Da docente di materie umanistiche, a scuola cerco di essere attenta nel dare una lettura di genere alle storie che la letteratura racconta. Lungi dallo svuotare di significato grandi capolavori immortali (seppur misogini e imbevuti di maschilismo), è opportuno dare, però, agli e alle studenti delle nuove generazioni elementi di decostruzione di stereotipi radicati nella nostra storia culturale occidentale e mostrare come la violenza di genere, la naturale e scontata sottomissione delle donne al potere maschile, la loro invisibilità pur essendo parimenti e più brave degli uomini nella storia, non siano tratti distintivi iscritti in modo naturale nel Dna umano, ma frutto di una declinazione patriarcale diffusa e tramandata, che oggi abbiamo possibilità di smontare, pur apprezzando le opere che il passato ci ha restituite dall’oblio del tempo.
È, questa, un’operazione che trovo valida non solo da un punto di vista scolastico, ma anche largamente culturale: molti libri la supportano e ci aiutano a entrare nel vivo di questo processo di decostruzione della narrazione patriarcale e misogina della storia dell’umanità, oltre che dare voce a chi voce non ha avuto o che si è vista soffocare il proprio grido di libertà. Sono libri che giudico preziosi, perché compiono la nobile impresa di liberare letteralmente dal carcere delle pagine letterarie personagge e protagoniste vittime di una visione unica e parziale della loro storia: la visione dei padri, dei figli, dei mariti, degli dèi.
Di recente mi sono imbattuta in uno di questi libri che, a mio avviso, risponde a queste caratteristiche: Il canto di Calliope, romanzo di Natalie Haynes, scrittrice e giornalista inglese, finalista al prestigioso Women’s Prize for Fiction 2020, segnalato tra i migliori libri del 2019 da The Times e The Guardian. Si tratta di una riscrittura dei fatti salienti della guerra di Troia dal punto di vista dalle donne, la cui voce non è mai prevalente nei poemi omerici o risulta compromessa in qualche modo dall’invadenza delle imprese maschili e della visione maschile/maschilista degli eventi. La scrittrice attinge a fonti antiche poco frequentate da tale prospettiva, di cui ci ragguaglia nella postfazione. Le donne, così, si susseguono in una narrazione lineare, appassionata, incentrata sulla visione femminile di eventi che ci hanno sempre insegnato essere emblema della forza, del coraggio, dell’intraprendenza, dell’astuzia maschile: basti pensare ad Achille, a Ettore, ad Agamennone, a Priamo, a Odisseo, a Telemaco.
Ogni capitolo ospita una donna, che narra i fatti che l’hanno coinvolta, in modo ribaltante e spesso disturbante rispetto a quanto siamo abituate a leggere. Vediamo sfilare Creusa, Pentesilea, Elena, Briseide, Criseide, Polissena, Ecuba, Cassandra, Andromaca, Clitemnestra, e tante altre, in un caleidoscopio di storie il cui filo conduttore è la forza di gridare a noi lettori e lettrici che sono esistite anche loro nella guerra di Troia, e Calliope, musa della poesia che nel libro parla in prima persona, dà loro visibilità non assecondando le solite richieste del poeta cantore delle vicende troiane.
Scopriamo che la visione femminile della vita è diversa da quella maschile: le donne soffrono più di tutte la violenza della guerra, la sopraffazione di un mondo che le considera alla stregua degli animali quando finiscono schiave, ma allo stesso tempo hanno onore, fiducia nelle loro capacità, forza interiore per non soccombere. La musa Calliope ricorda al poeta che le donne meritano uguale spazio nella narrazione epica: «Creusa non è una nota a piè pagina, è una persona. E lei e tutte le troiane dovrebbero essere commemorate come ogni altra persona. E anche le loro simili tra i greci. […] Questa però è anche la guerra delle donne, non solo la guerra degli uomini, e il poeta dovrà tenere conto del loro dolore – il dolore delle donne che sono sempre state relegate ai margini della storia, vittime degli uomini, scampate agli uomini, schiave degli uomini – e dovrà raccontarlo, oppure non racconterà un bel niente. Le donne hanno aspettato il loro turno anche troppo».
La stessa Penelope scrive a Odisseo con chiarezza e consapevolezza di avere pari dignità rispetto all’arguto consorte: «sedere nel nostro palazzo senza di te, a guardare Telemaco crescere e da neonato diventare un bambino, e ora un bel giovane, e chiedersi se rivedrà mai suo padre? Anche questo esige un’indole eroica. Aspettare è la cosa più crudele che io abbia mai sopportato. È come un lutto, ma senza alcuna certezza […] Tu mi hai umiliata, e sono fortemente tentata di restituirti il favore. Un giovane uomo sarebbe perfetto. E riconoscente. Ma oh, Odisseo, sono tutti così stupidi. Non riesco a tollerarlo». L’autodeterminazione di Penelope ricorda il romanzo Itaca per sempre di Luigi Malerba, pubblicato nel 1997, che ci restituisce il personaggio della moglie di Odisseo liberato dall’immagine fissa di donna castigata e resiliente che attende il ritorno del suo uomo, consapevole della sua intelligenza e astuzia al pari dell’eroe omerico.
Una rilettura, dunque, consigliatissima per chi voglia educarsi a un’interpretazione dei testi letterari davvero scevra da pregiudizi e condizionamenti patriarcali e maschilisti, affiancando (affinché l’una non escluda l’altra) alla storia degli uomini anche quella delle donne, silenziose protagoniste dell’umanità.

Natalie Haynes
Il canto di Calliope
Marsilio, Milano, 2021
pp. 312
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.
Questo apprezzatissimo lavoro andrebbe fatto su tutte le grandi opere. Aiuterebbe molto a cambiare le cose e ad alzare di livello il contenuto. Brava Valeria Pilone, insieme all’autrice del libro proposto. Grazie.
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