Non di rado, quando si parla di scuola, lo si fa sempre dal punto di vista degli/delle insegnanti, della Ministra/o di turno, di esperti ed esperte in didattica, dell’opinionista improvvisata/o e la lista potrebbe continuare. Facciamo un esempio: è come sedersi al ristorante, ordinare un piatto sfizioso per limitarsi a osservarlo o a descriverne gli ingredienti, dimenticando di gustarlo. Ecco! La stessa cosa accade per gli e le studenti, si parla di loro ma non con loro, si dà l’illusione di ascoltarle/i, ma poi si giudicano con spietatezza.
Diceva Fabrizio De Andrè, durante uno degli ultimi concerti: «Oggi noi ci lamentiamo e vedo che c’è in giro un grande tormento sulla perdita dei valori, bisogna aspettare di storicizzarli. Io penso che non è che i giovani non abbiano valori. Hanno valori che magari noi non siamo riusciti a capir bene perché siamo troppo affezionati ai nostri».
Dunque, a chi altri chiedere, se non alle mie e ai miei studenti, cosa pensano della scuola e del tempo in cui vivono?
Il resoconto è la narrazione fedele delle chiacchierate svolte in classe durante i primi giorni di scuola, momenti preziosi non soggetti a verifiche, a burocrazie, ad attese di alcun tipo, ma solo alla condivisione dell’unico desiderio che dovrebbe animare ogni pratica didattica: guardare, parlare e chiamare per nome gli alunni e le alunne.
Mi è sembrata la cosa più sensata da fare per scrivere del 17 Novembre, giorno dedicato al diritto allo studio e che ha, storicamente, le sue radici in un evento accaduto il 28 ottobre del 1939 in Cecoslovacchia. Praga è occupata dai tedeschi. Le autorità naziste sedano una manifestazione nella capitale organizzata da studenti della facoltà di medicina dell’Università Carolina per opporsi al regime totalitario di Adolf Hitler. Lo studente Jan Opletal, viene colpito da un’arma da fuoco per morire l’11 novembre. Qualche giorno dopo, il 15 novembre, un folto gruppo di compagni/e accompagnano il feretro del ragazzo verso la città natale in Moravia. Le forze armate ne arrestano 1200 per deportarli in un campo di concentramento. Chiudono anche tutti gli istituti di istruzione superiore. Il 17 novembre 1939, nove fra studenti e professori furono giustiziati senza processo: Josef Matoušek, Jaroslav Klíma, Jan Weinert, Josef Adamec, Jan Černý, Marek Frauwirt, Bedřich Koukala, Václav Šafránek e František Skorkovský.
«…Allora giovani… debbo scrivere un articolo che parla di voi, pertanto ho bisogno del vostro aiuto. Se non mi raccontate voi il vostro punto di vista è inutile parlare della giornata dello studente. Facciamo così. Il tema che vi propongo è il seguente: riflessioni sincere e senza filtri sul senso della scuola oggi. Voi parlate e io prendo appunti.»
«Possiamo dire tutto quello che pensiamo Prof?»
«Pensare è un verbo che mi piace tanto tanto… Certo che sì!»
«Prof… A scuola si va per imparare un lavoro, non per educarti. Prima la scuola era destinata solo alle persone ricche ed era finalizzata alla crescita interiore. La formazione era prevalentemente umana e ti formava alla vita. Quando la scuola diventa più democratica si trasforma nel famoso pezzo di carta che ti serve per trovare il lavoro e addio ai sentimenti e alla parte umanistica!»
«Prof, la scuola è un obbligo… Però l’obbligo non è spiegato… Cioè non ti fanno capire quanto importante sia l’istruzione.»
«Prof, una cosa che non mi piace è che nella vita come nella scuola molto spesso non possiamo seguire le nostre passioni. Se io volessi dedicarmi all’arte, non troverei nessun posto di lavoro… E poi ci sono troppi stereotipi. Ad esempio, se uno studente frequenta l’alberghiero ti etichettano come uno che non vuole studiare perché al professionale si dà per scontato che vanno solo i ragazzi più svogliati. La scuola ignora ciò per cui siamo nati! Io da grande vorrei fare il batterista. Mio padre mi guarda storto… Come dire… Mica puoi vivere suonando tamburi!»
«Prof, a volte gli insegnanti se ne fregano degli alunni. Io penso che un professore dovrebbe essere appassionato del suo lavoro e severo quando serve. La cosa più importante è il suo approccio con chi ha davanti. Ci vorrebbe un test per misurare la sua capacità empatica e di ascolto. Un clima disteso in classe aiuta tanto.»
«Prof, le classi sono orribili… Abbiamo ancora i banchi e le sedie di legno. Se io andassi in un luogo bello per studiare, un’aula colorata per esempio, mi verrebbe più voglia perché mi farebbe sentire allegro.»
«Prof, in certi periodi dell’anno siamo tartassate dalle verifiche perché voi avete bisogno del numero… del voto, sì! Pensate a quello e vi dimenticate del resto.»
Forse chi leggerà, specie i miei colleghi e colleghe, avrà qualcosa da ridire, però non mancano certo argomenti su cui concordare. Specie un punto. Se noi potessimo raccontare la versione della storia dal nostro punto di vista emergerebbero tante di quelle storture da richiedere un altro articolo. Tuttavia, una cosa è certa: da venti anni a questa parte la scuola è stata espropriata della sua vocazione, ossia formare esseri umani. Non solo, le parti più vive di questo processo, cioè studenti e insegnanti, non sono più considerati i protagonisti principali, ma subalterni e funzionali rispetto a progetti educativi (?) calati dall’alto.
Allora, ritorniamo al verbo Pensare.
La scuola pubblica va difesa e nessuno lo farà al nostro posto. Penso alle donne iraniane e alla loro rivoluzione che passa dalla libertà di poter legare i capelli a coda, alle bambine afgane che non possono più andare a scuola, alle periferie delle città italiane dove alligna la deprivazione culturale e il diritto allo studio risulta più che compromesso.
«Evitiamo che i giovani si sentano stranieri nella propria vita», è il titolo di una riflessione di Umberto Galimberti nel libro/raccolta La parola ai giovani, e mi sembra l’auspicio migliore per celebrare questa giornata.
«Se la scuola deve rispondere non solo in termini di istruzione, ma anche in termini di educazione, non può prescindere dalla cura dell’emotività in quella stagione, l’adolescenza, dove il cuore non sa se avere legami con l’ideale o con il sesso, dove la rabbia non sa se scatenarsi su di sé o sugli altri, dove l’eccesso della vita travalica talvolta pericolosamente la misura, dove malinconie radicali inducono alla demotivazione quando non alla depressione, dove il volume delle sensazioni oltrepassa di gran lunga la capacità delle parole disponibili per esprimerle: in questa stagione, caratterizzata da un inquieto disordine, che fa la scuola?»
Con questo interrogativo che lascio a chi legge, ringrazio i miei e le mie studenti della ID, IID, VF dell’IIS Marconi-Mangano di Catania per il prezioso aiuto.
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Articolo di Giovanna Nastasi

Giovanna Nastasi è nata a Carlentini, vive a Catania. Si è laureata in Pedagogia e Storia contemporanea e insegna Lettere negli istituti secondari di II grado. La sua passione è la scrittura. Ha pubblicato un romanzo, Le stanze del piacere (Algra editore).