«Ti scrivo, mia cara sorella, e forse nemmeno dovrei.
Ti chiamo “sorella” e pare che io faccia una violenza alla storia, mia e tua, che ha deciso ormai secoli fa di darci dei ruoli definiti e assolutamente distinti, che a trovarci un contatto si rischia solo di infettare ancora una piaga che non ha mai smesso di suppurare.
Mi chiamo Seynabou e scrivo dall’isola di Gorée, davanti alla costa occidentale del continente africano. Una macchia di terra abbracciata dall’oceano, talmente piccola che sembra essere uno strappo nella salata distesa celeste; un errore, un incidente, come se, a un certo punto, al pittore fosse finita la tinta e sulla tela fosse rimasto uno sputo grezzo che, nell’uniformità del colore, stride e infastidisce.
E, a pensarci bene, tutto ciò che qui è successo può definirsi soltanto così: un abominevole e orribile incidente, un inceppo nel meccanismo che regola le menti e le anime umane che, nel guardare i nostri corpi e la nostra pelle, non si sono riconosciuti.
Gorée è stata un emporio, una fiera, un fondaco nel quale, nei secoli precedenti, gli europei venivano a fare spesa e affari, scambiando stoffe, liquori, manufatti, perline, armi da fuoco con mercanzie di ben altra fattura. Compravano schiene, gambe, braccia, tendini, muscoli, nervi. Compravano il futuro di donne, uomini, bambine e bambini e lo avvolgevano e stringevano come una garrota intorno ai loro colli e ai loro respiri. Noi, negre e negri. Voi, bianchi. Una partita a scacchi ovviamente impari: pedoni immobili contro cavalli, torri e alfieri che potevano spostarsi ben oltre i limiti della plancia di gioco. Ben oltre i limiti dell’umano. E così il mio popolo, ombra e margine del mondo raccontato e costruito dagli europei, si è trovato invece fulcro di rotte che mai avremmo voluto conoscere. Eravamo il passaggio obbligato verso l’America. Obbligato anche per noi, che venivamo caricate e caricati sulle navi come pezzatura di bestiame e, se eravamo abbastanza forti da sopravvivere a queste bare fatte di scafo e sartiame, perdevamo tutto ciò che di umano avevamo, nascosto, pareva, dalle catene e spellato via dalla frusta. È per questo, mia cara sorella, che scriverti è per me un grande atto di amore. La mia missione è parlare alla mia gente, far trovar radici e insegnare anche ad allontanarsi da esse, senza però mai perdere lo sguardo alto rivolto al sole. Però, la tua mano tesa nell’universale richiesta di pane, ha tinto la tua pelle di scuro. E io ti ho riconosciuta anche al di là di quei confini che il tuo popolo fa valere a piacimento e che, nel movimento inverso, ha attraversato senza limite alcuno. È per questo che desidero rispondere alla tua richiesta parlandoti del pane, a condizione però che tu poi racconterai di me e della storia che sto per narrarti. La ripeto spesso, nel mio girovagare ininterrotto per la terra africana, seduta al tavolaccio di legno tarlato che mi porto sempre dietro, caricato sulle spalle come uno scudo e una meridiana, e sul quale cucino, consumo e condivido il pane.
Nel 1753 nacque, forse in questa regione, una bambina. All’età di sette anni, acerba del mondo, venne rapita dal mercante di schiavi Timothy Fitch e caricata, nuda, su una nave capitanata dal comandante Peter Gwinn e diretta negli Stati Uniti. Giunta nella città di Boston, fu acquistata dal facoltoso sarto John Wheatley che la comprò per aiutare sua moglie, Susannah Wheeler, nelle faccende domestiche. I nuovi proprietari, non sapendo come si chiamasse, la ribattezzarono Phillis, dal nome della nave che dall’Africa l’aveva condotta in America, dopo un viaggio di duecentoquaranta giorni e ventuno morti gettati in mare. Messa in esposizione con il suo piccolo corpo di bambina, come una vitella da allevamento, ebbe la fortuna, nell’estrema tragedia, di finire in seno a una famiglia che iniziò ben presto a volerle bene. Phillis era estremamente magra, asmatica e tubercolotica e i Wheatley, che forse vedevano in lei la figlioletta morta poco tempo prima, la accolsero, la curarono e le insegnarono a leggere e scrivere, ovviamente in inglese. In poco tempo, la ragazzina si appassionò alla poesia e alla letteratura. Studiò greco, latino, storia, geografia e le Sacre Scritture insieme ai gemelli Mary e Nathaniel, figli della coppia. E, soprattutto, iniziò lei stessa a comporre versi. Aveva tredici anni. Le sue opere finirono per essere pubblicate sui giornali cittadini. Phillis, però, era una schiava, era donna ed era una nera. E nessuno, in una società che vietava per legge che gli africani e le africane potessero istruirsi, credette che quelle poesie fossero frutto del suo sentire. A vent’anni finì in tribunale, interrogata da una corte di diciotto uomini, eleganti e imparruccati, che le chiesero di recitare a memoria versi di Virgilio, di Milton e alcuni passi della Bibbia. E, sulla Bibbia, dovette giurare di non essersi macchiata di plagio, lei, prova vivente di un crimine che dovrà chiedere, ancora e per sempre, conto a Dio e agli uomini.
Alla fine, dopo ore di processo e probabilmente a malincuore, la corte le diede ragione. Phillis era una schiava, una donna, una negra e una poeta.
Io so che la società avrebbe voluto dire “nonostante”. Ma, no, sorella mia. Non c’è avversione. C’è invece coordinazione, unione, conseguenza. Phillis Wheatley fu donna, nera, schiava e, proprio per questo, poeta.
Il suo riconoscimento le portò la libertà: era il 18 ottobre del 1773. Nel marzo 1776 fu ricevuta dal generale Washington e, durante la Guerra d’Indipendenza Americana, fu una grande sostenitrice della causa degli Stati Uniti.
Sposò John Peters, un nero libero che faceva il droghiere e, da questa unione, nacquero tre bambini, due dei quali morirono prematuramente. Dopo poco il marito decise di lasciarla e Phillis Wheatley si guadagnò da vivere lavorando come domestica. Fu così che finì la sua vita, nel 1784, in una misera pensione, insieme all’ultimo figlio, che morì poche ore dopo di lei. La sua esistenza terminò come, forse, la società avrebbe voluto trascorresse: all’ombra, nell’anonimato e nel silenzio di chi non può nemmeno permettersi di avere un nome.
Ci pensi, sorella mia? In questa storia, conosciamo quelli di tutti. Sappiamo come si chiamava lo schiavista, il capitano negriero, il sarto che acquistava schiavi, la moglie, i due gemelli, persino i giudici. Ma il suo, di nome, il più importante, è stato buttato via nelle acque salate dell’oceano, smarrito la notte che le sue radici sono state divelte dalla terra africana.
È per questo che mi sono assunta il compito di parlare di Phillis Wheatley a chiunque voglia ascoltarmi, ovunque, perché il suo riscatto e la sua rivoluzione non vadano perduti così come è successo alla sua nascita.
Giro con il mio tavolaccio sulle spalle e, quando mi fermo in un posto, impasto il pane. E, mentre impasto, racconto della nostra meravigliosa poeta, la prima dell’intera letteratura afroamericana.
Mischio una tazza e un quarto di farina, due terzi di tazza di farina di miglio, mezza tazza di farina di mais giallo, un terzo di tazza di farina di fagiolo dall’occhio, una tazza e mezza di acqua calda, tre cucchiaini di lievito e uno di sale. In una ciotola, unisco tutte le farine. Aggiungo poi il sale, il lievito e l’acqua. Mescolo bene e lavoro l’impasto per qualche minuto fino a renderlo liscio ed elastico. Faccio lievitare fino al raddoppio. Dopodiché taglio il panetto in tre parti e formo delle piccole baguette che, adagiate nella teglia, faccio riposare per altri trenta minuti. Infine, faccio un taglio lungo e poco profondo sopra ogni pagnotta e inforno a 220 gradi per quindici minuti.
Questo è il nostro pane, la nostra tapalapa.
Ancora caldo, lo spezzo e lo condivido con chi abbia voglia di ascoltarmi. La gente ha bisogno di sentire questa storia e io ho bisogno di raccontarla. Così come ho bisogno di avere con me, sempre, il mio tavolo.
Sai, anche i miei antenati erano schiavi. E la prima cosa che fecero quando riuscirono ad affrancarsi, fu di unire due assi ammuffite per poter, così, mangiare sollevati da terra. La schiena dritta e la polvere lontana sono cose a cui non posso rinunciare, a cui non voglio rinunciare, mai. Perché ci sono stata tolte. Perché, invece, ci sono sempre appartenute.
Credo sia giunto, ora, il momento del congedo. Qui si sta alzando il terribile vento dell’harmattan e io devo trovare riparo.
Ti auguro buona fortuna, sorella mia. Buona fortuna, buon pane e buona poesia.
Mangi dem».
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.