Ci risiamo

Il termine “baby squillo” su Google: 332.000 risultati.
Ci risiamo: ogni volta che si scopre un giro di prostituzione minorile sui giornali scatta inesorabile l’antico copione, che non può più ormai essere assolto in nome della cultura in cui tutti e tutte siamo cresciuti.
Le giovani vittime di sfruttamento sessuale sono definite “baby squillo”, Lolite avide e senza valori animate dallo squallido desiderio di accessori di lusso: che vergogna. Coloro che ne abusano sono “clienti facoltosi”: professionisti e imprenditori tutti abbondantemente sopra i 40, tutti benestanti tanto da potersi permettere incontri a partire da 400 euro nei migliori alberghi della capitale. “Pago, quindi posso permettermi”: che invidia.
Eppure la Carta di Treviso, che tutela la minore età, risale al 1990. Eppure era stato approvato con un applauso e all’unanimità, il 19 maggio 2016, il documento presentato dal Gruppo di lavoro Pari opportunità del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti per la messa al bando della definizione: «Scambiare le vittime con i colpevoli dà luogo a una informazione falsa e fuorviante». Eppure l’Ordine invita – nei suoi corsi di formazione – a rivedere il linguaggio.
Quante volte abbiamo dimostrato che la prassi quotidiana si scosta troppo dalle declamazioni pubbliche? Quante volte abbiamo denunciato un’informazione tossica trasformata in fiera del voyeurismo?
Pensiamo alla vicenda emblematica delle ragazzine dei Parioli che nel 2013, per i connotati e l’ambientazione “borghese”, destò da subito una scomposta attenzione mediatica in una gara squallida che massacrò il diritto di tutela superando ogni limite e ispirò una superfetazione di storie volte a stimolare le curiosità più morbose.
Il sesso fa audience, in una società attraversata da spinte incrociate di sessuomania e sessuofobia.
La doppia morale è un automatismo, in una società patriarcale che è transitata nel liberismo invitando le ragazzine a un uso disinibito del proprio corpo e della seduzione per poi inchiodarle nello stigma quando non lo misurano.
La prostituzione si iscrive nel lungo solco di una storia che rende i corpi delle donne – volenti o nolenti – disponibili per l’uso degli uomini.
Questa è materia politica, non moralismo. Scrive Giorgia Serughetti in modo efficace:

«Gli immaginari e le pratiche della società dei consumi favoriscono la normalizzazione di questo commercio anche attraverso una cultura visuale, dove corpi femminili e merci s’inseriscono in un medesimo sistema di segni (Uomini che pagano le donne, Ediesse, Roma 2013).

Indignarsi è molto facile. Cambiare i modelli culturali è molto difficile. Sappiamo però che un passo determinante è quello che fa cambiare il linguaggio.

***

Articolo di Graziella Priulla

Già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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