La stele di Rosetta

Il 15 luglio dell’anno 1799 è un lunedì. Giornata di certo concitata: la battaglia è nell’aria e le truppe devono prepararsi ad affrontare ciò che sarebbe arrivato.
Il ventottenne capitano francese Pierre-François Bouchard, di stanza nella cittadina portuale di Rashid, latinizzata come Rosetta, nel delta del Nilo, ha l’ordine di ristrutturare il vecchio forte ottomano, costruito nel XV secolo dal sultano mammelucco Al-Ashraf Abu Al-Nasr Qaitbay, e ribattezzato Fort Julien, posto strategicamente tra il fiume e il vicino Mar Mediterraneo.
Bouchard è giunto in Egitto il 4 luglio del 1798 a bordo della nave Franklin, dopo essersi imbarcato a Tolone il 19 maggio dello stesso anno.

Quel giorno, quel lunedì 15 luglio 1799, la sua attenzione viene cattura da qualcosa. Mentre viene demolito un vecchio muro, un soldato trova una strana pietra, alta poco più di un metro e lunga quasi ottanta centimetri. È una lastra, dal peso di oltre settecento chili, che, una volta ripulita, manifesta già tutta la sua assoluta importanza: si tratta di un grosso frammento di un’antica stele egizia. Bouchard, che capisce immediatamente la grandezza di quella fortuita scoperta, mostra il reperto al suo superiore, il generale Jacques François Menou.

Quest’ultimo, anche lui sicuro di trovarsi di fronte a qualcosa di mai visto prima, decide di portarla ad Alessandria, dove sono di stanza gruppi di esperti, geometri, astronomi, chimici, poeti, artisti e orientalisti, che Napoleone Bonaparte ha voluto in Egitto per tentare di studiare la civiltà degli antichi faraoni. Un esercito di intellettuali, dunque, spedito nei teatri di guerra per tentare di cavar del buono da ciò che, per definizione, lascia dietro di sé solo buio, vuoto e distruzione. Un buono, però, sempre al servizio del potere.
La pietra, quindi, che nel frattempo è stata battezzata “Stele di Rosetta” in onore del luogo del ritrovamento, giunge nell’antica capitale nel mese di agosto. Lì, gli esperti cui viene affidata capiscono subito di trovarsi tra le mani un oggetto di eccezionale valore, tanto che, già il 15 settembre, il Courrier d’Egypt un giornale utilizzato a scopo propagandistico durante l’invasione napoleonica — scrive: «Questo reperto è di grande interesse per lo studio dei caratteri geroglifici, forse contiene anche la chiave per decifrarli».
Una scoperta, quindi, destinata a scuotere gli ambienti intellettuali di mezza Europa.

Stele di Rosetta


Questa, però, è un’Europa nel pieno del conflitto contro Napoleone, dove tutto è ancora da scrivere e disegnare: Stati, confini, potere. E così, quello che avrebbe dovuto essere un tesoro destinato a cantare la grandezza di Parigi, finisce per divenire bottino di guerra degli Inglesi. Certo, il generale Menou prova, dopo la resa francese del 1801, a occultare la lastra egizia tra i suoi effetti personali, ma il piano fallisce e la stele diviene il regalo che re Giorgio III fa ai suoi sudditi e alle sue suddite: casa sua è il British Museum, dove arriva nel 1802, a bordo della Egyptienne, scortata dal generale Tomkins Turner.

Ma cos’è, nel dettaglio, questa stele? E perché il mondo intellettuale la ritiene fin da subito di così grande importanza?

Si tratta di una lastra di granodiorite, dalle notevoli dimensioni, che riporta sulla propria superficie un’iscrizione divisa in tre registri, per tre differenti grafie: geroglifico, demotico e greco antico, le lingue, rispettivamente, degli dei — adottata per i monumenti e le occasioni solenni — del popolo — usata per i documenti ordinari — e la lingua ufficiale del regno tolemaico.
Dal testo ellenico, tradotto con ovvia facilità già nel 1802 da Hubert Pascal Ameilhon, storico e bibliotecario francese, si evince che si tratta di un decreto tolemaico emesso nel 196 a.C. in onore del faraone Tolomeo V Epifane Eucaristo, al tempo tredicenne, in occasione del primo anniversario della sua incoronazione. È uno scritto agiografico, in cui si fa il resoconto del primo anno di regno del faraone, nel quale, pare, egli abbia abrogato delle tasse, elargito cereali alle classi più povere della popolazione, concesso l’amnistia a diversi detenuti. In suo onore, per ringraziarlo di questi e altri benefici, viene eretta una statua in tutti i templi del regno.
Tradotto, dunque, il testo greco, inizia l’impresa titanica di venire a capo delle altre due scritture.
La decifrazione degli antichi geroglifici è a un soffio: questo si percepisce negli ambienti intellettuali e accademici. Ma un soffio pesante, impolverato da secoli di oblio, che stenta a decollare e che pare rimanere ancorato e immobile al passato e alla dimenticanza. Anche perché il testo della stele rappresenta solo un frammento, neanche troppo lungo, dell’intero editto. In particolare, del geroglifico rimangono solo quattordici righe, del demotico poche di più e del greco, sulla parte inferiore, cinquantaquattro righe, di cui solo le prime ventisette risultano intere.
Tanti sono comunque gli studiosi che tentano l’impresa.
Ci prova, ad esempio, Antoine-Isaac Silvestre, barone de Sacy, un orientalista, linguista e traduttore di grande valore, esperto conoscitore di lingue come l’arabo, il siriaco, l’aramaico e il caldeo, che però, in una lettera privata è costretto ad ammettere: «La speranza che avevo coltivato non già di decifrare l’intera stele di Rosetta ma di leggerne parole a sufficienza da capire in che lingua è scritta, non si è realizzata».
Ci prova un allievo di de Sacy, Johann David Åkerblad, diplomatico e orientalista svedese, che, pur riuscendo a identificare tutti i nomi propri nella parte del testo in demotico, nonché le parole “greco”, “tempio” ed “egizio”, ha la strada bloccata dalla convinzione che i simboli siano solo di natura fonetica.
Come ogni cammino che si rispetti, però, le impronte lasciate dai passi che ci hanno preceduto riescono, forse anche più dell’orizzonte, a tracciare la giusta direzione. E così, alle intuizioni di Åkerblad si lega il fisico e matematico inglese Thomas Jung che, tra i suoi svariati interessi e studi, si occupa anche di linguistica e di glottologia. Egli scopre nel testo geroglifico i caratteri fonetici p t o l m e s — nella translitterazione odierna “p t w l m y s” — che sono utilizzati per scrivere il nome greco Ptolemaios, e la direzione nella quale devono essere letti. Egli nota che questi caratteri somigliano a quelli equivalenti nel testo demotico, e continua, su quest’onda, a trovare ben ottanta similarità. È, questa, una scoperta importantissima, che lancia un’intuizione altrettanto fondamentale: i due scritti sono della stessa natura, l’uno la traduzione dell’altro.
A tale grande deduzione, ne segue un’altra, secondo la quale la scrittura demotica sia solo in parte fonetica e che faccia un uso, anche consistente, di caratteri ideografici imitanti i geroglifici. È un passo avanti enorme, una strada che prima non si era notata ma che risulterà essere quella che porterà al traguardo finale.

J.F. Champollion, lettera a M. Dacier relativa a l’alfabeto dei geroglifici fonetici, 1822

A questo punto, si affaccia sulla scena un nuovo protagonista. È un giovane studioso francese, conoscitore delle lingue orientali, dell’avestico, del sanscrito, del ge’ez, del persiano, del cinese, oltre a qualche dialetto antico: Jean-François Champollion.
Champollion, nel 1804, vede una riproduzione della stele di Rosetta a casa di un amico di suo fratello e, da quel momento, l’amore per quel prezioso reperto sarà il motore di tutta quanta la vita.
La sua è un’intelligenza prodigiosa, tanto che, a diciassette anni, sostiene davanti all’Accademia di Grenoble che il copto derivi dall’antica lingua egiziana, con il risultato di essere eletto all’unanimità membro dell’Accademia stessa. E il copto, Champollion, lo studia con assoluta determinazione tanto da arrivare a comporre testi in questa lingua. Scrive in una lettera al fratello:
«Mi dedico interamente al copto. Voglio conoscere il copto come il mio francese, poiché sono certo che su questa lingua sarà basato il mio grande lavoro sui papiri egiziani».
Avrà perfettamente ragione. Nel 1814, tra Young e Champollion inizia uno scambio di corrispondenza. Nel 1822, il francese vede le copie delle iscrizioni geroglifiche e greche dell’obelisco di File, in cui William John Bankes, esploratore e politico britannico, ha provvisoriamente notato i nomi Tolomeo e Kleopatra in entrambe le lingue. Partendo da qui, Champollion identifica la fonetica dei caratteri di K l e o p a t r a (nella traslitterazione odierna: “q l i҆ w p ꜣ d r ꜣ.t”).
Sulla base di questa e sui nomi stranieri riportati sulla stele di Rosetta, egli scopre che il demotico è organizzato in sillabe e che i geroglifici rappresentano suoni in copto. Non solo. Sulla base degli studi di Jung, anche Champollion arriva alla conclusione che la scrittura geroglifica non rappresenta esclusivamente oggetti o concetti, ma, in uno stesso testo, i singoli segni possono avere funzioni diverse, di singola lettera, oggetto o concetto.
Rapidamente costruisce un alfabeto di caratteri geroglifici fonetici,
che appare, scritto di proprio pugno, nella Lettre à M. Dacier, indirizzata, alla fine del 1822, a Bon-Joseph Dacier, segretario della Académie des inscriptions et belles-lettres di Parigie immediatamente pubblicata dalla Académie. È la svolta che il mondo accademico e archeologico aspetta da tempo.
Si racconta che Champollion irrompe nell’ufficio del fratello gridando «Je tiens mon affair!», «Ce l’ho fatta!», per poi svenire e riprendersi solo cinque giorni dopo.
Sul lavoro dello studioso francese, si basano egittologi successivi per la traduzione completa della stele. Un lavoro che viene poi convalidato dalla scoperta e conseguente traduzione del Decreto di Canopo, un’altra lastra scritta in geroglifici, scrittura demotica e greco antico.
Con la decifrazione della stele di Rosetta, dunque, la scienza dell’egittologia pone le sue basi e crea la sua spina dorsale.
Al di là della controversia sulla natura o meno del reperto come bottino di guerra — appartiene alla Francia, all’Inghilterra, all’Egitto? — la straordinarietà di questa scoperta e il lavoro a essa connessa hanno ancora dell’incredibile. Perché, come ha dichiarato l’egittologo John Ray nel 2007: «è davvero la chiave, non semplicemente dell’antico Egitto, ma della decifrazione stessa. Grandi civiltà, come quella egiziana, erano decadute nel silenzio. Con la decodifica della stele di Rosetta questa civiltà ha potuto far sentire la propria voce, rivelando intere aree della storia».
E, si sa, per esistere serve proprio questo: la possibilità di parlare, raccontare e, in fondo, farsi comprendere.

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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