Misurarsi con un personaggio come Audrey Hepburn vuol dire fare i conti con un vero e proprio modello di stile e di eleganza, praticamente insuperato e ― forse ― insuperabile: in lei si esprimeva un modo di essere naturale, non studiato, di autentica raffinatezza, che si manifestava in tratti semplici, in piccoli dettagli, in sguardi, e poco altro. Con termini oggi abusati si potrebbe parlare di influencer, di icona della moda, ma sarebbe comunque riduttivo: le attuali influencer si avvalgono di schiere di consulenti, utilizzano mezzi all’epoca di Audrey inesistenti, si fanno conoscere e apprezzare grazie a migliaia o milioni di seguaci, creano un mercato intorno alla propria immagine, super sponsorizzata. Ma lei era di un altro tempo e di ben altro temperamento. E poi era un’ottima attrice, una vera professionista, aveva doti innate che certe odierne figure da copertina ignorano, false e costruite ad arte come sono.

Audrey è figlia dell’Europa, non di una sola patria; era nata in Belgio, a Ixelles, presso Bruxelles, il 4 maggio 1929, con il nome completo Audrey Kathleen Ruston; la madre era una aristocratica di origini olandesi, il padre un inglese impiegato in una compagnia di assicurazioni che lasciò la famiglia in difficoltà, andandosene all’estero. Da adolescente visse nei Paesi Bassi, dove studiò danza al Conservatorio, ma anche soffrì come tutta la popolazione a causa della Seconda guerra mondiale; dopo un periodo ad Amsterdam, Audrey si trasferì a Londra dove intraprese la carriera di attrice grazie a dei musical e poi al ruolo di Gigi nell’omonima commedia, messa in scena a Broadway, per cui ebbe il primo riconoscimento ufficiale, in quanto esordiente. Nel 1952 debuttò al cinema nel film The secret people, nell’interpretazione assai congeniale di una ballerina.

Fu poi la volta del fortunatissimo Vacanze romane per cui fu scelta dal regista William Wyler, con entusiasmo e convinzione, per la parte della principessa Anna che, in incognito, si muove allegra e leggera per le vie di Roma sulla mitica Vespa. Il co-protagonista Gregory Peck volle che il suo nome campeggiasse sulle locandine, certo che la collega semisconosciuta avrebbe riscosso un grande successo personale: aveva ragione, infatti arrivarono l’Oscar, il Bafta e il premio della critica americana. Al momento della cerimonia a Hollywood Audrey indossava un abito bianco a fiori di Givency, rimasto negli annali, e da allora con lo stilista si crearono un sodalizio e un’amicizia duratura, proseguita con il successivo film Sabrina, al quale andò l’Oscar per i costumi. Come si ricorderà, qui la giovane donna è corteggiata da due cavalieri, interpretati da star famosissime come Humphrey Bogart e William Holden, e sul set sembra sia nata una storia d’amore, dall’esito sfortunato, fra Audrey e Holden. Di lì a poco, di nuovo sui palcoscenici, conobbe e in breve sposò l’attore Mel Ferrer, suo partner in Ondine; per lei ci furono un Golden Globe e il Tony Award.
Ormai Hepburn era ben più che una promessa e stava diventando quel modello di eleganza che la contraddistinse; intanto fu premiata come migliore attrice del cinema mondiale, nel 1955, dalla giuria dei Golden Globe.
Dopo Natascia nel kolossal Guerra e pace, girato e prodotto in Italia, sono del 1957 due film da lei assai amati perché le dettero modo di mettere in mostra le sue doti di ballerina e di interprete brillante: Cenerentola a Parigi con Fred Astaire, e Arianna, una commedia di Billy Wilder. Nel triennio seguente Audrey si dedicò a ruoli inediti, drammatici, comunque pienamente nelle sue corde e pluripremiati: suor Lucia in Storia di una monaca, Rima in Verdi dimore e Rachel nel bel western di Huston Gli inesorabili.


Risale al 1961 il successo intramontabile di Colazione da Tiffany per la regia di Blake Edwards, dal romanzo di Capote, in cui è la dolce Holly, a fianco di George Peppard; una “accompagnatrice” dall’aria fresca e ingenua che diventerà uno dei simboli della cinematografia dell’epoca. Appartengono a questa pellicola alcuni degli abiti e degli accessori che segnarono il suo stile senza tempo: il tubino nero, i grandi occhiali da sole, il lungo bocchino, il cappello dall’ampia tesa, i vistosi gioielli, le acconciature. Ancora un film drammatico e una parte impegnativa in Quelle due, con un cast importante e di nuovo la regia di Wyler, mentre Sciarada del 1963 le offrì l’opportunità di misurarsi per la prima e unica volta con il sempre affascinante Cary Grant. L’anno seguente sorse una vera e propria disputa per l’interpretazione della protagonista del musical di Cukor My Fair Lady: il ruolo della fioraia sempliciotta che diventa una vera signora grazie al suo Pigmalione fu conteso con Julie Andrews, reduce dal successo in teatro, che non la spuntò, ma in compenso ottenne l’Oscar per l’altrettanto celebrato Mary Poppins.
Il film ebbe una serie infinita di riconoscimenti, fra cui ben otto Oscar e Audrey-Eliza Doolittle fu premiata con il David di Donatello. Insieme a Parigi, uscito nel 1964, volle dire ritrovare come compagno di scena William Holden, mentre del 1966 è la vivace commedia Come rubare un milione di dollari e vivere felici, terza e ultima volta in cui lavorerà con Wyler. In questo periodo della sua vita Hepburn si trovò in una situazione difficile per la separazione dal marito, inoltre si rese conto di essere a una svolta nella carriera, per cui decise di impegnarsi sempre più in ruoli di donna adulta e tormentata, come la non vedente in Gli occhi della notte e la protagonista di Due per la strada, raffinata commedia dolce-amara che affronta i temi del divorzio e della convivenza faticosa di una coppia.
Nel 1969 arrivò il secondo matrimonio con il medico italiano Andrea Dotti; affrontando una nuova rischiosa gravidanza, ebbe molti problemi di salute e di conseguenza decise di dedicarsi al piccolo Luca, all’altro figlio Sean e alla famiglia. Ritornò al cinema vari anni più tardi, con la malinconica pellicola Robin e Marian (1976) accanto a Sean Connery, rivisitazione del leggendario amore fra Robin Hood e Marian in età matura. Poco riuscito fu il seguente Linea di sangue, mentre un buon successo riscosse la commedia …e tutti risero; dopo il film per la tv Amore tra ladri, nel 1988 comparve nell’ultimo piccolo ruolo cinematografico in Per sempre, di Spielberg, ma intanto si era dedicata alla registrazione di un album di fiabe e le si stava aprendo una nuova carriera come brillante intrattenitrice televisiva, attività entrambe che le fruttarono premi postumi. Continuò a ottenere riconoscimenti come attrice, ma anche per il suo generoso impegno nel volontariato come ambasciatrice dell’Unicef che la portò in tanti sventurati Paesi del mondo, mentre il secondo matrimonio naufragava e la malattia incombeva.

Negli ultimi anni Audrey ebbe vicino un nuovo compagno con cui si trasferì in Svizzera, presso il lago di Ginevra, dove la morte arrivò il 20 gennaio 1993. Il presidente George Bush le aveva da poco assegnato uno dei massimi onori americani: la Medaglia presidenziale della libertà, e l’Academy le attribuì il premio umanitario Jean Hersholt, ritirato dal figlio Sean dopo la sua scomparsa.
Hepburn è una delle sole diciassette persone che possono vantare il titolo di Egot, un acronimo che sta per Emmy, Grammy, Oscar e Tony. Rispettivamente, questi riconoscimenti americani onorano risultati eccezionali in televisione, registrazione, cinema e teatro, e sono chiamati “grande slam”, è vincitrice infatti di due Academy Award, due Tony Award, un Emmy Award e un Grammy Award, a cui si sommano tre Golden Globe e quattro Bafta. L’American Film Institute l’ha inserita al terzo posto tra le maggiori stelle della storia del cinema e una stella le è stata dedicata sulla Hollywood Walk of Fame, al 1652 di Vine Street.

Nel 2005 il figlio Luca ne ha delineato un ritratto affettuoso attraverso una originale biografia, Audrey at Home, scritta con il giornalista Luigi Spinola, ricca di curiosità, aneddoti e perfino ricette; dal libro, tradotto in italiano con il titolo Audrey mia madre, è prevista la realizzazione di una serie televisiva. L’altro figlio Sean intanto ha presentato di recente un documentario: Audrey: More Then an Icon, frutto dei ricordi personali che raccontano l’attrice nella sua veste di mamma amorevole, brava cuoca e persona altruista. Nel 2019 è uscita negli Usa la biografia di Robert Matzen Dutch girl: Audrey Hepburn and world war II in cui fra l’altro emergono dettagli sul difficile periodo olandese, fra bombardamenti, fughe, rischi e coinvolgimento nella locale resistenza. Un bel volume riccamente illustrato, sempre a cura di Luca Dotti, coglie la quotidianità di Audrey nei lunghi anni trascorsi in Italia (Audrey a Roma), attraverso circa 200 immagini in gran parte inedite e familiari, mentre nel 2023 è previsto l’ebook Audrey in Paris.
Sintetizzata la sua carriera, su cui ci si potrebbe diffondere a lungo, riepilogati solo in parte i premi ricevuti, occorre fare qualche osservazione in più sulla donna, sulla diva che non voleva essere tale, sul personaggio pubblico che invece era dominato dalla timidezza e dall’introversione; strano davvero per chi svolge una professione come la sua. Eppure Audrey, che scelse il cognome Hepburn da quello della nonna senza temere la rivalità con la celeberrima Katharine (1907-2003), che parlava olandese, spagnolo, francese, italiano, inglese, tedesco, che sognava una famiglia numerosa, che perdonò il padre e lo assisté fino all’ultimo, rimane un simbolo: basta un fotogramma e la rivediamo, come fosse ieri. Sbarazzina, con la frangetta e le ballerine ai piedi, sofisticata con lo chignon e l’abito lungo, disinvolta con il foulard al collo o sulla testa, elegantissima sulle nevi in total black, o in bianco candido, inappuntabile con un cappellino a tamburello, con o senza veletta, di classe con un semplice cappotto beige, misteriosa con il passamontagna detto balaclava, tornato prepotentemente di moda nelle sfilate 2022, come pure lo shearling che avevamo dimenticato da anni. I suoi occhi risplendono, il suo sorriso è dolcissimo, la sua magrezza è invidiata e imitata, anche se pare fosse dovuta alla fame patita durante l’occupazione nazista dell’Olanda. A lei, eternamente giovane e moderna, pure scomparsa da trent’anni, continuano a ispirarsi modelle e attrici; il regista Luca Guadagnino, per realizzare quello che si potrebbe chiamare un biopic, ha scelto Rooney Mara, ma davvero ha gli stessi occhi da cerbiatta? ha lo stesso portamento? ha la stessa classe innata? Difficile dirlo; forse si tratta solo di una pallida imitazione, come spesso succede con questo genere di pellicole. Dell’originale, purtroppo, si è perso lo stampo.
***
Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.