Parole Male-Dette. Parte seconda

Dopo gli interventi della giornalista Silvia Garambois e della sociologa Graziella Priulla – sintetizzati in un primo articolo sul convegno online Parole Male-Dette – la conduttrice del webinar, Teresa Cinque, scrittrice youtuber, dà la parola a Paola di Nicola, magistrata, consigliera di Corte di Cassazione, che si occupa di reati di violenza contro le donne e che può parlarne con grande competenza, soprattutto nei risvolti giuridici.
Per rispondere alla prima domanda se in magistratura c’è disparità di genere o se c’è consapevolezza in merito, la giudice afferma che in magistratura il numero delle donne è superiore rispetto a quello degli uomini e negli ultimi anni le donne che hanno superato il concorso sono più del 60% rispetto alla totalità, proprio perché vi si accede attraverso prove scritte particolarmente difficili, anonime, e, come spesso avviene, quando si tratta di merito, le donne sono più numerose. Occorre però considerare che si parla di un’istituzione che è stata negata alle donne per millenni: il paradosso è che la Giustizia è sempre stata, nella nostra cultura occidentale, rappresentata come una donna imponente, con una bilancia in mano, e l’immagine era presente in quasi tutti i tribunali italiani laddove le donne non potevano entrare, non potevano giudicare, non potevano esercitare l’attività dell’avvocatura e quando entravano per esercitare i propri diritti, a partire già dalla giurisprudenza romana, la loro parola doveva essere confermata da altri due testimoni, altrimenti la loro narrazione non valeva nulla.

Importante, quindi, è svelare l’ipocrisia che caratterizza il nostro sistema culturale, in cui c’è una forte valorizzazione del femminile, nei contesti in cui siamo mera forma senza avere la possibilità di esercitare la sostanza di ciò che costituisce quel simbolo, spesso religioso (es. la dea Dike) oppure siamo mero corpo. Tutto ciò fa capire, continua Di Nicola, che parlando della magistratura come luogo istituzionale che produce sentenze, quindi attività interpretative del diritto, dobbiamo intendere le sentenze come produzioni culturali. E l’attività dell’interpretazione è la ragione per la quale le donne ne sono state escluse per millenni, l’interpretazione dà sostanza e forma ai diritti e quando noi diciamo che abbiamo delle leggi straordinarie, che abbiamo una Costituzione tra le più invidiate del mondo, ma una Costituzione che allo stesso tempo è in gran parte disapplicata o poco applicata, non stiamo facendo altro che dire che se le parole non vengono trasfuse in atti concreti, quali appunto sono le sentenze e i diritti, quelle parole possono essere anche scolpite nell’oro, ma poi di fatto non esistono nella nostra vita quotidiana. In modo simile il femminismo è stato un motore importante nel nostro Paese per ottenere il riconoscimento dei diritti delle donne, ma allo stesso tempo non è entrato nelle scuole, nelle istituzioni, nella produzione culturale in termini tali da poterne modificare la struttura.

La magistratura così come l’avvocatura, le forze di polizia, gli ordini professionali… non hanno incontrato il femminismo, afferma la giudice, e lei stessa non lo ha incrociato nel suo percorso di formazione né in famiglia né all’università né nelle conoscenze amicali o nell’attività sportiva. Ha, invece, iniziato a conoscerlo nell’aula di giustizia attraverso le avvocate dei centri antiviolenza, attraverso un’avvocatura molto forte e determinata, molto impegnata, di fronte alla quale ha vissuto inizialmente un atteggiamento di disagio e anche di estraneità. Il problema è proprio questo, che chi lavora in ambiti sensibili e importanti rispetto alla violenza sulle donne, non ha avuto una formazione tale da permettere di affrontare in modo adeguato ciò che accade. Arrivando dunque al femminicidio, alla violenza sessuale – i punti dolenti quando si va in tribunale – succede che la violenza nei confronti delle donne è “naturalizzata”, come già detto negli interventi precedenti, quindi difficilmente si vede e quando viene disvelata, è però ritenuta una sorta di attentato a un contesto personale, familiare, sociale, culturale e storico ben stabilito. Quindi una donna che denuncia la violenza subita opera un doppio atto: quello di denunciare, e mettere a rischio la propria vita perché di questo si tratta, e mettere in crisi un’intera struttura culturale e tutto il suo contesto. Se per esempio io denuncio mio marito, esemplifica la giudice, tale rottura non rimane chiusa nel contesto di coppia o familiare, ma ha delle ripercussioni enormi nel contesto professionale, rispetto alle/agli amici che prendono posizione a favore dell’uno o dell’altra e così via. E tutto questo entra nell’aula di giustizia.

A proposito del linguaggio utilizzato dai media, effettivamente ora rispetto a prima, anche grazie al grande lavoro fatto da associazioni come GiULiA, c’è una maggiore attenzione rispetto a titoli sparati in prima pagina che non corrispondono al fenomeno criminale e culturale qual è il femminicidio o la violenza sessuale. Ma al di là di questa maggior consapevolezza, quel linguaggio deviante entra nell’aula di giustizia e nelle sentenze, trasformando un fenomeno appunto criminale, qual è il femminicidio, in una naturalizzazione di una relazione di coppia in cui è avvenuto un raptus dovuto, per esempio, a gelosia, che ha indotto quell’uomo a commettere un atto violento, per cui la colpa ricade su quella donna che in qualche modo lo ha determinato. Paola Di Nicola invita a leggere i risultati della Commissione femminicidio, reperibili in rete, in cui si rileva, alla luce della lettura di oltre 220 sentenze, come il femminicidio sia raccontato facendo rientrare il linguaggio dei giornali nelle sentenze; ciò avviene nella gran parte dei casi ma ovviamente non in tutti, perché ci sono magistrati e magistrate che hanno una competenza specifica nel settore e anche grazie a una Scuola superiore della magistratura che fa la sua parte.

Il fatto è che la sentenza è una produzione culturale, è l’interpretazione di un codice scritto, che rappresenta in nome del popolo italiano ciò che si può fare e ciò che non si può fare, ciò che è reato e ciò che non lo è; per esempio il termine gelosia, che pur rientra nelle sentenze, è un termine distorsivo che non è presente nel codice penale attuale e addirittura, nel codice penale del 1930, il famoso codice Rocco che è di un’altra epoca, c’è scritto espressamente, nell’articolo 90, che gli stati emotivi e passionali (quelli che appunto sono definiti solitamente di rabbia, gelosia, frustrazione e simili) non hanno alcuna incidenza sulla capacità di intendere e di volere, quindi sull’imputabilità e non sono giuridicamente rilevanti. Per giudici come Paola Di Nicola, la gelosia è un’aggravante, che rientra, inoltre, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione tra i motivi abietti e futili di cui all’articolo 61 del codice penale (circostanze aggravanti comuni), e quindi dovrebbe determinare l’aumento della pena; invece nei delitti di femminicidio, censiti dalla commissione, accade il contrario, cioè che la gelosia, pur dovendo per il diritto determinare un aumento della pena fino a un terzo, è ritenuta, proprio per un capovolgimento culturale, un fattore attenuante tale da portare alla riduzione della pena. E questo avviene per pregiudizi culturali, per una ricostruzione errata del femminicidio, per cui l’agire violento di un uomo viene ritenuto la re-azione rispetto a una condotta che lo determina. Molte sentenze e ordinanze, che tuttora vengono emesse, da magistrati e magistrate non formate in merito, parlano di “impulso sessuale”, naturalizzando così il fenomeno a tal punto che anche una vittima di violenza si colpevolizza, ritenendo di aver fatto qualcosa che ha determinato tale impulso. Occorre smascherare il ribaltamento di responsabilità – che porta a interrogarsi non sull’atto in sé, ma su che cosa lo abbia provocato – agendo nei giornali, nelle aule universitarie, nelle aule scolastiche e soprattutto nelle famiglie.

Il femminicidio è un fenomeno criminale, seppur basato su un sostrato culturale millenario, e il contesto da prendere in considerazione è l’omertà oppure i rapporti di potere, non la naturalità dell’atto o l’impulso o la gelosia, altrimenti la conseguenza è non solo normalizzare quell’atto, ma anche tollerarlo se non giustificarlo, diventandone ciascuna e ciascuno di noi in qualche modo corresponsabili. Nelle trasmissioni televisive, per esempio, non si parla mai se non raramente dei femminicidi nei termini corretti con persone competenti, ma ci sono addirittura trasmissioni che associano il femminicidio all’amore, seppur dicendo Amore criminale e la semplice associazione di questi due termini è di per sé in grado di trasmettere un messaggio errato, fuorviante, che viene acquisito da ragazze e ragazzi come normale. Poi scopriamo che ci sono giovanissime che quando si fidanzano con un ragazzino, sono costrette o fortemente invitate, per dimostrare il loro amore, ad accettare una app che in ogni momento faccia sapere dove si trovano e cosa stanno facendo. È una modalità che crea generazioni di future donne abituate a non essere libere, a tollerare una forma di violenza che va al di là degli schiaffi, che in ogni modo verranno se poi osano ribellarsi. Se le donne non sono libere, la violenza generalizzata e globale non verrà mai eliminata.

Il primo atto per contrastare la violenza nei confronti di donne è la libertà e la liberazione delle donne sotto tutti i profili. Teresa Cinque ricorda poi che l’Italia è stata condannata due volte nell’ultimo anno dalla Corte europea dei diritti umani e dalla Commissione internazionale contro le discriminazioni Onu per linguaggio sessista. Paola Di Nicola afferma di provare profondo rammarico per questo, perché è una giudice che crede profondamente nel ruolo delle istituzioni e nel lavoro che svolgono, ma deve riconoscere che la magistratura italiana è stata condannata nel 2021 con la sentenza del 27 maggio J.L. contro Italia e dalla Corte europea per i diritti umani per l’utilizzo di stereotipi sessisti in una sentenza emessa in secondo grado per una violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza di vent’anni, e una seconda sentenza, di giugno del 2022, questa volta emessa a livello internazionale dal comitato Cedaw, che presiede al controllo della corretta applicazione della convenzione contro le discriminazioni nei confronti delle donne, ha condannato l’Italia perché la magistratura italiana non ha utilizzato in modo adeguato gli strumenti interpretativi ordinari, ma ha sviato e modificato la lettura delle norme e dei fatti in base a stereotipi e pregiudizi sessisti.

A queste si aggiungono altre tre sentenze della Corte europea per i diritti umani che, sempre in questo ultimo anno, condannano l’Italia per passività giudiziaria, per non essere intervenuta per tempo in contesti di violenza domestica nei confronti di una donna o dei suoi figli/e. Questa è una grande contraddizione, da capire e monitorare, conclude Di Nicola, perché l’Italia ha una magistratura che sa prendere posizione, spesso intervengono in webinar giudici nel dibattito pubblico sulla violenza contro le donne, quindi è molto importante che l’opinione pubblica conosca le sentenze, che vengano pubblicate, che si sappia come la magistratura italiana legge i fenomeni di violenza contro le donne, perché ciò costituisce un termometro della società e non solo della magistratura, che è la rappresentazione finale, l’anello finale di una catena che nasce da lontano e sopravvive da millenni.

La parola passa a Federica Guercio, psicologa e psicoterapeuta, di indirizzo cognitivo-comportamentale, componente della commissione cultura web dell’Ordine degli Psicologi delle Marche, con cui capire quali conseguenza ha sulla psiche delle donne la violenza delle parole. La prima questione che le viene posta è come si potrebbe definire la violenza verbale. Inizia parlando di due aspetti che potrebbero sembrare ovvietà, ma non lo sono. Il primo è che la violenza di genere fonda le sue radici in una cultura basata su stereotipi e pregiudizi, che presuppongono la superiorità del sesso maschile su quello femminile, presentando modelli di mascolinità e femminilità trasmessi fin dall’infanzia; e il secondo è che per affrontarla occorre un approccio di genere, che riconosca, cioè, la responsabilità di chi mette in atto la violenza, non giudichi la donna e non la colpevolizzi, senza parlare di raptus o malattia mentale come giustificativi del gesto. Sembrano appunto ovvietà, ma quando si va a interagire con adolescenti, si constata che sono ancora dati ben presenti.

Federica Guercio passa, quindi, a definire violenza verbale qualsiasi comportamento aggressivo che si verifica attraverso la comunicazione umana e che viene percepito come svilente, umiliante, intimidatorio e che crea soprattutto un senso di inferiorità e abbattimento dell’autostima. A ferire non sono soltanto le parole, ma anche il tono della voce, le espressioni facciali, il linguaggio del corpo e far comprendere a chi è più giovane che anche come vengono pronunciate le parole assume una potenza, un significato forte, è importante.
Il confine tra violenza verbale e violenza psicologica non è così netto, dato che le modalità sono lo sminuire, l’insultare, criticare in maniera aggressiva, minacciare, attaccare il valore della persona, mettendo in atto un vero e proprio abuso emotivo. Queste forme in cui si manifesta la violenza verbale si intrecciano spesso con altre forme di violenza quali l’abuso fisico e appunto psicologico, a cui si aggiunge la violenza assistita, soprattutto in famiglia. Le conseguenze emotive sono pericolosissime sia per la donna che subisce, ma anche per bambine/i e adolescenti che assistono, e riproducono ciò che vedono.

Rispondendo alla domanda specifica di Teresa Cinque sugli effetti della violenza all’interno della coppia, su quanto gli stereotipi di genere influiscano sulla stessa vittima di violenza, per l’incapacità di interpretare ciò che le sta succedendo in quanto la sua lettura potrebbe essere già distorta dagli stereotipi culturali che assorbe, la psicoterapeuta afferma che la violenza di genere è come se destrutturasse la personalità della donna, che cambia la percezione di sé, che si pensa e si vede con gli occhi del maltrattante ed è convinta di non essere adeguata da nessun punto di vista, quindi è come se cambiasse proprio un aspetto della sua personalità: in psicologia si chiama cambiamento della percezione di sé. Quindi poi è ovvio che autostima e senso di efficacia vengano annientate e la donna si sente corresponsabile, quando va bene, spesso responsabile della violenza ed è convinta di meritarsi ciò che le sta accadendo. Questa è una precisazione importante perché si rischia sempre di pensare che queste siano caratteristiche delle donne legate alla loro fragilità, per esempio, e invece sono un danno che la violenza ha causato loro. Cioè non è che le donne non leggono bene la violenza perché sono fragili psicologicamente, ma diventano fragili a causa della violenza. Occorre tenere ben presente questo dato, quando si fanno le valutazioni delle competenze genitoriali, altrimenti appare come una mancanza di competenza genitoriale e di risposte personali ciò che, invece, è l’effetto provocato dalla violenza, rispetto a cui poi riprendersi ed emanciparsi è un’operazione complessa. Per cui viene minata l’autostima, l’identità della donna, fino poi ad arrivare, attraverso emozioni che primariamente sono quelle di ansia, di colpa e di vergogna, anche ad aspetti patologici più importanti, come il disturbo depressivo maggiore, i disturbi del sonno e ovviamente i disturbi post-traumatici da stress, perché subire violenza è una condizione altamente stressogena e traumatica.

Quando lavora con le adolescenti, continua la psicologa, anche nei centri antiviolenza, oppure sul versante della prevenzione, come terapeuta o come psicologa scolastica, all’interno di contesti quindi non prettamente di supporto clinico, sente che c’è da fare ancora molto: è incredibile e preoccupante sentire donne giovani dire «sì, però se lui non vuole che io metta la minigonna, posso anche capirlo». Oggi è come se le adolescenti fossero più vulnerabili, in un rapporto di coppia, rispetto alle donne adulte che bene o male, anche se non hanno proprio incontrato il femminismo, però ne hanno forse beneficiato di più. Su certi aspetti può sembrare che le giovani generazioni siano di mentalità più aperta, rispetto per esempio all’identità sessuale non rigidamente binaria, omosessualità e altro, ma recenti ricerche presentano un quadro in cui prevalgono ancora stereotipi in modo sconcertante. Viene riportata da Federica Guercio una ricerca del 2020, dell’Osservatorio Nazionale adolescenza in collaborazione con skuola.net, piccola come campione ma molto significativa: 4 adolescenti su 10 ritengono che deve essere ancora l’uomo a mantenere la famiglia, e di questi il 25% delle studenti è d’accordo; 1 maschio su 4 crede che debba essere l’uomo a comandare in casa; 1 maschio su 5 pensa che il tradimento femminile sia più grave di quello maschile e a scuola le ragazze sono maggiormente vittime di forme di discriminazione e di violenza; il 40% delle studenti, e qui le percentuali aumentano, è soggetta a esclusioni dal gruppo contro il 20% degli studenti; il 31% delle ragazze subisce insulti per l’aspetto fisico, i maschi sono solo il 17 %; e una studente su 10 viene offesa in quanto donna. Poco prima, nel 2019, è stata condotta un’altra ricerca con un campione molto più ampio, nella fascia di età che va dai 13 ai 19 anni, in cui, parlando di violenza di genere, una ragazza su 10 è stata almeno una volta insultata e offesa dal proprio fidanzato, nella metà dei casi anche in pubblico e per motivi banali; 1 su 20 è stata addirittura picchiata; 1 su 5 ricorda scenate di gelosia per abbigliamento considerato troppo provocante; la stessa percentuale subisce rimproveri per essere stata, a detta del partner, troppo sorridente con un altro; il 17% subisce il controllo ossessivo dello smartphone da parte del partner e la pretesa di leggere le conversazioni private; nel 38% dei casi le ragazze hanno subito offese e insulti di fronte ad altre persone; oltre il 10% teme che il fidanzato possa perdere il controllo quando si arrabbia e 8 ragazze su 10 (una percentuale altissima) affermano di essersi trattenute dall’esprimersi liberamente almeno una volta, per paura di scatenare una reazione violenta nel partner.

In effetti, commenta Teresa Cinque, se da una parte c’è un’evoluzione innegabile e inevitabile, anche grazie ai femminismi, alla comunità lgbtq, ai social stessi, con una diffusione più capillare di nuovi valori e di nuove visioni, dall’altra, però, viviamo dei passi indietro o degli irrigidimenti “conservatori” molto forti, forse anche in relazione alla situazione internazionale, con il rafforzarsi di totalitarismi, nazionalismi e destre. A questo punto sono gli strumenti culturali che possono venire in aiuto, letture che possano dare consapevolezza, esempi educativi che possano costruire meccanismi di difesa. Afferma la psicologa che quando era più giovane e sentiva donne più grandi di lei dire che c’era ancora molto da fare, che non bisognava abbassare la guardia, trovava eccessive queste affermazioni, mentre ora, con l’esperienza della sua professione, si deve ricredere ed è convinta che sia ancora fondamentale un lavoro di formazione o di diffusione delle informazioni e della cultura non sessista, perché, aggiunge, sembra stereotipato dire tutto ciò pensando che i genitori non sappiano quanto è importante non usare un tipo di linguaggio non violento e non aggressivo, invece è proprio ciò che succede. In realtà ci si rivolge a bambine e bambini con un linguaggio spesso molto inadeguato e non sempre per una conflittualità esistente in famiglia o a causa di problemi psicologici, ma per un modo aggressivo di rivolgersi ad altre e altri sempre più diffuso e tollerato, senza rendersi conto che per chi è nell’infanzia o nell’adolescenza ciò provochi conseguenze molto negative e un comportamento di emulazione. Mentre un tempo l’infanzia era maggiormente tutelata rispetto a discorsi o problemi adulti, ora molto di meno, sia in famiglia sia per trasmissioni televisive “assorbite” senza accompagnamento adulto, e ci sono oggi ricerche che confermano il fatto che bambine e bambini più piccoli possano avere dei disturbi, quasi delle alterazioni, a livello neurologico, quali disturbi dell’attenzione o della memoria, difficoltà scolastiche, che possono essere legate a questo tipo di violenza verbale che subiscono o a cui assistono nel loro ambiente.

Dopo la relazione di Federica Guercio, molte sono state le domande dal pubblico, che ha molto apprezzato l’incontro, e le risposte da parte delle esperte, per le quali si rimanda all’ascolto del webinar, possibile sulla pagina fb di Reti culturali, su cui si possono riascoltare anche tutti gli altri incontri del ciclo Cambiamo discorso, con le interviste alle relatrici, nella rubrica Conversazioni di questa rivista online Vitamine vaganti.

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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, tiene corsi di aggiornamento per docenti, in particolare sui temi delle politiche di genere. È referente provinciale per Lodi e vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile. Collabora con Se non ora quando? SNOQ Lodi e con IFE Iniziativa femminista europea. È stata Consigliera di Parità provinciale dal 2001 al 2009 e docente di filosofia e scienze umane fino al settembre 2020.

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