Parole Male-Dette. Parte prima

Per contrastare la violenza sulle donne si è fatto molto in questi anni a livello istituzionale, c’è stata anche crescita dal punto di vista dei servizi, delle possibilità di investimento per rispondere ai bisogni delle donne che decidono di affrancarsi dalla situazione di violenza, ma dove c’è ancora molto da fare è sul piano della cultura e fra i diversi aspetti sicuramente c’è quello del linguaggio, su cui c’è una resistenza incredibile nel superare una forte connotazione maschilista e, spesso, di vera e propria violenza linguistica, soprattutto nei confronti delle donne.

Si esprime così Emma Capogrossi, assessora alle Politiche sociali e alle Pari opportunità del Comune di Ancona, in apertura del convegno online Parole Male-Dette, organizzato dall’associazione Reti culturali, guidata da Marina Turchetti.
Il webinar è stato condotto con brio e capacità di collegamento fra i vari interventi da Teresa Cinque, pseudonimo di Elisa Giannini, autrice, tra l’altro, di Amorologia-Guida (quasi) imparziale alle relazioni e al sesso. La parola non crea la realtà, ma la definisce, facendola cogliere in un modo o nell’altro e indirizzando il comportamento. Per esempio, parole recentemente introdotte come mobbing e mansplaining, commenta Teresa Cinque, hanno l’utilità di far cogliere immediatamente una realtà, che anche prima esisteva, ma che non avendo una parola che la definisse, veniva colta con più difficoltà, col rischio di non essere identificata e quindi non essere pensata e affrontata, come se non esistesse!
La prima relatrice a cui viene data la parola è Silvia Garambois, giornalista, laureata in Scienze della comunicazione, la presidente e tra le fondatrici di GiULiA (acronimo di: Giornaliste Unite Libere Autonome), parte della commissione Pari opportunità della Federazione nazionale stampa italiana. La domanda che le viene posta entra subito nel tema del femminicidio: come nasce questa parola nel giornalismo e che rilevanza ha avuto? La giornalista inizia dicendo che è fondamentale continuare a parlare di questi temi inerenti il linguaggio, di cui sembra che si sia detto e ridetto tutto, mentre poi bisogna sempre ripartire da zero. GiULiA, infatti, è nata circa dieci anni fa proprio perché a tante giornaliste non piacevano i loro giornali, incapaci di raccontare l’eccellenza delle donne, di parlare di violenza in modo non stereotipato, usando un linguaggio rispettoso e adeguato. Qualcosa è cambiato da allora e un inizio è stato proprio l’utilizzare il termine femminicidio, capace di definire chiaramente la realtà di donne uccise da uomini che avevano le chiavi di casa, perché questa è stata la prima scoperta: che si trattava di mariti, fidanzati, padri… persone che avevano una relazione forte con le donne vittime di violenza. Una volta capita l’importanza di introdurre anche nel giornalismo il termine “femminicidio”, già esistente in un certo tipo di letteratura, la parola ha contribuito a far conoscere sempre meglio i fatti e, anche grazie al contributo di colleghi sensibili a questo, che hanno iniziato a loro volta a utilizzarlo, nel 2013 c’è stata finalmente la legge che riconosceva come quelle donne venissero ammazzate proprio perché donne, e da persone conosciute e intime.
Pensando al linguaggio di tanta stampa che non utilizza parole, perfettamente corrette per la lingua italiana, come “la ministra” o “la presidente”, si vede come alla base ci sia lo stesso discorso: il non riconoscere le donne per il ruolo che hanno, negando una loro esistenza autonoma e indipendente dal maschile. E allora da giornalista, Garambois ci dice che, per rispetto dei lettori e delle lettrici, e per dare un segnale forte per combattere tutti i tipi di violenza, è importante scrivere “la presidente”, andando anche contro una direttiva di Palazzo Chigi che impone di usare “il signor presidente” seppur lì ci sia una donna. Un ulteriore tema trattato riguarda le distorsioni nella narrazione dei femminicidi, quando il linguaggio rischia di far prevalere il punto di vista dell’assassino, come quando si legge «uccisa dalla gelosia del fidanzato»: chi è colpevole, la gelosia o il fidanzato? Oppure: «lo ha fatto perché era stato licenziato e quindi era disperato e depresso», tutte affermazioni che suonano come giustificazioni del gesto criminale, che mettono in secondo piano la donna uccisa.
Addirittura si arriva alla stigmatizzazione della vittima, come se fosse lei colpevole di atteggiamenti che hanno indotto al truce gesto, elementi che poi ritornano anche in tribunale, quando le donne denunciano la violenza e, di fronte a una narrazione distorta, vengono per di più fatte sentire in colpa. L’impegno di GiULiA è volto proprio anche in questa direzione, con corsi e incontri non necessariamente con giornaliste e giornalisti, ma con lettrici e lettori, perché serve anche uno sguardo critico da parte di chi legge per evidenziare errori o orrori delle informazioni distorte e chiedere cambiamento. Dopo dieci anni di impegno su questo, si deve dire che l’“amore-raptus-passione” che inondava i giornali si trova un po’ di meno, ma non si è ancora cancellato del tutto e spesso rispunta l’«averla ammazzata, da parte di chi l’amava tantissimo, perché lo tradiva o lo trascurava o lavorava troppo fuori casa…».
Di fronte a queste distorsioni occorre denunciare ed è stata realizzata una Carta, il Manifesto di Venezia, che è un decalogo semplicemente di buona informazione, con l’indicazione a raccontare la realtà come si manifesta, per cui se è lei a essere stata uccisa, è lei quella di cui si deve parlare! Impostare tutto il pezzo sulle motivazioni/giustificazioni di lui è slealtà giornalistica. Sono state stilate anche norme deontologiche da seguire su questo tema, ma lo strumento migliore non è tanto la censura, afferma Garambois, quanto la discussione e la crescita di una cultura del rispetto, anche riguardo alle immagini utilizzate, che possono risultare devastanti.
Il fatto è che la stragrande maggioranza delle firme giornalistiche sui principali giornali italiani è maschile, quindi la realtà è raccontata dagli uomini dal loro punto di vista maschile. E se anche ci sono e aumentano sempre di più le giornaliste, non cambia la narrazione se raramente le troviamo in prima pagina e spesso vengono relegate alla cronaca o alle questioni di costume; inoltre occorre dare rilievo alle eccellenze femminili, e non solo per i casi eclatanti come Samantha Cristoforetti, ma anche per le tantissime altre che ci sono e che devono essere valorizzate. Occorre forzare i tempi e come si è fatto col femminicidio, ora va fatto con il nominare le eccellenze e anche con il linguaggio, perché deve esserci consapevolezza che il linguaggio non è neutro, anzi, è fortemente politico e viene di volta in volta strumentalmente utilizzato da chi governa per veicolare messaggi che vanno ben al di là della grammatica. Ma l’intento è di non permettere che anche il linguaggio di genere venga intrappolato nella politica.
Rispetto alla formazione, che è sempre il punto di partenza a partire dalla scuola e dalle giovanissime generazioni, quella efficace che compie GiULiA è volta a colleghe e colleghi, che messi di fronte per esempio a una raccolta di titoli, non possono non riconoscere tutta una serie di stereotipi e di discriminazioni linguistiche tali da convincere anche chi è più scettica o scettico della necessità del cambiamento.

La parola passa ora a Graziella Priulla, sociologa, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Catania, formatrice sulle tematiche delle pari opportunità e sul linguaggio non discriminatorio, in particolare anche riferito ai social, e autrice di molti volumi da tempo entrati nelle programmazioni scolastiche. Partendo dai social media, interessanti da analizzare rispetto alla violenza delle parole, Priulla afferma che, a parte l’innovazione tecnologica, non hanno inventato nulla di nuovo, ma esasperato o, se vogliamo, reso più diffuso, più gratuito, più popolare ciò che esisteva da molto tempo. Fa riferimento, in questo caso, non soltanto alla grammatica o al lessico, ma soprattutto al tono della comunicazione, al registro, ciò di cui ha parlato nel suo libro Parole tossiche. In quel testo faceva emergere che il nostro vivere collettivo, l’aria stessa che respiriamo, si è intossicata, e non soltanto per i fumi e l’inquinamento industriale, ma anche soprattutto per l’inquinamento simbolico, che passa attraverso le relazioni e che si esprime attraverso i discorsi aggressivi. Questo tipo di linguaggio, che un tempo, forse anche ipocritamente, era tenuto relegato in un ambito del “non dicibile” in pubblico, è diventato “normale”. Il fatto è che il fenomeno è partito dall’alto, dalle più prestigiose aule istituzionali, in cui negli ultimi decenni si sono sentite espressioni che un tempo caratterizzavano le caserme o le osterie. E lo “sdoganare il turpiloquio” non è stata solo una moda passeggera, ma è diventata una vera e propria ideologia di quella corrente politica, ormai diventata egemone, che ha voluto esaltare il passaggio dal politichese, definito ipocrita, al “gentese”, considerato vicino e comprensibile alla “gente”. Questa che si è proposta come un’alternativa, e che è diventata dominante sia in politica sia sui giornali e soprattutto in televisione, in certi format esasperati, nasce da una pretesa, anzi dall’ambizione di rappresentare il popolo, di dire alle persone che ascoltano «Io sono come te, io non parlo dalla cattedra o dal pulpito». È una visione terribile di popolo, visto come un buzzurro che non riesce a dire altro che parolacce, che costella il discorso di insulti e di improperi, che non riesce a fare un discorso corretto che sia più lungo di quattro parole.

Un altro aspetto rilevante di questa narrazione tossica è il dire «contano i fatti, non le parole. Le parole cosa vuoi che siano? Che male c’è?» ed è accettato il fatto che chiunque dica qualunque cosa risulti irrilevante, non sia da colpevolizzare: «veniamo alla sostanza, è questa che conta!». Tutto ciò esisteva già nel Paese almeno dal 2007/2008, afferma Priulla in base alle sue ricerche, era già presente e potente. I social, che hanno dato la parola a chiunque, si sono limitati a riprendere questo fenomeno, amplificarlo e a sfruttare un altro meccanismo, questa volta commerciale e non soltanto simbolico: i like, con il conteggio del numero di follower, di amici… dove più si urla contro gli altri e le altre, più si riesce a prevalere senza ritegno, senza educazione, senza capacità di ascolto, insultando eccetera, più si diventa popolari… E se si interviene chiedendo rispetto e attenzione a ciò che si dice, si viene messe in condizione di doversi difendere e giustificare il fatto che infarcire il discorso di una parolaccia o di un’offesa personale ogni tre minuti non serve per illustrare e dimostrare il proprio pensiero. Questa maleducazione, continua Priulla, diventata “normale” nei social, si dilata fino al punto di passare poi dagli insulti alla minaccia fisica, dallo stereotipo al pregiudizio e infine alla discriminazione. È sempre accaduto, ma adesso tutto ciò è reso più visibile e pericoloso dall’enorme diffusione ed è anche più veloce, può davvero fare molto male e demolire la credibilità di una persona nel giro di pochi giorni, con un odio di fondo e false notizie che poi è difficile smascherare.

La rete è un gigante immenso, continua la relatrice, impalpabile e difficilmente controllabile; gli stessi controller che vengono utilizzati vanno solo a selezionare i casi random… certo i siti di pedopornografia, di accoppiamenti con animali o altre perversioni, vengono individuati e bloccati, ma sono come punte di iceberg… tutto il resto è sotto. Ciò che interessa a uno sguardo sociologico è come vengono utilizzate le categorie sociali e quali di queste diventano maggiormente bersaglio; per esempio, il dire che «tutte le donne che vanno in giro in minigonna se la cercano la violenza», è un’affermazione che un algoritmo non può individuare come censurabile. Se c’è esplicita diffamazione o calunnia verso una persona fisica precisa, ci può essere la denuncia alla polizia postale ed è paradossale, aggiunge Priulla, che nel momento in cui le persone che vengono aggredite così pesantemente – il caso di Laura Boldrini in Italia è stato emblematico – denunciano e vengono identificati gli autori di questo massacro via social, questi lupi, più che leoni, da tastiera si trasformano in conigli da tastiera. Iniziano a trovare scuse ridicole senza avere il coraggio delle proprie azioni: «Ah, ma non ero io il computer, era un mio amico che passava di lì» oppure fanno telefonare alla vittima dalla moglie o dalla madre per dire «Lei è moglie e madre come me, perdoni mio figlio, ha avuto un attimo di sbandamento».

Importante è analizzare la configurazione di categorie prese in blocco, che realizzano nella rete tutto l’odio che viene scaricato attraverso gli ismi e quelli peggiori sono il razzismo da un lato e il sessismo dall’altro, di cui un aspetto è anche l’omofobia, vista, a parere della sociologa, come una derivazione dell’odio per le donne, come odio verso i maschi che non sono veri maschi “alfa”. Amnesty International ogni anno recensisce, per esempio, i Tweet ma anche i post su Facebook, rispetto a queste categorie, e soltanto nei primi otto mesi dell’anno scorso sono stati registrati più di un milione di tweet di odio e di disprezzo nei confronti delle donne; subito dopo vengono migranti, musulmani, omosessuali, trans, ebrei ecc. Ma analizzando in particolare il linguaggio di odio verso le donne, si vede che su 100 insulti rivolti a una donna, quelli rivolti a un uomo sono 3,7 e a parte questo dato, già di per sé significativo, è la qualità degli insulti che fa riflettere, commenta Priulla: gli uomini vengono attaccati per quello che dicono o che fanno, le donne per quello che sono! La critica è legata all’identità e non soltanto al comportamento o alla prestazione nello specifico episodio. Si innesca una spirale di disagio, di vero e proprio dolore nella vittima di questi attacchi, che la porta a non uscire di casa, ad avere paura di andare al bar per non essere insultata pubblicamente… situazioni insopportabili nella vita quotidiana e non soltanto quando si leggono sul computer. Le offese sono prima rivolte alle donne in generale: «voi donne siete tutte così, non sapete fare nulla, provocate…», poi si attacca un bersaglio specifico e le offese si concentrano sull’aspetto fisico: «sei brutta, sei grassa, sei cozza, eccetera». Subito dopo l’aspetto fisico viene il comportamento, con quel repertorio di insulti, che conosciamo bene, per definire le donne che hanno una sessualità diciamo promiscua, che conta ben 92 sinonimi in italiano, senza contare i dialetti. Gli attacchi culminano poi con le minacce di stupro, spesso intese come stupri di gruppo! Alla base c’è sempre l’ostilità verso una donna che «non sa stare al suo posto», che «deve essere rimessa al suo posto», cioè in cucina o a letto. La dinamica è «tu non sai stare a quella regola che è esistita da sempre e quindi vai punita» e la donna viene punita annichilendola, riducendola a oggetto. E l’oggettivazione sessuale che riconosciamo nella pubblicità, nelle immagini televisive, in quell’orrore che sono i primi piani sui glutei o sul seno delle donne, aggiunge Priulla, diventa nei social «Io dico e faccio di te quello che voglio».
Questa riduzione della donna a corpo, viene individuata da Teresa Cinque, anche nel fenomeno della “mammizzazione”, ingabbiare la donna nella procreazione, quando per esempio di un premio Nobel per la chimica si sottolinea che è anche mamma o altro, mentre per uno scienziato o un politico non ci si interessa mai dei suoi aspetti casalinghi. Inoltre, tornando alle parole, il fatto che si utilizzi spesso per le donne il nome proprio invece del cognome, anche quando si è nell’ambito di una sfera professionale, mentre per gli uomini mai, è un modo per sminuirle e non volerne riconoscere l’autorevolezza. La studiosa di sociologia vede in questo “sessismo benevolo” da un lato la minimizzazione «Sei così piccolina… carina», dall’altro il relegare le donne in quell’ambito privato in cui sono sempre state. Un altro aspetto da evidenziare è che quando c’è una donna in un posto di potere, diventa, per esempio, la Boldrini, la Meloni… non si è mai sentito il Letta. Questa è l’altra foto del sessismo grammaticale, cioè bisogna far notare che è un’eccezione, che è arrivata in quella posizione perché le è andata bene, ma non è normale, non è naturale. Ecco, questo è l’altro grande equivoco, scambiare il culturale con il naturale è il presupposto su cui si fonda tutto ciò di cui stiamo parlando: che sia la mamma a occuparsi della prole è naturale, che siano le donne che curano tutte e tutti coloro che stanno intorno, adulti, anziani, bambini… è naturale! che sia un uomo che porta il denaro a casa è naturale… così l’omosessualità non è naturale, anche se è presente in moltissime specie… vogliamo opporci alla natura? No! E far dipendere dalla natura tutto ciò che invece è una costruzione culturale, lo legittima. Come intervenire per limitare i danni di mentalità millenarie e dei social che oggi sono degli acceleratori di tante disfunzioni della comunicazione? Priulla non ha facili ricette, segnala che c’è una rete nazionale che dal 2020 raccoglie le segnalazioni degli abusi o degli shitstorm, cioè la valanga di parolacce che si riversa sulle riunioni di donne; e poi un codice di condotta teorico dei social media a cui si può ricorrere. Però è convinta che il problema sia non fare assuefare a questi meccanismi di odio, perché poi si passa alla tolleranza, all’accettazione e infine alla dipendenza. Se permettiamo che davanti a un computer, senza controllo, senza filtri, ci siano per 24 ore al giorno milioni di adolescenti, è inevitabile che assorbano quanto di più nefasto ci sia in rete e se prima la trasgressione era scrivere parolacce sulle porte dei bagni, ora è lanciarle sui social. E sono aumentati l’antagonismo tra i sessi, la misoginia, l’incapacità di relazione. È convinta che gli antidoti non possano essere quelli repressivi, soprattutto nell’età della formazione, ma occorrono interventi educativi mirati e convincenti, a partire dagli esempi delle persone adulte che mettano in pratica il rispetto verso l’altro e l’altra, sia a scuola e soprattutto in famiglia. A scuola nominando e insegnando il valore anche delle donne, rivoluzionando i libri di storia: non si può parlare solo dell’uomo preistorico, l’uomo cacciatore, l’uomo che ha inventato l’agricoltura… come se le donne non avessero compiuto azioni valide per la civiltà tutta. E ancora di più in famiglia: chi sente continuamente parolacce e vive maltrattamenti non può far altro che riprodurli. Gli esempi portati da Graziella Priulla sono moltissimi e tutti molto interessanti, intervallati anche da suggestive osservazioni di Teresa Cinque.

Difficilissimo se non impossibile sintetizzare qui, nello spazio a disposizione di un articolo, tutte le molteplici argomentazioni, esempi, discussioni, anche con domande dal pubblico e risposte delle relatrici, dell’intero webinar; per cui ci fermiamo alle prime due relazioni, di Silvia Garambois e Graziella Priulla, e lasciamo a un secondo articolo, in pubblicazione la prossima settimana, gli interventi di Paola Di Nicola e Federica Guercio. Per chi fosse interessata/o ad ascoltare dal vivo anche battute, intermezzi, varie altre sollecitazioni emerse nelle relazioni, c’è la possibilità di riascoltare integralmente il webinar sulla pagina fb di Reti culturali. Sulla stessa pagina si possono riascoltare anche tutti gli interessanti incontri del ciclo Cambiamo discorso, di cui si possono leggere le interviste alle relatrici nella rubrica Conversazioni di questa rivista online Vitamine vaganti.

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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, tiene corsi di aggiornamento per docenti, in particolare sui temi delle politiche di genere. È referente provinciale per Lodi e vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile. Collabora con Se non ora quando? SNOQ Lodi e con IFE Iniziativa femminista europea. È stata Consigliera di Parità provinciale dal 2001 al 2009 e docente di filosofia e scienze umane fino al settembre 2020.

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