“Andrà tutto bene” 

Ve li ricordate i tweet sui social e gli striscioni sui balconi con cui cercavamo di rassicurarci? Era auspicio o esorcismo, ottimismo o incoscienza? 

Non è andato tutto bene, al contrario è andata sempre peggio. Il 2022 è stato un annus horribilis, anno bellico e bellicista che ha visto sullo sfondo lo spettro inconcepibile ma non impossibile del nucleare. Gli anni che ci lasciamo alle spalle hanno stravolto equilibri geopolitici, libertà personali e diritti umani, economie pubbliche e bilanci familiari. Si è battuto un solo record: la spesa per le armi. 

La pace è finita, titola l’ultimo libro di Lucio Caracciolo. 

Dopo la guerra al virus (in realtà mai vinta, si ripropone minacciosa) è venuta quella sul terreno, sanguinosa inutile inaccettabile come tutte le guerre. L’abbiamo sentita vicina più di ogni altra, le abbiamo dato rilievo dimenticando tutte le altre, eppure adesso ci siamo abituati: le immagini di orrore che scorrono sugli schermi sembrano tutte uguali.  

Prevale l’abitudine alle morti in mare, alle morti sul lavoro, ai suicidi in carcere. Qualche numero e via. Ci si abitua alla strage delle donne che troppa stampa continua a definire morte per amore. Il degrado morale intorno ai diritti umani, testimoniato in ultimo dagli scandali di Bruxelles, ci lascia solo perplessità. 

+21 gradi a Catania, -57 a New York? È catastrofe climatica ma vediamo in Tv facce contente di fare il bagno in mare a Natale. Eppure scienziate e scienziati avvertono che trasformazioni irreversibili dei sistemi naturali e della società possono diventare inevitabili in assenza di strategie radicali che invertano la rotta. Il culto del profitto le proclama impensabili. 

Mentre la Costituzione nata dalla Resistenza antifascista compie 75 anni c’è una donna, la prima nella nostra storia, a capo del governo. È lì a nome dei suoi richiami identitari, chiari e potenti; chiama il Paese “nazione”, è orgogliosamente di estrema destra e fa, com’è ovvio, politiche di destra.  

Le italiane e gli italiani o non sono andati a votare o hanno scelto di essere governati da chi liscia il pelo a chi evade le tasse (Mattarella l’ha detto più gentilmente di me) mentre affossa i servizi pubblici e anziché combattere le disuguaglianze, le nuove povertà, il lavoro senza qualità, l’aumento della forbice tra nord e sud, passa il tempo ad additare nelle ong (con il loro carico di umanità disperata) e nelle e nei giovani (con le loro aspettative e i loro disagi) i capri espiatori. Choc energetico e inflazione mangiano salari e pensioni, ma la riforma fiscale che si anticipa va in direzione opposta al principio di proporzionalità. L’avanzata dei diritti civili si blocca. 

Intanto le opposizioni si avvitano in convulsioni incomprensibili, troppo antiche per stupirci, troppo vecchie per indignarci, esprimiamo al massimo un po’ di moderato disgusto. 

Un quadro troppo amaro o semplice realismo? Non è gradito quando si festeggia il Capodanno? Toglie spazio alla speranza? 

La speranza è una cosa seria, se ispira a costruire. Reagire bisogna, ma non servono gli slogan, o meglio servirebbe prenderne sul serio uno: «I care»

Se c’è un augurio da fare all’Italia e dunque a tutti e a tutte noi per il nuovo anno è quello di trovare la forza di prenderci cura del Paese e del futuro dei nostri figli e figlie, rinunciando alla tentazione di rinchiuderci nello spazio asfittico del nostro orticello.  

Prendiamo i casi esemplari della mafia e del sessismo. Per ambedue c’è nel Paese una piccola minoranza che vi si oppone e li combatte, come c’è un’altra piccola minoranza che li appoggia e li condivide. In mezzo c’è la sterminata landa dell’estraneità: di chi si disinteressa, non se ne occupa, o non li vede o non gliene importa o li ritiene inevitabili. «Zona grigia»: così Primo Levi – e il termine è entrato nell’autobiografia dell’Italia – chiamava i contorni mal definiti, variegati da infinite sfumature, della categoria di coloro che in vario modo e a vario titolo e responsabilità collaborano per inerzia al funzionamento della macchina del potere, pur senza commettere nulla di illegale. 

È quella maggioranza incurante del bene comune, ignara di essere immersa fino al collo nella Storia, che determina le sorti collettive. Lì bisognerebbe lavorare a partire dalla coscienza diffusa, dall’aumento della consapevolezza, dalla coltivazione delle sensibilità. È più difficile farlo da quando sono state smantellate le sedi delle aggregazioni collettive, dell’elaborazione del pensiero politico, del riconoscimento di bisogni e interessi comuni. 

In Iran donne coraggiose, una nuova generazione, oppongono i propri corpi disarmati a un potere violento, soffocante e stupido che confidano di poter portare al suicidio. Inutile applaudire se non abbiamo la capacità e il desiderio di condurre qui rivoluzioni molto meno rischiose. 

***

Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: “C’è differenza. Identità di genere e linguaggi”, “Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo”, “Viaggio nel paese degli stereotipi”.

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