«Nomina sunt consequentia rerum», ovvero «I nomi sono la conseguenza diretta delle cose»: così scrive Dante nella Vita Nova (XIII 4) tra il 1292 e il 1294.
Ma cosa possiamo intendere noi da questa affermazione scritta più di settecento anni fa? Semplicemente che non si può dare nomi a ciò che non esiste e tutto ciò che esiste dovrebbe avere un nome. Sembrerebbe una banalità ridondante, eppure abbiamo dovuto aspettare il 1987 con Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini per capire quanto in realtà l’affermazione dantesca sia completamente estranea alla nostra realtà linguistica quotidiana. Infatti noi donne “esistiamo” su questo pianeta e ci inseriamo tranquillamente tra le «rerum» del mondo (per continuare la metafora dantesca), eppure si fa ancora fatica a declinare al femminile alcune attività che svolgiamo regolarmente. E più un ruolo femminile è “di potere” o è stato storicamente sempre associato a un’attività maschile, più risulta difficile femminilizzarne e/o neutralizzarne (due termini cari alla linguistica di genere) il nome. Ed è per questo che ancora abbiamo difficoltà, nonostante i linguisti e le linguiste e la stessa Accademia della Crusca ne affermino la coerenza morfologica, a utilizzare parole come “ministra”, “ingegnera”, “avvocata”, “notaia”.
Sebbene molti e molte di noi rifiutino queste parole, nascondendosi dietro al velo del “suonano male”, è necessario sapere e soprattutto comprendere che in realtà quella che potrebbe sembrare una semplice scelta tra due parole (ad esempio “ingegnere” e “ingegnera”) in realtà è un qualcosa di molto più complesso. Numerosi sono gli studi sociolinguistici che si occupano infatti proprio di “discriminazione linguistica” e degli effetti sociali che la non femminilizzazione di alcune parole indicanti lavori femminili hanno sui lavori stessi e sull’ambiente che ci circonda. Perché la discriminazione sul piano della lingua potrebbe essere sì considerato un aspetto minore rispetto ad alcune tematiche fondamentali per chi cerca di colmare il gender gap, ma in realtà è un elemento centrale. E lo testimonia il fatto che più un ambiente è maschile e/o maschilista più si fa una grande fatica a dare il giusto nome alle figure professionali femminili.
Anche lo sport femminile purtroppo subisce alcune discriminazioni linguistiche. E la cosa interessante è che più uno sport è concettualmente uno sport maschile, virile, più si incontrano resistenze dal punto di vista della lingua. Mi spiego meglio: non abbiamo problemi a utilizzare “tuffatrice”, “nuotatrice”, “sciatrice”, e mettiamo sempre l’articolo femminile singolare prima di nomi in -a, considerabili “neutri”, come “la ginnasta”, “l’atleta”, “la pallavolista” (nomi che decliniamo facilmente al femminile anche al plurale). Queste attività ormai sono entrate nel nostro immaginario di sport femminili e per questo non poniamo resistenze nella lingua.

Cosa ne è invece del calcio femminile? Lo sport che nella concezione dominante è lo sport maschile per eccellenza? Ce lo racconta Rosa Argenziano nel suo saggio di estremo interesse Note sull’uso del genere nella lingua dello sport: il caso del calcio. Nell’articolo, infatti, l’autrice passa in rassegna numerose riviste sportive, analizzandone la lingua. I risultati? Nell’ambito del calcio femminile le difficoltà e discriminazioni linguistiche sono numerosissime, nonostante questa disciplina sia ormai ampiamente praticata da anni e professionalmente dalle donne. Dal contributo di Argenziano emerge una sostanziale confusione: i media non sanno se usare “arbitro”, “arbitro donna”, “donna arbitro” o, più raramente, sempre perché “suona male”, “arbitra”. Lo stesso vale per il caso di “portiera”, non utilizzato dalle riviste sportive per evitare, sostiene Argenziano, confusioni con la figura professionale addetta alla custodia degli edifici. Certamente la discriminazione linguistica operata dai media sportivi nel calcio femminile è qualcosa di assolutamente inconscio e inconsapevole, ma senza dubbio deve far riflettere su quante differenze ci siano ancora rispetto al calcio maschile. E non parlo solo di differenze linguistiche.

Ho trovato illuminante la presenza nel saggio di due estratti di notizie sportive in cui si parla di un’arbitra, Karolina Bojal. Riporto entrambi gli estratti (già citati da Argenziano): «Ha 20 anni ed è diventata famosa dopo che una sua foto sul campo da gioco è rimbalzata sui social. Che l’hanno già ribattezzata l’arbitro più bello del mondo. Karolina Bojar ha 20 anni, è polacca e studia legge a Cracovia, ma si diletta da qualche tempo anche nell’arbitrare le partite di calcio. E i giocatori apprezzano parecchio, a quanto pare. Le foto postate su Instagram fanno il pieno di “mi piace” e lei racconta che a trasmetterle la passione per il calcio è stato il nonno. “Il sesso in campo non dovrebbe giocare alcun ruolo” risponde a chi sottolinea come gli arbitri donne siano numericamente molto inferiori agli uomini. “I giocatori, vedendo una donna, potrebbero pensare sia meno severa dei miei colleghi uomini. Ma devono ricordarsi che la partita la sta guidando un arbitro, non una donna vestita da arbitro» («Corriere della Sera», 1 novembre 2017).
«Chi l’ha detto che il calcio è solo roba da uomini? In campo, infatti, possiamo trovare anche delle piacevoli sorprese, come Karolina Bojar. Vent’anni, polacca, con un viso da bambola e un fisico ben scolpito, è stata eletta arbitro più sexy del mondo dai suoi numerosi fan, che la seguono non solo nelle partite da lei arbitrate ma anche sui social. La ragazza, che tra le varie cose studia legge all’università e fa la modella, è molto attiva su Instagram (dove la si trova con un nickname che è tutto un programma, ovvero bojarmeow) e condivide momenti del suo quotidiano: dagli allenamenti alle sue apparizioni tv, dalle vacanze alle uscite romantiche con il suo fidanzato (molto invidiato)» («GQ Italia», 30 0ttobre 2017).
Ecco come la discriminazione linguistica può passare facilmente a discriminazione di genere: nel primo estratto si parla di Karolina come di «arbitro più bello del mondo»; eh già, non la più brava, la più competente, ma «il più bello». E da cosa deduciamo che è «l’arbitro più bello del mondo»? semplice: dalle foto e dai “mi piace” alle foto su Instagram, ma soprattutto dai «giocatori che apprezzano parecchio».
Nel secondo estratto Karolina viene presentata come una delle «piacevoli sorprese, […] con un viso da bambola, un fisico ben scolpito, […] eletta l’arbitro più sexy del mondo». Non bastando, si fa un riferimento al suo nickname Instagram e una battuta sul suo fidanzato.
Da questi due esempi non solo emerge, come sostenuto da Argenziano, una sostanziale confusione nell’utilizzo delle parole (“arbitro”, “donna arbitro” ecc.) ma ne viene fuori una triste realtà. Due quotidiani seri, che si occupano assiduamente di sport, nel presentare una figura sportiva femminile non menzionano assolutamente nulla della sua carriera, né della sua attività nel calcio femminile. Un’arbitra di tutto rispetto sminuita a una figura meramente estetica, fatta di fisico e foto su Instagram.
Questo esempio, sebbene eclatante, fa comprendere che là dove si è ancora restii/restie ad accettare parole al femminile nella lingua si nasconde ancora un tradizionalismo maschilista di fondo che non vede allo stesso modo uomini e donne. Non si sarebbe, infatti, mai scritto lo stesso di un arbitro, sicuramente.
Ed è per questo che è importante saper usare bene la lingua italiana sempre e saper declinare al femminile, proprio per rendere comuni e all’ordine del giorno figure che sembrano apparentemente essere a noi familiari, ma che forse inconsapevolmente ancora non accettiamo, specialmente se si tratta di ruoli spesso e/o storicamente associati agli uomini.
E piano piano anche i termini che ci sembrano più cacofonici e “assurdi” attraverso l’uso costante non ci stupiranno più.

***
Articolo di Marta Vischi

Laureata in Lettere e filologia italiana, super sportiva, amante degli animali e appassionata di arte rinascimentale. L’equitazione come stile di vita, amo passato, presente e futuro, e spesso mi trovo a spaziare tra un antico manoscritto, una novella di Boccaccio e una Instagram story!