Isabella Borrelli è digital strategist, femminista e attivista LGBTQA+. Per Ladynomics è una delle 140 femministe italiane del 2019. Per Startup Italia è una delle 1000 donne che stanno cambiando l’Italia e nel 2022 vince i Rainbow Awards per la comunicazione.

Chi sei, che cosa fai?
Sono una strategist, quindi mi occupo delle strategie di comunicazione per brand, istituzioni o organizzazioni e sono un’attivista, femminista e LGBTQA+.
Quando e come ti sei avvicinata alle tematiche del femminismo?
Io ho sempre amato la politica, quindi ho sempre ricercato anche l’azione politica, qualsiasi cosa questo voglia dire per una persona di tredici anni, di sedici anni o di diciassette anni. All’interno del mio percorso di studio di scienze politiche sono rientrate le gender politics ed è stato poi un percorso che ho approfondito ulteriormente con docenti, tesi e lavori; diciamo che l’approccio poi è stato innanzitutto lo studio della pratica, quindi pian piano portare la pratica all’interno della mia vita.
Per quanto riguarda invece le questioni LGBTQA+?
Più o meno il percorso è stato simile. Ma con una differenza: le donne in quanto donne penso che imparino col tempo a percepirsi come parte di un gruppo e magari ci mettono di più a comprendere di essere una comunità. Mentre nella comunità LGBTQA+, nel momento in cui c’è un percorso di consapevolezza, di ricercare, di stare insieme, c’è anche un grandissimo lavoro introspettivo di decostruzione personale. Questo avviene perché, al di là dello studio, diventa in qualche modo forse necessario o importante per conoscere sé stesse, per capire che ci sono altre persone come te, poiché molto spesso all’inizio si ha la percezione opposta, cioè che nessuno è come te, nessuna ama come te, nessuna si identifica come ti identifichi tu. Si è costrette diciamo a confrontarsi in maniera assai forte fin da subito, anche con tematiche politiche importanti.
Dove e come nasce il pride?
Qualche volta si perde un po’ di vista o forse non si sa o non si ricorda da dove nasce il pride, perché ha questa forma così gioiosa di festa, di esultanza, in cui si balla, si canta e ci si veste anche in maniera esuberante, questo perché è molto connaturato nella storia del movimentoLGBTQA+. Voi sicuramente saprete dei moti di Stonewall Inn, a New York, del 27-28 giugno 1969 dove appunto, in un clima di violenta repressione della comunità LGBTQA+, la polizia faceva tantissime incursioni all’interno dei club e dei locali dove si riuniva la comunità, fondamentalmente perseguendo, arrestando, portando in carcere, anche insomma picchiando le persone presenti. Una sera appunto avviene quello che è chiamato “l’inizio dei moti di Stonewall” in cui tre donne hanno dato inizio alla ribellione. Nello specifico Masha Johnson e Sylvia Rivera, due trans, e Stormé De Larverie che è una butch hanno cominciato a ribellarsi alla polizia e ovviamente qui la leggenda un po’ sfuma, chi dice lanciando una scarpa col tacco da parte di Sylvia, o di un mattone da parte di Masha, contro un poliziotto da parte di Stormé. Quindi immagina una settimana in cui sei in un club, in un clima in cui tu vieni perseguito per il semplice fatto di essere LGBTQA+, arriva la polizia a caricarti e ti colpisce: c’è un momento di stallo molto forte, in cui tu sei solamente vestito o vestita, che so, con l’abitino con cui sei andata a ballare e dall’altra parte hai i poliziotti in tenuta antisommossa. Durante la settimana accorreva sempre più gente della comunità (e quindi interveniva sempre più polizia) per darsi coraggio in un momento così carico di tensione, in cui fondamentalmente non sai nemmeno quante ne prenderai, se tornerai a casa o ti succederà altro.
Diverse Drag Queen, che erano appunto al bar Stonewall Inn, iniziarono a cantare e a ballare unite alle loro compagne e ai loro compagni, aspettando le cariche, per spezzare la paura. È per questo che poi è rimasta all’interno del pride la dimensione del ballo, del canto, dell’essere gioiose/i, anche per far presente che noi felici lo siamo sempre, al di là di quelle che possono essere le narrazioni fatte della comunità LGBTQA+ all’esterno, però così si ricorda che in qualche modo la nostra è una lotta anche gioiosa delle nostre identità.
Per quanto riguarda, invece, le questioni della socializzazione femminile e maschile in Italia, cosa ci puoi dire?
La socializzazione femminile e la socializzazione maschile qui da noi sono diverse da quelle che ci possono essere in un qualsiasi altro Paese. Questo perché si tratta di un costrutto sociale e ogni società costruisce quelle che sono le strutture di socializzazione di un genere e dell’altro. Aspettative, ruoli, identità, espressione di genere, anche destino di genere, come per esempio un destino riproduttivo. Queste sono basate sulla società, se la società cambia, cambiano anche il costrutto di genere e l’idea di genere.
Quindi, quando si parla di identità di genere, si parla sempre appunto di qualcosa in riferimento alla società in cui ci troviamo, non a qualcosa di trascendente rispetto a noi, cioè che è al di là di noi, che esiste sia che noi esistiamo sia che non esistiamo. Non-binarismo significa non riconoscere questa dicotomia: voi avete costruito questa dicotomia ma io non la vedo per me. È un’altra concezione, noi ovviamente siamo nate/i e cresciute/i all’interno della società, quindi non riconosciamo nemmeno più quali sono le strutture del genere a noi assegnato, però per esempio cisgender, dal punto di vista semantico, vuol dire questo: una persona che si riconosce nella socializzazione di genere assegnata alla nascita e non ha a che fare nulla col sesso genetico o con i genitali, ma con quelle aspettative, quei ruoli, quell’identità che a livello sociale vengono proiettate su di essa.
Di che cosa ti occupi quindi all’interno della comunità?
Che cosa faccio io all’interno della comunità?! Tante cose, come spesso succede per tutte e per tutti e sicuramente essendo un’attivista mi occupo di una parte culturale di talk e dibattiti. Poi presento e modero eventi anche fuori dalla comunità; quindi mi viene fatto l’onore di gestire alcuni format culturali, perché c’è sempre stato in me questo desiderio, portato avanti prima nei miei spazi online, di cercare di far conoscere la cultura e la storia, l’attivismo, le persone che fanno parte di questa comunità fuori dalla comunità. Poi c’è tutta una parte “danzereccia”, da poco performo come Drag King. I Drag King sarebbero il corrispettivo delle Drag Queen per una socializzata donna, che quindi si veste da uomo, all’interno di quello che è il format di latte fresco oppure nel format di Ritual, dove mi occupo della parte culturale o anche di tantissimi altri eventi a cui partecipo.
Quanto è importante parlare di educazione all’affettività e alla sessualità all’interno delle scuole?
È importantissimo parlarne, anzi io spero in futuro che lo si faccia a partire dalla scuola dell’infanzia e, ovviamente a seconda dell’età, lo si fa in modo diverso; per esempio, all’interno della scuola primaria troverei assai bello se si parlasse del concetto di intimità e di consenso, cioè far capire che magari gli altri bambini e le altre bambine non sono autorizzate a toccarti e abbracciarti; è una cultura che noi abbiamo molto introiettata, noi insegniamo che per ringraziare bisogna dare un bacetto, o che ci si può far toccare da dei perfetti estranei che passano per strada. Per questo già da lì noi instilliamo il seme della non consensualità nei rapporti tra corpi, cioè che esiste un’area di intimità in cui noi decidiamo ingenuamente di far accedere qualcuno o qualcuna e penso che molte delle problematiche che ci troviamo ad affrontare, se non delle vere e proprie piaghe come i femminicidi, la violenza di genere e in generale la cultura dello stupro, derivino direttamente dalla mancanza di educazione al consenso. Si parla tanto, ovviamente, di lotta alla cultura dello stupro, ma una parte molto importante invece è la costruzione della cultura del consenso sia da bambine, sia da adulte. Capire qual è la nostra sfera intima e capire il consenso come funziona, in modo da educare anche i nostri gesti, soprattutto nei confronti delle altre persone. Siamo sicure/i che quel gesto che abbiamo fatto aveva il pieno consenso da parte dell’altra persona? che andava bene comportarci in quel determinato modo? è un momento anche di riflessione su noi stesse e su noi stessi.
Quanto è importante la rappresentazione nei media dell’arte per conoscere sé stesse/i?
Quanto è importante la rappresentazione nei media dell’arte per conoscersi? Piuttosto, secondo me, per riconoscersi. Il fatto di non vedere mai rappresentate le storie reali o anche di gioia compiute da quel punto di vista, fa sì che le altre persone percepiscano con paura e con una serie di stereotipi che interiorizzano quella comunità marginalizzata; non è un caso, secondo me, che per molti genitori di ragazze/i LGBTQA, banalmente anche mia madre, la prima volta che si fa coming out, quindi si parla del proprio orientamento sessuale, una delle principali osservazioni è dire «siamo preoccupati per te, abbiamo paura che tu possa essere sola» oppure «temiamo che tu non possa trovare un lavoro». Questo deriva dalla rappresentazione e dalla non rappresentazione che c’è della comunità LGBTQA+, dal racconto che se ne fa e quindi l’importanza della rappresentazione anche in relazione a ciò.
Il potere da una parte è sicuramente quello di avere la possibilità di riconoscersi, ad esempio per me ha giocato un ruolo il fatto di non vedere mai una rappresentazione di donne bisessuali o lesbiche all’interno dei prodotti che conoscevo da bambina, non mi aiutava a pormi semplicemente delle domande, delle cose che sentivo e che pensavo solo che fossero strane o che non fossero corrette o che non potessero avere un corrispettivo. Crescendo mi abituavano all’idea che, pur avendo dei desideri, pur riconoscendo la mia identità, questa non potesse portare ad avere una relazione stabile o a un matrimonio, se è quello che una/o desidera, o ad avere figlie/i, e ciò è un fatto molto potente.
Poi c’è un secondo aspetto: per chi non è parte di quella rappresentazione, il fatto di non vedere mai rappresentate delle storie reali o anche di gioia o compiute da quel punto di vista, fa sì che le altre persone percepiscano con paura e con una serie di stereotipi che interiorizzano quella comunità marginalizzata. Basti pensare al ruolo incredibile che ha avuto a livello sociale sulla nostra cultura un film come Billy Elliot, per esempio, da un punto di vista pratico.
Oppure l’importanza di vedere delle persone famose e con incarichi istituzionali, politici, star o di altro tipo essere out, quindi essere dichiaratamente LGBTQA+: ciò aiuta tantissimo a vedere chi è LGBTQA+ come una persona felice, che ha degli amici, che ha un lavoro che può realizzare i suoi sogni. Per esempio, la sigla LGBT si è modificata: inizialmente era GLTB poi si è spostata la L in avanti perché durante l’olocausto dell’Hiv, dell’Aids, le attiviste lesbiche hanno avuto un ruolo importantissimo nel donare sangue per tutte le persone malate; quindi in tributo alle lesbiche che hanno lavorato come infermiere e hanno donato il proprio sangue, il movimento ha spostato la L come prima lettera dell’acronimo.
Grazie all’Associazione VenUs di questo spazio, di questa voce.
Vedi qui la video intervista https://www.instagram.com/venus_urbanart/
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Articolo di Livia Fabiani

Livia Fabiani vive a Roma, dove si laurea in Architettura alla facoltà di Roma Tre. La sua passione per l’arte e il territorio trovano sintesi ideale nella Street Art. Curatrice indipendente di mostre e murales, dal 2020 è presidente dell’Associazione VenUs per promuovere l’empowerment femminile attraverso l’arte urbana.