signori della guerra di annientare i propri avversari usando qualunque mezzo. È qui che emerge tutto il cinismo e la crudeltà degli ideatori di queste strategie di guerra, e la drammaticità e l’orrore vissuto dai sopravvissuti e dalle sopravvissute. Oltre alle lesioni fisiche e psicologiche e lo stigma sociale che lo stupro comporta, di frequente le vittime diventano sfollate: è impossibile tornare a casa, troppa l’instabilità politica e troppa è la vergogna – spesso è la loro stessa comunità a rigettarle. Il contesto della guerra rende difficile avere accesso a cure sanitarie: gli aborti sono compiuti clandestinamente e con metodi grossolani che mettono a rischio la vita della donna. La difficile situazione economica favorisce episodi di schiavitù e reclutamento forzato, e molte donne si sono ritrovate a dipendere dai propri carnefici per sopravvivere. Una menzione a parte va fatta per i bambini e le bambine nati dagli stupri: molti governi hanno rifiutato di dare loro la cittadinanza, rendendoli apolidi, impedendo qualunque inserimento nella comunità e complicando il rapporto con le istituzioni; marchiati come ‘figli del diavolo’, spesso abbandonati alla nascita ed esclusi da qualunque rete culturale o familiare essenziale, quando non finiscono schiavi o soldati di bande armate cadono nel tunnel delle sostanze alteranti e della violenza – se non muoiono prima a causa di malattie come l’Aids. Le azioni intraprese a favore di questi soggetti si sono rivelate nuovamente insufficienti: in particolare, il ritardo della giustizia nell’emettere sentenze a loro favore e contro i carnefici.

Le azioni da intraprendere

Il punto cruciale rimane l’impossibilità di superare, da parte delle Nazioni Unite, l’assenza di una volontà di governo. Emblematica è la storia di Nadia Murad, una giovane yazida rapida dai soldati dell’Isis nel 2014 e ridotta in schiavitù sessuale assieme a centinaia di ragazze; riuscì a scappare e a trovare rifugio in un campo profughi a Mosul, e da allora è impegnata per dare supporto alle donne yazide violentate, sforzi premiati nel 2018 con il Premio Nobel per la pace condiviso con il dottore congolese Denis Mukwege, creatore nel 2017 della fondazione che porta il suo nome, impegnata a supportare le vittime di violenza sessuale e promotrice dell’iniziativa Global network of Vicitims and Survivors to End Wartime Sexual Violenze, o Sema, che rappresenta le vittime in 20 Paesi dall’Africa alle Americhe, dall’Europa all’Asia. Il lavoro di Murad è stato prezioso ma complicato dal fatto di essere appartenente ad una minoranza etnica perseguitata, verso cui mancava la volontà di difesa – e quando molte persone sono scappate dalla guerra poco si è fatto per farle tornare. 

Il report si chiude identificando 3 punti chiave per affrontare il tema della violenza in guerra:

  1. attivazione di adeguati e coerenti finanziamenti alle organizzazioni chiave, specie quelle gestite da donne;
  2. un regolare e credibile monitoraggio delle comunità vulnerabili e delle situazioni a rischio;
  3. l’identificazione di minacce che rinforzano la violenza sia durante il conflitto che dopo. 

Si raccomanda inoltre che i singoli Paesi smettano di investire in sforzi diplomatici per negoziati e risoluzioni inadeguate e piegate ai giochi di potere del Consiglio di Sicurezza, ma che reindirizzino le loro energie direttamente agli uffici predisposti dalle Nazioni Unite e trattino direttamente tra di loro. Importantissima è dunque la prevenzione, combattendo la violenza domestica in tempi di pace e favorendo una cultura di eguaglianza tra uomini e donne. 

Nella relazione del Consiglio di Sicurezza del 19 marzo 2022 si rivela un generale peggioramento, causato principalmente dalla pandemia: sono ripresi i matrimoni precoci, è cresciuta la violenza domestica anche in tempi di guerra, molte donne si sono fatte carico sia del lavoro domestico che di mantenere la loro famiglia con attività pagate poco, in Paesi che non vedono di buon occhio le lavoratrici, e dove le donne sono escluse dai posti di potere; persistono, inoltre, leggi discriminatorie che minano la loro autonomia decisionale e l’accesso ai servizi sanitari nazionali. La preventiva protezione delle donne, meglio se organizzata dalle donne stesse, deve diventare scopo principale delle politiche contro la violenza sessuale in guerra, e non deve rimanere un obiettivo secondario agli equilibri internazionali. Sarebbe molto utile, in tal senso, che il Consiglio di Sicurezza facesse rientrare questo obiettivo all’interno delle proprie competenze come risorsa indispensabile al raggiungimento della pace. Al momento mera utopia.

Foto della mostra Portraits of Courage

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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