Quello di Anna Maria Speckel è un percorso particolare che, a differenza degli itinerari di altre viaggiatrici italiane, inizia nell’estremo nord del continente europeo per approdare nella penisola scandinava solo in un secondo tempo. Nel suo discorso narrativo l’autrice sostiene alcuni diffusi stereotipi: innanzitutto, la superiorità del mondo mediterraneo rispetto a quello del nord Europa; in secondo luogo, l’esistenza di una “razza” superiore, quella ariana, di cui ricerca i “segni” nelle zone che attraversa; queste teorie influenzano anche la descrizione degli ambienti naturali.
Nella primavera 1934 Speckel raggiunge in treno la Lituania, in un periodo di estrema vulnerabilità per l’Europa centrale: per questo avverte il problema dei confini, che «strazia e tormenta questi paesi» contesi fra Polonia e Lituania stessa. La «capitale improvvisata», Kaunas, è costruita sui bordi di una collina dopo che per secoli la dominazione russa, per esercitare meglio il potere, aveva proibito ogni costruzione che non fosse in pianura.
Si concentra allora sulla natura del Niemen, «fiume regale» dal «carattere cosmico»: più che il confine, il fiume le sembra segnare un percorso «biblico di razze primigenie, migrazioni leggendarie, quando ancora non si nominavano le Patrie, né si definivano i popoli».
Il resoconto quindi si focalizza sul valore simbolico di questo ambiente naturale, dove «i primi ‘Ariani’ discesi dai solenni pianori dell’Asia scorrevano verso le terre boreali dell’Europa selvaggia e recavano il fuoco originario» per rivelare qui «il loro genio poetico, fissando quel tipo umano che ha creato la nobiltà della razza bianca». È evidente come Speckel eviti qualsiasi approccio razionale e preferisca abbandonarsi alle emozioni e alla passione di «vivere nella leggenda» del passato, dove «l’umile treno serpeggia come un rettile per dissimulare la sua presenza anacronistica nella millenaria immobilità di questo mondo». Nella zona che attraversa, continua, si sono scontrati «Slavi e Teutoni» ma, nonostante loro, qui è rimasta un’autentica «razza Ariana» che «ha custodito nella purezza della sua lingua il segreto delle origini e la nobiltà d’animo»: si tratta della lingua lituana, sopravvissuta incontaminata a livello popolare.
Anche la navigazione sul Niemen è descritta in toni lirici: il fiume «viene dal Sud aromatico e multicolore» dell’ex impero russo, e cerca di «tener discosto il risorgente imperialismo germanico» in una sorta di precario equilibrio. Sbarca poi a Memel, o Klajpeda, «una città a doppio fondo» che risponde a due diversi nomi perché abitata da popolazione tedesca e lituana, in contrasto ma indivisibili «come ogni famiglia»; infine, visita la Kuriasu Kopos, il lungo litorale sabbioso ricco di ambra, «il più puro miracolo della natura […] un Lido di Venezia nell’ultimo Thule», il «paradiso dei solitari»; qui risiedono solo poeti tedeschi «in esilio» dalla folla, «i fedeli della religione nudista» e qualche alce.
Il viaggio prosegue in treno verso la nuova capitale della Lettonia, Riga: sotto la dominazione russa «da qui l’Asia si affacciava sui mari del Nord e si legava all’Inghilterra» e per questo Napoleone aveva definito la città «un quartiere di Londra». La sua «essenza» è testimoniata dal «Museo all’aperto», con le abitazioni tradizionali, e soprattutto il «bagno finnico», ovvero la sauna, che l’autrice descrive minuziosamente poiché, sostiene, gli aspetti della quotidianità sono i più utili a comprendere un popolo.
All’arrivo in Estonia visita per prima Tartu, «la vecchia e gloriosa città universitaria»; continua a colpirla «l’uniformità del paesaggio» che «si riflette nell’uniformità della popolazione», un elemento che ritornerà spesso nella descrizione del nord. Tallinn, la capitale, centro attivo nei secoli precedenti, teatro di scontri fra Tedeschi e Danesi e infine cantiere navale della marina russa, rimane adesso una città multiculturale, dove convivono i culti ortodosso, cattolico e protestante, animata da «fierezza e orgoglio sicuro della nazionalità»; se la città vecchia testimonia una lunga storia, la parte nuova è «lieta di bianchi quartieri moderni e operosa di ciminiere fumanti» da dove il popolo estone si muove «con fede sicura» verso il futuro della giovane nazione.

Da Tallinn, Speckel raggiunge Helsinki in idrovolante, un mezzo al tempo modernissimo; il tono è ancora lirico: «siamo sospesi su un mare di un verde annacquato, come un acquarello troppo diluito. Davanti a noi nulla, per ora. Ma so che là, in quel punto preciso, si stende la terra dei laghi, e li attendo […] Guardo sotto di me. Sull’acquarello sbiadito del mare sono fiorite all’improvviso le isole: tante; tutte piccole e irregolari, trapunte dai coni degli abeti, come cuscinetti di spilli […] formano uno strano baluardo alla città che viene ad incontrarci […] Si direbbe che la mano del Creatore, in un giorno di noia, si sia divertita a tagliuzzare con forbici mastodontiche, nella costa finlandese, tutti questi scampoli di isole». All’arrivo la sensazione è quella di chi «approdi per la prima volta in un continente sconosciuto». In una narrazione dinamica ai limiti dell’aggressivo, la città viene «conquistata […] posseduta», perché «avvicinare l’anima della città vuol dire possederla, penetrarla».
Nonostante la risolutezza di queste affermazioni, la visita si svolge in maniera casuale, perché «per ben conoscere Helsinki bisogna sbarazzarsi di ogni guida o Baedeker e andare alla ventura, di strada in strada […] Quasi non la visitassimo per la prima volta, ma vi tornassimo dopo una lunga assenza […] Questo rapido ambientarsi, questo spogliarsi di ogni fattore estetico e culturale, permette di penetrare d’istinto lo spirito di questa capitale e di conoscerne l’intima essenza: l’anima». Anima che, nella riflessione di Speckel, «non le viene dall’armonia delle sue proporzioni o dalle sue bellezze artistiche, ma da un quid inafferrabile e incontrollabile, che è del resto anch’esso armonia» creata dall’atmosfera, dall’architettura e da «quel respiro invisibile e possente di migliaia di uomini che in essa nascono, vivono e muoiono». Soltanto avvicinandola in tal modo si può dar conto «di quel poetico e un poco enigmatico aggettivo» che la definisce «città bianca del Nord»: il bianco, infatti, non si riferisce alla presunta freddezza della capitale, ma all’essenza profonda di Helsinki, alla sua «anima chiara, trasparente, non scevra di una fierezza quasi primitiva e di una serena e sana giovialità» da cui «si diffonde l’energia in tutto il Paese».
La visita procede attraverso i topoi caratteristici: il mercato del pesce e quello dei fiori, la piazza principale. Lo sguardo coglie qui gli stessi dettagli che erano stati già evidenziati da altre viaggiatrici e, a suo modo, anche Speckel intende affascinare chi legge: i due mercati sono «una tavolozza» dove «si fondono, con le scaglie argentee e con le carni rosate del salmone, tutte le sfumature degli erbaggi e dei legumi, a cui fan da contrasto le tinte violente del vicino mercato dei fiori». Sullo sfondo, il Palazzo Presidenziale, la Legazione svedese, l’Esplanadi con la statua di Havis Amanda, la ninfa simbolo della Finlandia stessa. Per contrasto, Helsinki «eccita – con l’imprevisto delle sue costruzioni lineari – le curiosità più futuriste. Sul limite estremo del continente questa metropoli sembra sorta per servire di passaggio naturale fra il passato e l’avvenire».
Poiché, oltre alla capitale, Speckel visita solo una zona meridionale del Paese, esprime il suo disappunto per l’assenza di laghi, quasi si aspettasse di fare «d’un colpo solo, conoscenza con tutti». Nella campagna, di una «serena imponenza» associata a una positiva lentezza, osserva i «tronchi giallastri riuniti tutti in una massa compatta e affidati alla corrente […] flotte senza una guida né un controllo, per notti e giorni», mentre gli abeti sulle rive stanno «dritti, solenni, senza debolezza, a sentinella dei campi a proteggerli dal vento […] su questa terra faticosamente lavorata» da contadini in costante lotta con «quella natura granitica e acquitrinosa».
La Finlandia, conclude, è terra di «contrasti geniali» che concilia «il nuovissimo e l’antichissimo, il patriarcale e l’ultra – moderno».
A Stoccolma, Speckel arriva «per via di mare, dal Baltico aperto; è come vivere in sogno una vicenda di fantasia»; il lento approdo propone «il capriccio della natura in gioco col tortuoso labirinto delle isole […] che proteggono la Regina dall’ira e dal corruccio del mare […] poetizzate dalla fantasia nordica col nome fiorito di giardino degli scogli, Skaargarden». Al tavolo della colazione, mentre la nave avanza lentamente, cerca un paragone con altre città: «Venezia normanna? Costantinopoli boreale? Rio, assiderata dietro le isole della baia? Sidney brumosa dentro il suo golfo? Oppure una città d’argento, negli estuari del Giappone? […] In realtà desidero che […] sia Lei, soltanto Lei; con le attrattive e i difetti della sua personalità».
Improvvisamente la realtà la strappa alle sue fantasie: Stoccolma le procura uno shock visivo; «le banchine con i docks colossali, le grandi fabbriche moderne dai cento occhi e, sul lato opposto, i giardini e le ville signorili». Dapprima non può nascondere «una fitta di delusione» di fronte alla monotonia di una città che si presenta «con le case simili a tutte le altre del Continente, con le strade senza carattere», ma presto si ricrede e la struttura urbana le sembra riunire due estremi: «il dolce e l’amaro […] il sogno e la realtà» ed è proprio «l’originale fisionomia della città» a fornire alcuni indizi per conoscere «l’intima particolarità di questa gente»; l’architettura della capitale è infatti «tutta a sovrapposizioni, difficilissima da penetrare. Ma pur sempre armoniosa e signorile». Speckel ripropone anche qui il fil rouge del contrasto fra mondi diversi: la città è «spezzata nelle isole e allacciata dai canali. Non fusa (come Venezia) ad unità spiritualizzata». Ripartirà di notte, fra «banchine fiammeggianti da mille finestre […], collane di lampade come monili splendenti; bagliori di reclames a girandole […] luci riflesse nell’acqua, luci che vanno e vengono all’infinito, sul fluttuar dell’onde…»: un’ultima immagine incerta e fantastica.
Al suo arrivo a Oslo la scrittrice è accolta da un’abbondante nevicata; durante un’escursione in auto a Holmenkollen, tradizionale punto panoramico, ammira «una visione tra cosmico e simbolica»: nel tramonto «l’incendio dilaga nel cielo e sul mare quasi il globo del sole si fosse in esso dissolto, incandescente materia. Le colline, la città, le lingue del fiordo all’orizzonte incupiscono […] materia senza spirito. È un contrasto continuo con quel fuoco! È la lotta perenne fra il Sud e il Nord. […] Il crepuscolo è lento; è un’agonia. [..] L’urlo della porpora si fa gemito nel viola […] sul mare d’ardesia che inghiottito dalla tenebra trapassa nel nulla. Intanto i primi lumi punteggiano di stelle la città».
La riflessione sulla natura nordica ostile continua durante il percorso in treno attraverso la Norvegia: «il paesaggio, abbandonata la sua incertezza, si atteggia decisamente ad alta montagna. L’atmosfera diventa cupa […] montagne pelate e rocciose, lungo il terreno arsiccio e brullo. L’aria è immobile in una sospensione di attesa: forse un prodigio; dal palpito della terra riscossa dal suo rifugio universale. Tutto intorno a noi, e in noi, tace». L’arrivo a Finse, «la più celebre stazione di sci d’Europa», assume un valore simbolico: è «lo spartiacque fra sensazioni […] quasi il tempo, fino ad ora anch’esso intorpidito nel suo cammino, ritrovasse qui la sua energia; tutto ora, tempo, natura, spirito e treno, procede a ritmo accelerato». Speckel rimane a Bergen solo un giorno e la definisce «’novecento’ razionalista (architettura Funkis, come si dice qui)». Descrive la città sinteticamente, senza entusiasmo, e conclude con un’efficace sinestesia: «Squilli di una sinfonia di verde e di grigio; il granito e l’abete». Il ritorno verso la capitale ― verso la civiltà ― ripropone il tema dell’opposizione fra i due estremi: «Oslo! Ma allora ritorniamo davvero verso il Sud? Verso il calore, verso la luce, verso la vita? […] Non è forse l’eterno prodigio delle migrazioni millenarie, dalle regioni del gelo verso la terra del sole? Sono qui, forse, alle soglie di una rivelazione cosmica?». Infatti, afferma, una «misteriosa liberazione dei sensi» accomuna tutti «i popoli e gli esseri del Nord» che, per raggiungere «il culmine della loro esistenza terrena muovono o sognano di muovere verso Sud». Già dalle coste meridionali della Norvegia si intuisce «lo splendore mitico del nostro Mediterraneo, con le sue rive feconde e assolate, con le campagne brulicanti di vita inesausta, con i giardini ebbri di profumo, e con le città tumultuose nel fremito lieto del nostro popolo geniale: passione ineffabile dell’animo nordico!».
Con questa affermazione il trionfo del sud sul nord è definitivamente riconosciuto.
***
Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.