Una cura per noi e per questo mondo è possibile?
Elena Pulcini risponderebbe di sì a questa domanda.
Nata all’Aquila nel 1950, ha insegnato Filosofia morale presso l’Università di Firenze e qui è morta il 9 marzo 2021 per complicazioni dovute al Covid.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale (2001), Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura (2003), La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale (2009), Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale (2020).
Come si nota dai titoli, Elena Pulcini è convinta dell’importanza che le passioni giocano non solo nella vita dei singoli, ma anche come collante sociale. Considerate tradizionalmente un pericolo, forze irrazionali da reprimere se non da cancellare completamente, a esse Pulcini attribuisce invece un ruolo essenziale anche per la costruzione di legami sociali.
La sua ricerca, condotta attraverso un’interlocuzione serrata con le filosofie del passato e del presente e in un confronto continuo con realtà e movimenti sociali-politici contemporanei, affronta, senza sconti, domande essenziali, non più rinviabili. La sua è, a mio parere, la migliore smentita dell’opinione ricorrente che vede nella filosofia una disciplina lontana dai problemi e dalle preoccupazioni di donne e uomini comuni, stantia e inutile.
Per presentare le sue idee ho immaginato un’intervista, che non esaurisce certo il suo pensiero, ma ruota intorno ad alcune domande cruciali e l’ho costruita, spero fedelmente, con molte citazioni e riferimenti diretti ai suoi testi.

Prof. a Pulcini, come descriverebbe la condizione umana?
È caratterizzata dalla fragilità, da ontologica vulnerabilità, da una costitutiva “mancanza”. L’identità individuale non è un “a-priori”, non è già data né si costruisce in maniera autonoma, per entrare, solo dopo, in contatto con il prossimo; al contrario noi abbiamo origine nella relazione: l’individualità, che è apertura, movimento, costruzione continua, si forma nell’essere-con, nel confronto (che può anche essere conflittuale) con l’altra/o.
Cosa sono le passioni?
Credo che le passioni non siano forze irrazionali, ma elementi che motivano all’azione e hanno anche un valore cognitivo-valutativo; sono durature e in questo si distinguono dalle emozioni, che hanno una natura transitoria. Una loro caratteristica è l’essere imprevedibili, ambivalenti: una passione positiva come l’amore può anche distruggerci; la vergogna, che percepiamo come negativa ma che ci fa preoccupare del giudizio altrui, può riattivare una dimensione etica.
L’empatia – riscoperta dalle neuroscienze oggi e già investigata da Hume e Smith nel Settecento e poi da Scheler, Stein e altre/i – ci fa «sentire dentro» l’altra/o e costituisce la base di quelle passioni che permettono di costruire legami sociali. Esse sono radicate nella struttura antropologica delle persone e perciò possono costituire delle basi forti per l’etica.
Uno dei suoi libri s’intitola L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale. Perché avviene questo? Che cosa caratterizza il rapporto con l’altra/o nell’età moderna?
La filosofia liberale settecentesca ci ha tramandato il modello dell’homo œconomicus autonomo, razionale e calcolatore. Tuttavia, se s’indagano a fondo i filosofi della prima modernità, si può constatare che l’homo œconomicus non è soltanto razionalità, anzi è mosso da passioni forti. La passione dell’utile e «il desiderio di possedere più del necessario» costituiscono il suo nucleo emotivo; essi, espandendosi, acquisiscono un «carattere espansivo e illimitato» che porta al trionfo dell’individuo acquisitivo e prometeico tipicamente ottocentesco. Quello che ho definito «individuo senza passioni» emerge nel XIX secolo. L’uguaglianza perde la tensione ideale e rivoluzionaria che aveva nei secoli precedenti; nella società capitalistica matura, è vissuta unicamente come possibilità di godere di beni materiali, produce indebolimento dell’Io, passione del benessere, desiderio – solo apparentemente contraddittorio – di emulare e di distinguersi dalle altre e dagli altri, ma senza lottare per questo. Emergono passioni tristi: invidia, inquietudine, superficialità, inconcludenza, culto del presente e indifferenza al futuro.
Anche il rapporto con l’altra/o viene distorto da questa logica: nell’età liberale «l’altro è visto come nemico o rivale nella corsa al potere, alla ricchezza alla distinzione (homo oeconomicus); mentre, in una seconda fase scandita dall’intervento della democrazia, l’altro diventa un soggetto opaco e indifferente, puro specchio della proiezione narcisistica di un Io indebolito nelle proprie stesse passioni (homo democraticus), [in questo secondo caso] il legame sociale è corroso e messo in crisi dall’apatia d’individui atomisticamente chiusi in una sterile logica identitaria» (E. Pulcini, L’individuo senza passioni, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 176).

È possibile uscire da questa impasse? Come si può passare dall’homo œconomicus all’homo reciprocus, di cui parla nel testo?
Bisogna accendere la «passione del dono». L’homo reciprocus può superare l’unilateralità di un paradigma basato sull’utile e sullo scambio, attivando le dimensioni del dono e della cura, liberate da ogni aura sacrificale. La consapevolezza dell’essere tutti in debito – se non altro per aver ricevuto il dono della vita – apre la possibilità di creare una rete di relazioni e di restituzioni, che non si regge sul principio dell’equivalenza del valore. Il dono può essere asimmetrico e rivolto anche agli estranei (basti pensare alla donazione del sangue o alle banche del tempo), è l’«atto libero e gratuito» per eccellenza, ma non è immotivato; la scommessa consiste nel credere che l’umanità non sia animata solo da interessi egoistici e dal desiderio di arricchirsi, ma anche da quello del legame, che gli esseri umani «agiscano anche spinti da un insieme di motivazioni, come la generosità e il desiderio di dare, l’alleanza e l’amicizia, che fanno del legame sociale il fine stesso dell’azione». (ibidem, p. 177).
La dimensione della cura, tradizionalmente affidata alle donne, ha molto in comune con quella del dono.
Il tema della cura, nella sua duplice accezione di preoccupazione e sollecitudine, è presente in molti momenti del pensiero antico e moderno, ma è innegabile che essa venga assai spesso identificata con una funzione per eccellenza femminile e con una dimensione oblativa e di totale dedizione, che ha portato alla sua marginalizzazione e svalutazione. La riflessione femminista (Gilligan, Tronto, Kittay, Butler e altre) ha lavorato a lungo su questo tema e proposto un’etica della cura, che può nascere solo dal riconoscimento della propria fragilità: in quanto consapevole della propria costitutiva dipendenza l’Io è motivato a costruire una diversa relazione emotiva con l’altra/o che non sia né utilitaristica né sacrificale.

Un capitolo del suo ultimo libro Tra cura e giustizia ha come titolo “Cura versus giustizia o cura e giustizia?” Può esserci l’una senza l’altra? Sono entrambe sorrette da passioni?
Abbiamo bisogno di entrambe. La giustizia si fa carico della difesa dell’uguaglianza e di diritti imprescindibili ma rischia di rimanere «troppo inflessibilmente astratta», laddove la cura coltiva e protegge relazioni di fiducia. Essa deve essere svincolata da una dimensione puramente sentimentale e privata, le va riconosciuta una dimensione pubblica e universale, pratica e perciò politica. Insomma l’integrazione tra le due visioni è necessaria, tanto più oggi «di fronte alle sfide inedite dell’età globale (dal cambiamento climatico, al rischio nucleare […] dalle migrazioni forzate […], all’aumento di povertà e disuguaglianza), che ci impongono di evitare sterili discussioni metaetiche per misurare invece l’etica sui destini del mondo». (E. Pulcini, Tra cura e giustizia, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, p. 38). Quanto alle passioni della giustizia, noi proviamo empatia e compassione di fronte a situazioni d’ingiustizia che umiliano le persone, «in quanto percepiamo il loro bene come parte costitutiva del nostro stesso bene e dei nostri stessi fini, che sono quelli di vivere in una società decente, nel rispetto della dignità di tutti» (ibidem, p. 38). Intervengono anche altri sentimenti: il risentimento (reazione a torti che ci sono inflitti), l’indignazione (reazione a torti che sono inflitti ad altre/i); anche l’ira, come scrive Nussbaum, può diventare «una forza fondamentale per la giustizia sociale e la difesa degli oppressi».
Quali passioni per una buona cura?
Il presupposto è essere consapevoli che la condizione di vulnerabilità è comune a chi riceve la cura e a chi la presta; servono empatia, che di per sé è eticamente neutra, ma che costituisce l’emozione originaria, attenzione per l’altro, generosità e gratitudine, sempre rivendicando il diritto all’amore di sé e coniugando l’attenzione verso il prossimo col rispetto per sé.

Ci può essere in questo un ruolo specifico per le donne oggi?
«La cura non è l’attitudine biologica di un soggetto che trova la propria naturale vocazione nell’oblio di sé e nella dipendenza dall’altro, ma si configura al contrario come la scelta libera e consapevole di un soggetto che è capace di coniugare autonomia e dipendenza, libertà e relazione. Si può supporre che proprio in virtù della loro secolare familiarità con questa dimensione, le donne possono avere un accesso privilegiato all’attenzione e alla sollecitudine verso l’altro; purché però siano capaci di disalienare la cura e di assumerla liberamente a partire dal riconoscimento del suo valore universale. Esse possono […] trasformare la loro tradizionale condizione di soggette alla cura agendo attivamente e volontariamente come soggetti di cura». (E. Pulcini, Cura di sé, cura dell’altro, Thaumàzein, 1, 2013)
I processi di globalizzazione hanno portato a mutamenti significativi nella figura dell’altra/o: come rapportarci a chi è distante nello spazio e nel tempo? Perché abbiamo degli obblighi nei loro confronti?
La nostra epoca ha rafforzato i legami d’interdipendenza tra luoghi, Paesi e persone e ha moltiplicato le figure dell’altra/o: tra queste ci interrogano proprio le generazioni future – l’«altro distante nel tempo» – e l’«altro distante nello spazio»; penso a chi abita in Paesi poveri, alle vittime di catastrofi, allo «straniero che viene per restare» e la cui presenza può suscitare emozioni negative come paura o risentimento (che non devono essere negate ma analizzate). In questi due casi la questione dell’obbligo morale appare più complessa. Anche qui possono soccorrerci l’empatia, la compassione, l’indignazione, ma soprattutto il riconoscersi parte di un’unica umanità (ciò che Etti Hillesum definiva «l’amore elementare per l’umanità») e di «una comunità transgenerazionale».

Nella situazione attuale, che lei ha anticipato con lucidità profetica, c’è spazio per l’ottimismo? E quale può essere il ruolo della filosofia?
Dobbiamo rinunciare a una filosofia senza mondo, e costruire una filosofia per il mondo, una filosofia d’occasione, per usare l’espressione di Günther Anders, che recuperi la preoccupazione politica per il destino dell’umanità, che sappia porre le giuste domande, anche e soprattutto quando sono scomode, che sia capace di snidare le aporie e gli elementi degenerativi di un mondo in crisi. Abbiamo rimosso la consapevolezza della vulnerabilità costitutiva dell’umano, ma il moltiplicarsi delle differenze e delle frammentazioni nel mondo globale e l’arroccarsi d’identità contrapposte mettono a rischio l’esistenza stessa dell’umanità: la pandemia del Covid-19 (e oggi, la guerra) possiede «i requisiti di una catastrofe globale». Per «generare il futuro» è necessario costruire un soggetto emozionale, che educhi le passioni, capace di inclinarsi (come scrive Adriana Cavarero) verso l’altra/o, aprendo i confini del sé e dando forma «a un nuovo immaginario di libertà». Dobbiamo prenderci cura della nostra vita emozionale, «contrastando le passioni negative con dosi massicce di passioni empatiche da iniettare nel corpo sociale. […] Le passioni insomma formano il cemento emotivo del quale non si può fare a meno se si vuole produrre quella metamorfosi che è capace di stimolare e alimentare la nostra legittima domanda di giustizia e la nostra capacità di cura, fondamenta necessarie di quello che possiamo ancora chiamare […] un mondo migliore». (Tra cura e giustizia, p. 177).
In copertina: Elena Pulcini.
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Articolo di Angela Scozzafava

Si è laureata in filosofia della scienza con il prof. Vittorio Somenzi e ha conseguito il Diploma di perfezionamento in filosofia. Ha insegnato — forse bene, sicuramente con passione — in alcuni licei. Ha lavorato nella Scuola in ospedale, ed è stata supevisora di Scienze Umane presso la SSIS Lazio. Attualmente collabora con la Società Filosofica Romana; scrive talvolta articoli e biografie; canta in cori amatoriali e ama i gatti.