«Sii pronta alla tua bevuta mattutina, con quel vino dal color di perla, e mescilo puro; oh soave melodia al tuo orecchio! Guarda quelle arance nel paniere ricolmo, che s’avvicinano guancia a guancia; qual meraviglia! Bruciano accanto a noi carboni roventi, raccolti in un giardino».
(Ibn Hamdis, Le arance, in La polvere di diamante a cura di Andrea Borruso, Salerno, Editri, 1994).
Una salutare consuetudine, come bere una spremuta d’arance nella Sicilia araba di Ibn Hamdis, ci trasporta dai giardini verdeggianti dell’isola Wo die Zitronen blumen alle corti andaluse, lungo i muri a secco della Costiera amalfitana, sui tornanti della Costa Azzurra, nei giardini di zagare maghrebini fin nel bustan (in lingua araba, frutteto) del Levante.
Le rotte del Mediterraneo congiungono abitudini, usanze, tradizioni di popoli diversi in ogni epoca; frutti, ortaggi e cereali viaggiano sulle stesse rotte.
Cucinare, trasformare elementi semplici in combinazioni diverse, passando per tutti i punti che conducono dalla necessità di soddisfare un bisogno fondamentale: placare fame e sete, fino a rappresentare col cibo e il suo consumo, simboli e attitudini mistiche e religiose ancestrali. Il sapere e le conoscenze materiali e spirituali in questo campo sono affidate, dalle origini del mondo, alle donne.
La cucina lega natura e cultura: dalla produzione del cibo al suo consumo e nella sua condivisione. La cultura matrilineare irrimediabilmente perduta, del tempo evocato della Dea Madre, ha nel bacino del Mediterraneo eco e attualità. La cultura popolare e folclorica delle nazioni che si affacciano sulle sue sponde ne è inondata, e si rinnova giorno dopo giorno sulle tavole, durante le festività tradizionali, dal Marocco alla Spagna, dalla Grecia alla Siria, navigando sulle rotte del nostro mare comune.
I cibi e le ricette sono simili, mai eguali, legate alla fecondità e al mistero della morte e della rinascita della natura, alla produzione e riproduzione, alla crescita e al nutrimento; conoscenze che si tramandavano di madre in figlia. Pensare solo agli odori che sfuggono dalle cucine e si spandono oltre le porte e finestre, nelle silenziose strade bianche o nei rumorosi vicoli delle città mediterranee all’ora del pranzo, riconduce alla memoria collettiva ricette e profumi, verdure e ortaggi, spezie e ingredienti elaborati in modi identici o diversissimi.
Le terre che si affacciano sulle sponde del Mar Mediterraneo sono note dall’antichità come i Paesi dell’olivo, nel Medioevo arabo e cristiano come le regioni della fioritura delle zagare, e dall’età moderna come i Paesi dal pungente profumo di sughi rossi di pomodori, importati e non autoctoni, territori i cui denominatori comuni sono il principio della condivisione e la ritualità del cibo.
È un mosaico del gusto della vista e dell’odorato, ineguagliabile in qualsiasi altra regione della Terra. Oltre la materialità si percepisce la ritualità antichissima, ancestrale, che lega ogni popolo, che qui abbia soggiornato, alla valenza sacra del cibo. La madre natura e la terra feconda di frutti e grani coltivata dalle mani di uomini ma trasformata in nutrimento e cibo dalle pazienti mani delle donne, offrono pietanze tradizionali che raccontano di attenzione, rispetto e cura per la propria famiglia e per persone sconosciute, viaggianti e migranti.
Condividere, spezzare il pane, è il rituale più antico che questi lidi conoscano; non condividere pane olio e olive con l’ignoto viandante è segno inviso alle divinità. È rituale propiziatorio offrire pani d’orzo, cereali, olio alle divinità, e negli elenchi delle derrate, stoccate nelle celle dei principali santuari, l’archeologia reperta sempre questi alimenti: sale, vino e frutti.
Il pane inzuppato nell’olio con lo zatàr (deriva da una pianta selvatica aromatica simile al timo) spezia tipica della terra e della cucina di Palestina, condiviso in sorta di ritualità identitaria, diviene, per questa sua valenza simbolica ed emozionale, un piatto simbolo e un modo per conservare oggi l’identità del popolo palestinese che nella tradizione gastronomica, come in ogni altro ambito, rischia di essere cancellata.

In Sardegna, a Perdasdefogu, durante la festa de Sa Strangìa, è possibile assistere alla condivisione del cibo, in particolare di una tipologia di pane dolce, su pani urci, dalla pasta compatta e caramellata all’esterno, arricchito da semi d’anice, cannella, chiodi di garofano, noce moscata e finocchietto selvatico. Unico nel suo genere per via dei sapori mescolati sapientemente dalle mani delle donne foghesine che ogni anno riscoprono miti e riti antichi attorno ai più svariati valori simbolici, finanche un rapporto tra fede e panificazione. Un pane rituale, sacro e benedetto che non si vende; si dona a chi si ama e si rispetta, e meritevoli di rispetto sono considerati tutti coloro che a settembre accorrono a Sa Strangìa. Un rito di preparazione antichissimo che unisce sacro e profano, religione e paganesimo, preghiere e scongiuri e il cui punto di forza è rintracciabile nella distribuzione e condivisione dei pani. «Nel mistero del pani urci è, infatti, il paese-comunità a mostrarsi e a dire attraverso l’offerta del pane ai forestieri: «il mio pane è il tuo pane, ciò che è tuo è nostro e vostro». Non si tratta più di bere o mangiare semplicemente qualcosa perché si ha sete o fame. «Mangia con me» è un invito che implica e presume la presenza, durante il pasto, di un “sistema”, di un insieme di gesti non casuali né occasionali, legati l’uno all’altro da un filo sottile e solidissimo» (Carmen Bilotta, Ero straniero e mi avete accolto. Sa Strangìa di Perdasdefogu, una festa per lo straniero, una lezione di tolleranza – Mediterranea)
L’indifferenza all’altra persona e al suo bisogno primario di acqua e cibo è stigmatizzata come rottura del rapporto con Dio e con la Sua creazione del mondo, un mondo che chiarisce il grande storico tunisino Ibn Khaldun: «Dio ha donato al genere umano» (I. Khaldun, Discours sur l’histoire universelle. Al-Muqaddima, traduzione francese, Sindbad, Paris 2003).
Il vocabolario delle grandi civiltà mediterranee sottolinea la necessità della condivisione, che non è incondizionata, come il rifiuto categorico; a prescindere da ogni estraneità vigono nelle comunità tradizionali la mediazione, l’integrazione e la regolamentazione di questi due estremi, una scelta strategicamente vincente. Condividere il cibo, pane e vino, è un meccanismo di inclusione, di integrazione e di relazione tra autoctoni e “stranieri”. «L’atto nutrizionale si trasforma in rito sociale, quindi occasione di scambio, creazione di un vincolo, inclusione. Offrire del cibo, invitare qualcuno alla nostra tavola, condividere con lui il nostro pasto è segno di ospitalità e non di ostilità. Attiene a quelle forme di scambio simbolico che implicano in senso metaforico il deporre le armi, non considerare più l’hostis ma l’hospes».
In particolare ciò che accade con l’atto di convivialità alla stessa tavola, nel pasto che accomuna, nelle memorie antiche che ritornano, nella tradizionale ospitalità, nelle regole che sottendono a un pasto consumato insieme. Trova così ragion d’essere l’usanza di riservare sempre un posto all’ospite inatteso, angelo-viaggiatore o passante casuale, in coincidenza con le festività canoniche di tutto l’ambito del Mediterraneo.
La tradizione ebraica vuole che sul tavolo di Pesach (Alan Unterman, Dizionario di usi e leggende ebraiche, a cura di Anna Foa, Bari 1994) venga posto, oltre al bicchiere destinato al Kiddush, alla santificazione della festa attraverso il vino e il pane, un altro bicchiere d’argento pieno di vino, destinato al profeta Elia. Si dice che il profeta, durante la prima sera di Pesach, si aggiri fra le case per portare i suoi voti augurali alle famiglie che celebrano il Seder. Ogni famiglia spera e attende in quanto la tradizione afferma che sarà proprio il profeta Elia ad annunciare al mondo il giungere dell’Epoca messianica. Ci si augura che l’epoca della pace, dell’armonia, dell’amore fra tutti i popoli sia proprio lì, dietro la porta di casa, che viene lasciata aperta anche perché è detto: «chi vuole entri, mangi e celebri Pesach».

La tradizione del classico dolce della Quaresima a base di semolino e aromi diversi dall’acqua di mille fiori al cardamomo, anice stellato o bucce di agrumi, preparato ovunque nei Paesi mediterranei, identificato con cento nomi di halwa/helvé fino al napoletanissimo migliaccio dolce ripieno di amarena, non viene consumato tutto. In Macedonia, ad esempio, se ne conserva una porzione, pronta per un ospite inatteso. Buona norma dai Balcani alla Turchia conservarne una fetta sotto un tovagliolo bianco; è anche usanza cilentana custodita dalle persone più anziane.

Un magnifico affresco di ritualità comune è la tavolata che la scrittrice palestinese Suad Amiry descrive nel suo romanzo Damasco. Ecco tutta la magia del kibbeh (è una dizione affine a quella che designa il più noto kebab. I nomi derivano entrambi dalla radice del verbo arabo kbb: arrostire; kibbeh o kubbeh, sostantivi femminili derivati dall’arabo kibbah, gomitolo, palla, ci fa capire che si tratta di polpettine!) e il rituale del giorno di festa, il venerdì nei Paesi islamici, pranzo sempre improntato all’abbondanza in caso di impreviste condivisioni, che si colora di spezie dai mille profumi. È la Grande bouffe, con menù sempre diversi e un unico invariabile piatto: «Tuttavia l’elemento più delizioso e cerimoniale dell’intero pasto del venerdì era il kibbeh che comprende sette diverse portate! Una volta ben battuto ben mescolato e appiccicoso, era giunto il momento per modellarlo ad arte nelle sue sette varietà. Ed era a questo punto che la maggior parte delle donne si riunivano per dare una mano». Nel ricordo di Amiry il cerimoniale della preparazione è affidato alle eleganti donne della famiglia Baroudi che lasciano subito il campo alle domestiche per le mansioni più prosaiche come friggere, condire e servire. Questa descrizione di una famiglia siriana ci ricorda la prevalenza della cultura e della religione islamica nel Levante.
Dai riti festivi un altro rituale della condivisione del cibo si colloca in un momento temporale topico quello del digiuno, in arabo sawm. Durante il mese sacro di Ramadan il profeta Muhammad ricevé la rivelazione del Corano. Simbolicamente la comunità musulmana, astenendosi dal cibo in questo mese, si rigenera e si purifica, si nutre della parola divina.
Il digiuno di Ramadan, uno dei cinque pilastri della fede, prevede un rituale del cibo molto preciso perché è nel cibo condiviso che si concretizza il ringraziamento a Dio. Sempre presenti sulla tavola, al momento serale della rottura del digiuno, sono i datteri, spesso immersi o accompagnati da un bicchiere di acqua o di latte per preparare lo stomaco al pasto. Solo dopo si mangiano minestre, verdura, frutta e molti dolci con il miele, per reintegrare liquidi e calorie necessarie ad affrontare un’altra giornata senza toccare acqua e cibo, fino alle ombre della sera. La ritualizzazione dell’uso di questi alimenti precisi si ritrova nei versetti del Corano: «E Dio fa scendere l’acqua dal cielo e ne fa viva la terra che prima era morta, e certo un segno è ben questo per gente capace di udire. E voi avete ancora nei greggi un esempio: Noi vi diamo da bere, di quel che è nei loro ventri, di fra le feci e il sangue, latte puro, squisito a chi beve. E dei frutti delle palme e delle viti vi fate bevanda inebriante e buon alimento: e certo è ben questo un Segno per gente che sa ragionare. E il tuo Signore rivelò all’ape: “Fatti case nei monti, negli alberi e in quel che fabbricano gli uomini; e mangia di tutti i frutti e percorri sommessa le vie che il Signore ti dice!”. Dal ventre suo esce variopinta bevanda [il miele], che guarisce gli umani; certo è ben questo un Segno per gente che sa meditare» (Sura XVI, 65 – 69). È interessante notare che i cibi rituali se analizzati dal punto di vista utilitaristico e nutrizionale dell’essere umano, rispondono a precise esigenze determinate da climi e habitat diversi.
Il saggio di Marvin Harris Buono da mangiare chiarisce il significato di tabù, restrizioni, usanze di cibi e bevande. Il sale nei paesi caldi è indispensabile; permette al corpo di trattenere l’acqua e resistere meglio al calore, e non stupisce notare come sempre ben salati siano tanti piatti della tradizione mediterranea.
L’alimentazione delle popolazioni nomadi, in particolare i Tuareg, prevede una quota significativa di sale. La funzione è quella di trattenere l’acqua e idratare bene il corpo: il caldo è implacabile e per questo è un dovere categorico dissetare chi arriva e donare un frutto a chi va via. Nei locali pubblici in Grecia e a Napoli si viene accolti con un bicchiere d’acqua. Stessa necessità denotano i rituali obbligatori, sempre in numero di tre o suoi multipli, bicchieri di tè molto dolce, profumato al cardamomo, alla menta, ai pinoli, alla frutta secca nei Paesi del Maghreb. Una cerimonia che sottolinea i doveri di ospitalità e condivisione “salvavita”. Il tè bollente nutrizionalmente reidrata, stabilizza la temperatura corporea, impedisce le dispersioni repentine e le perdite di fluidi, estremamente pericolose in un viaggio tra le dune del Sahara.
Cucinare, condividere, alimentare. L’esempio della civiltà mediterranea dalle origini a oggi esprime con chiarezza che è una civiltà in cui è insita la natura accogliente; cultura che si fonda sulla partecipazione e lo scambio attivo tra le diverse comunità che da millenni abitano le sue rive e che anche nel futuro non perderà la sua duttilità e capacità di interagire e trasformare le influenze a lei esterne, siano cibo, persone e idee.
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Articolo di Giuliana Cacciapuoti

Insegna lingua e cultura araba e musulmana da oltre quarant’anni in Italia e all’estero. Pubblica su riviste accademiche e sul suo sito per presentare con uno sguardo non convenzionale le realtà del mondo islamico. Nel 2014 ha fondato GCCK Connecting Knowledge. Nel 2022 ha pubblicato il libro Donne musulmane: un ritratto contro stereotipi e luoghi comuni. Tra le socie fondatrici di Toponomastica femminile.