Fino a tempi non lontani la fotografia, come le altre arti, non è stata terreno facile per le donne, benché fossero presenti e attivissime. I loro scatti erano soprattutto rivolti al ritratto e – come scrivono Emanuela Sesti e Walter Guadagnini, che hanno curato la mostra Fotografe! Dagli archivi Alinari a oggi ospitata presso la Villa Bardini e il Forte del Belvedere, a Firenze, dal 18 giugno al 2 ottobre – la cosa «non è casuale, ma risponde al ruolo primario delle donne nel mondo della fotografia di questi decenni, racchiuso negli studi professionali, dai quali solo alcune riescono a emergere con un’identità definita e riconosciuta: il lavoro fotografico femminile è per lo più tecnico, e si svolge nell’officina degli studi di ritratto grandi e piccoli che si diffondono nel mondo a partire dalla metà del secolo».

Negli stabilimenti Alinari lavoravano molte donne, ma la loro opera era limitata all’amministrazione o, se più prettamente tecnica, al ritocco di negativi e stampe. E anche negli studi privati il loro occhio e la loro mano rimaneva anonima. Dall’anonimato «era sostanzialmente possibile emergere solo appoggiandosi a una figura maschile (viva o morta che fosse, verrebbe da dire, dati gli esempi), a una grandissima determinazione oppure grazie a una fortunata serie di circostanze biografiche». Solo nel Ventesimo secolo, soprattutto grazie al fotogiornalismo, le fotografe hanno cominciato ad emergere come autrici.




La mostra Fotografe! ripercorre questa storia e permette di vedere, per la prima volta insieme, le opere di artiste dell’Ottocento e di giovanissime, legate da un grande talento. Oltre a nomi noti al grande pubblico – Margaret Bourke-White, Diane Arbus, Dorothea Lange, per citarne solo alcuni – spiccano figure meno conosciute ma straordinarie. È il caso delle sorelle triestine Wanda e Marion Wulz, che hanno mosso i primi passi nello studio di famiglia fondato dal nonno, quindi gestito dal padre e, alla morte di lui, da loro stesse. La storia artistica di Wanda e Marion, che parte dal lavoro di modelle per i ritratti del padre, si dipana con l’apprendimento di una tecnica perfetta e attraversa il contesto culturale mitteleuropeo e futurista, fino a divenire protagoniste d’avanguardia. I loro soggetti prediletti sono proprio le donne, anzi «un nuovo modello di donna, determinata a portare avanti le proprie passioni e il proprio talento, esattamente come loro: la fotografia è il dispositivo per la creazione di un modello identitario di genere, una riscossa sociale, come un colpo di fioretto, un passo di danza, una torsione del busto, uno sguardo che comunica un chiaro messaggio». La scelta del mezzo fotografico è già di per sé ardita, ma le sorelle Wulz ne sottolineano l’audacia attraverso la sperimentazione in camera oscura: l’autoritratto di Wanda Io + gatto, ottenuto per sovraimpressione, è un capolavoro futurista di padronanza tecnica ed espressiva. Le sorelle sono molto attive nella fotografia di moda e nel ritratto, spesso di artiste, ma non trascurano di documentare il loro tempo, come testimoniano le immagini, assai più crude, della Seconda guerra mondiale nelle strade di Trieste.


Anche Edith Arnaldi – nata Editha Johanna Ida von Haynau e nota con lo pseudonimo di Rosa Rosà – è attiva nel movimento futurista, ma soprattutto come scrittrice e illustratrice. Fotografa autodidatta, è anche lei sperimentatrice accanita e documentatrice della realtà. La sua opera fotografica comincia negli anni Trenta e, oltre alla sperimentazione, si compone di reportages da tutta Europa. Come nell’attività letteraria, il suo obiettivo è rivolto prevalentemente al mondo femminile. Il Lazio è fra i luoghi più amati e studiati: le foto di donne di Anticoli Corrado, Piglio, Fiuggi, Scanno, Ceprano, fotografate nel lavoro e nella vita quotidiana, sono fra le sue immagini più intense. L’interesse per i paesi di montagna del Lazio coinvolge anche Hilde Lotz-Bauer (1907-1999) e Helga Fietz, accomunate a Edith dall’intento di andare oltre l’estetismo folklorico e di approfondire l’aspetto della critica sociale.

Nelle centinaia di immagini presentate nella mostra fiorentina, un posto particolare è occupato da quelle di Lisetta Carmi (scomparsa il 5 luglio scorso, a mostra avviata). La serie Travestiti, scattata fra il 1965 e il 1970, quando l’argomento era ancora scandaloso, è un esempio di fotografia sociale e insieme affettiva ed empatica. I soggetti sono colti nella vita intima, famigliare, in atteggiamenti spesso rilassati e divertenti, in opposizione alla morale del quarantennio democristiano che li rappresentava turpi e amorali.


Ma Fotografe! non ospita solo artiste del passato o affermate: una buona metà è dedicata a sguardi nuovi, ad artiste che continuano a vedere «nella macchina fotografica, nelle sue specificità linguistiche e nella sua storia, uno strumento attuale, in grado di raccontare se stessi e il mondo, e nella fotografia una lingua ancora viva anche se profondamente mutata dalle circostanze esteriori ed endogene».



Comune a molte di esse, ancora una volta, è l’interesse verso la figura femminile. Il soggetto fotografato, dunque, nonostante i profondi mutamenti estetici che le nuove tecnologie hanno apportato, è ancora coerente con il soggetto fotografante. La ricerca, in apparenza nuovissima, talvolta quasi stridente, si muove invece lungo la strada tracciata dalle pioniere. Il senso della mostra, che a un primo sguardo può apparire eterogenea, è appunto questo: le donne, dietro l’obiettivo, hanno compiuto significativi passi in avanti nella liberazione di quelle che stanno loro di fronte.
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Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.