La quarta lezione del corso di eco-teologia è tenuta dalla professoressa Caterina Frescura, socia aggregata del Cti e docente di Cultura etico-religiosa e materie di Area culturale, che ci parla della storia della torre di Babele, simboleggiante il passaggio dallo stato di natura al tempo della tecnica. Ma cos’è questa “tecnica” nello specifico, dentro il contesto dei racconti delle origini?
Prima ancora che teologico e spirituale, la Bibbia ha un forte elemento antropologico che racconta di come l’essere umano si sia rapportato a Dio nel corso del tempo, un aspetto che emerge studiando il testo da un punto di vista narrativo. Viene qui preso in esame Genesi 11, 1-9, che rievoca la costruzione della torre di Babele. Al di là della differenza fra il testo originale e quanto è noi familiare dalla sua elaborazione collettiva, la storia della nascita delle divisioni linguistiche a causa di un progetto edilizio che mirava a sfidare Dio è percepita come un passaggio fondamentale della storia del popolo ebreo sia da parte dell’esegesi tradizionale che di quella più recente.


Dalla traduzione italiana del testo biblico in francese di André Wénin: «E tutta la terra era una lingua unica e delle parole uniche. E accadde, mentre si spostavano verso oriente, che essi trovarono una pianura in terra di Sennaar e si stabilirono lì. E dissero ciascuno al suo compagno: “Andiamo, mattoniamo dei mattoni e cuociamo in cottura!”; il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. E dissero: “Andiamo, costruiamoci una città, e una torre – e la sua cima [là] nei cieli – in modo da farci un nome, per paura di essere dispersi sulla faccia di tutta la terra”. E Adonai discese per vedere la città e la torre che costruivano i figli dell’uomo. E Adonai disse: “Un popolo unico e una lingua unica (è) per tutti loro, e (se) è questo che cominciano a fare, [e] ora nulla sarà loro impossibile di tutto ciò che essi avranno intenzione di fare. Andiamo, scendiamo e confondiamo lì la loro lingua, che essi non comprendano più ciascuno il suo compagno!”. E Adonai li disperse da lì sulla faccia di tutta la terra, ed essi smisero di costruire la città. Ecco perché egli chiamò il suo nome “Confusione” [Babele], perché là Adonai confuse la lingua di tutta la terra, e di là Adonai li disperse sulla faccia di tutta la terra».
A differenza delle letture tradizionali, che interpretano “unica lingua” in senso letterale, si dovrebbe invece parlare di “linguaggio unico”, un linguaggio molto essenziale e povero di termini, fatto soprattutto di slogan e modi di dire, da usare per una comunicazione superficiale ed immediata e non per dialoghi complessi. Per questo: «E dissero ciascuno al suo compagno» non ha alcuna valenza sentimentale, è un dialogo solo funzionale fra persone che prendono ordini per l’esecuzione di un progetto edilizio. Il materiale da costruzione stesso è antropizzato, un agire in maniera diretta sulla natura: dalla pietra ricavano i mattoni e dalla malta il bitume come elemento aggregante. È curioso notare che il linguaggio qua usato ― «mattoniamo dei mattoni e cuociamo in cottura» ― sia molto simile ai neologismi odierni come “whatsappare”, tecnicismi cacofonici e con pochissime sfumature di significato ma certamente funzionali, come lo è il linguaggio usato dai costruttori della torre. Segue poi l’affermazione dell’intenzione: costruire una città e una torre per arrivare fino ai cieli e “farsi un nome”, dare avvio a una dinastia la cui discendenza possa trovare in questi edifici la propria origine e appartenenza, un simbolo del potere umano (e maschile).
Il Signore, Adonai, discende dai cieli per vedere i lavori, ed esprime un forte disappunto per quanto le sue creature stanno facendo, e decide che tutte le persone convolte nei lavori non dovranno più comprendersi fra di loro. Tradizionalmente questa parte è stata interpretata come una punizione verso umani che pretendevano di elevarsi allo stesso livello di Dio. Wénin, il traduttore del testo, ha rilevato ulteriori sfumature di significato: la torre di Babele rappresenterebbe un “tentativo di dare uniformità che abolisce le singolarità”, ossia fondare un popolo unico con un’unica lingua nell’ottica di abolizione di tutte le differenze, dove tutto ciò che ci rende individui unici è visto come ostacolo a quell’uniformità necessaria al potere per rendersi solido e dare avvio alla propria discendenza in senso patriarcale. Questa costruzione è chiaramente totalitaria: livellare tutte le differenze e rendere tutti uguali, un piano a cui Dio reagisce colpendone le fondamenta, ossia “confondendo” il linguaggio. Vediamo qua un nuovo gesto di creazione, dove le differenze sono ri-create e ri-affermate. Da quel momento la costruzione della città e della torre si interrompono, perché nessuno era più in grado di capire l’altro – “confusione” è la traduzione letterale di “Babele” – e Dio provvede poi a disperdere gli esseri umani sulla faccia di tutta la terra.

La storia di Babele parrebbe una critica alla tecnica, ossia alla tecnologia, e quindi esaltazione dello stato di natura, visto come il più vicino allo stato originale della Creazione. Una lettura certamente possibile ma non l’unica soprattutto se si tiene conto dell’episodio che precede gli eventi di Babele: è la tecnica che permette a Noè di creare l’arca e salvarsi assieme alla sua famiglia e gli animali dal Diluvio universale, ed è Dio stesso a dare le istruzioni della sua costruzione, un progetto che nasce non dall’autoreferenzialità ed autoesaltazione come in Babele ma dall’ascolto e dall’altruismo. Le contrapposizioni fra l’arca e la torre non finiscono qui: l’arca è fatta di legno, un materiale che richiede abilità di ingegno e manualità per essere maneggiato, ed è costruita da artigiani che lavorano come una squadra affiatata: la torre, invece, è fatta di mattoni che andranno impilati e saldati dal bitume con gesti continui e ripetitivi – che richiama il periodo della schiavitù in Egitto – e dove il lavoro di gruppo è ridotto a poche frasi che impartiscono ordini, senza che alcun input dal basso possa essere preso in considerazione. Un ulteriore contributo è stato dato dalla psicanalisi, che ha visto nella torre un rimando fallico, un modo molto maschile di cercare di ergersi verso il cielo in segno di sfida, mentre l’arca ha la forma e la funzione di un grembo, che custodisce, nutre e protegge dentro di sé la vita e le consente di rigenerarsi dopo la fine della minaccia. Dove il primo è un tentativo fallimentare di imporre un potere tirannico che finisce per disperdere l’umanità e creare barriere comunicative, la seconda è punto di riferimento per il creato nel momento del disastro.

La storia della torre di Babele, dunque, non è una condanna della tecnica in sé o esaltazione dello stato di natura, ma critica di una delle modalità con cui la tecnologia è usata dall’essere umano per rispondere alle circostanze in cui si trova – il passaggio dal nomadismo all’inurbamento simboleggiato da Babele, o un disastro climatico come il Diluvio. È la forma di come si sceglie di intervenire che conta: non a caso l’intervento di Dio pone fine alla costruzione della torre, un progetto marcio sul nascere a causa delle premesse con cui è stato pensato, ma non interviene per fermare la costruzione di Gerusalemme, la città simbolo dell’equilibrio fra l’umano e il divino e del loro riavvicinamento. Inoltre, la Sapienza è frequentemente raffigurata come un’architetta che affianca Dio nella Creazione, custode della capacità di intervenire nella realtà in forma liberatoria e che esalta le differenze. La tecnica, quindi, emerge dal racconto come dicotomica: riportare armonia, bellezza e cura in contesti disastrosi in risposta alla violenza, che trova nelle differenze la propria forza per aiutare il creato; sfida prometeica che cerca uniformità in senso totalitario per consolidare il proprio potere e che si mette al servizio solo di sé stessa.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.