Quando la scorsa primavera sono diventato vegano, non mangiavo già carne da alcuni anni, “rinuncia” (o “liberazione”) grazie alla quale avevo risolto problemi fisici, oltre che etici. Si sa che la carne proveniente dagli allevamenti intensivi, piena di antibiotici e ormoni, non è la dieta più sana che si possa seguire, meno si conoscono, invece, le questioni etiche ed è soprattutto su queste che si basano le mie nuove abitudini alimentari.
In merito alla sofferenza degli esseri viventi in allevamento e all’impatto ambientale dell’industria animale, mi sono posto alcune domande.
Si può stare bene ingerendo e digerendo il frutto della sofferenza?
Ha un senso logico e una coerenza boicottare la carne ma acquistare altri prodotti che provengono dalla stessa industria?
Sorvolando sul fatto che la carne e i suoi derivati non costituiscono un bisogno primario dell’essere umano (che, portato in un ipotetico “stato di natura”, sarebbe fruttariano e granivoro, grazie alla dentatura in comune con le scimmie, e non consumerebbe latte, come non lo consuma nessun animale dopo lo svezzamento), non si può evitare di riflettere su come questa venga prodotta.
Mammiferi, ovvero animali intelligenti e sensibili, con un sistema nervoso complesso capace di provare non solo paura e dolore fisico ma anche emozioni e affetti, trascorrono l’intera esistenza in gabbie claustrofobiche, la loro nascita e tutta la loro vita è finalizzata all’uccisione; le femmine di bovini, per citare solo un esempio, sono costantemente sottoposte a gravidanze forzate volte a generare cuccioli destinati al macello, per permettere la produzione di latte e latticini che dovrebbero costituire il pasto di un vitello.
Si può lottare per la parità di diritti all’interno di una specie e al tempo stesso praticare la supremazia della propria specie su tutte le altre?
Quanto è forte l’impatto ambientale che l’industria animale ha sugli equilibri climatici del pianeta e sulla salute umana?
Ho iniziato a seguire la formazione di Greenpeace e mi sono reso conto ben presto che il semplice vegetarianesimo costituiva per me una “scelta a metà”.
Molte delle epidemie degli ultimi decenni vengono proprio dagli allevamenti intensivi (vaiolo bovino, influenza aviaria, influenza suina, “mucca pazza”…), è lì che hanno avuto modo di svilupparsi e, attraverso il consumo di carne, di diffondersi tra la popolazione umana. Inoltre, gli allevamenti intensivi, con i gas che vi si accumulano e le sostanze usate per smaltire gli escrementi animali, contribuiscono enormemente alla diffusione massiccia di azoto e anidride carbonica nell’atmosfera. Anzi, stando ai dati delle organizzazioni ambientaliste internazionali, prime fra tutte Greenpeace, Anonymous, Extinction Rebellion e Sea Shepherd, l’inquinamento prodotto dall’industria animale è pari a quello dell’intero traffico automobilistico europeo. Quindi, se decidessimo di abbandonare le automobili continuando a mangiare animali da allevamento intensivo al ritmo di oggi non avremmo ancora risolto l’emergenza climatica, che sta diventando sempre più urgente.
Trattandosi di prodotti della stessa industria, ha davvero senso distinguere tra il consumo di carne e quello di latte e derivati o uova? E così ho deciso di smettere di consumare i prodotti animali anche al di là della sola carne.
L’alternativa apparente all’allevamento intensivo europeo e nordamericano è quello estensivo sudamericano: gli animali, la cui esistenza è comunque finalizzata all’uccisione, vengono portati al pascolo in terreni sottratti alla foresta amazzonica (prevalentemente brasiliana, paraguayana e boliviana). L’altra causa della deforestazione in Amazzonia, a volte autorizzata ufficialmente dai governi locali (Bolsonaro in primis, ma non è certo l’unico), più spesso aiutata da incendi “accidentali”, è la coltivazione della soia: ma di questa solo il 10% è destinata alla produzione delle bevande alternative al latte, mentre il restante 90% va a produrre il mangime per gli animali rinchiusi negli allevamenti dei Paesi del “Primo mondo”. Per queste ragioni, a maggio del 2022, numerose attiviste e attivisti di Greenpeace hanno bloccato la nave brasiliana Crimson Ace diretta nei Paesi Bassi: il bastimento era carico di 60mila tonnellate di soia amazzonica prodotta a danno del “polmone verde del pianeta” e destinata a mantenere gli allevamenti intensivi europei.
«Sulla spinta della crescente domanda di mangimi per animali – denuncia la Onlus – dal 1997 a oggi la produzione mondiale di soia è più che raddoppiata. E sebbene circa due terzi dei terreni agricoli europei siano dedicati alla produzione di colture destinate alla mangimistica, queste risultano comunque insufficienti a sfamare il gran numero di animali allevati in Europa, con il risultato che le importazioni di soia sono ormai talmente elevate da rappresentare il principale contributo dell’Unione europea alla deforestazione globale».
Mi ha sorpreso scoprire come la campagna foreste e la campagna allevamenti fossero strettamente collegate. Negli ultimi sessant’anni anni, la produzione di cibo di origine animale è stata responsabile del 65% del cambio d’uso del suolo. Per alimentare una vacca si occupa lo spazio di terra coltivabile che basterebbe a nutrire varie decine, se non centinaia, di persone vegane (non è possibile fare una stima esatta perché i consumi cambiano a seconda dei Paesi e dei contesti sociali). Per produrre un chilo di carne bovina occorre ben sei volte la quantità di acqua necessaria per ricavare altrettante proteine vegetali. Dunque anche un piccolo allevamento, non industriale e abbastanza rispettoso delle condizioni di vita degli animali, avrebbe un impatto ambientale molto più dannoso della scelta vegana.
La stessa Greenpeace, con la campagna intitolata «Non mettiamo il pianeta nel piatto!», ha chiesto all’Unione Europea di diminuire del 70% il consumo di carne e in generale di prodotti provenienti dagli allevamenti intensivi entro il 2028 (data per la quale è previsto il «punto di non ritorno», ovvero la definitiva irreversibilità dei danni ambientali compiuti fino a questo punto). È un obiettivo molto ambizioso ma non ancora sufficiente per fermare la catastrofe climatica verso la quale stiamo andando. E soprattutto, è un obiettivo che si può raggiungere soltanto se accompagnato dalla coscienza collettiva generata dal consumo consapevole.
Dunque, tutti gli esseri umani indistintamente dovranno cambiare le proprie abitudini? Non esattamente. Per raggiungere un equilibrio sostenibile, è necessario che la popolazione di Europa e America diminuisca radicalmente l’enorme consumo di prodotti animali, mentre nell’Africa subsahariana e in Asia sudorientale, dove il tenore di vita è decisamente più basso, una riduzione così drastica non appare necessaria, anzi, potrebbe addirittura aumentare senza causare danni.
Se la carne fosse il frutto della caccia praticata in boschi incontaminati, l’esiguo consumo procapite ridurrebbe i danni apportati alla salute umana, l’inquinamento sarebbe pressoché inesistente e la sofferenza inflitta all’animale sarebbe contenuta. La questione dei latticini invece è più delicata: una femmina di qualunque mammifero, per produrre latte, deve essere gravida o aver partorito di recente. Prenderle il latte comporta necessariamente l’uccisione dei suoi cuccioli; un pastore “etico” che volesse con rispetto sottrarle soltanto quel poco latte “in eccesso” senza sopprimere gli animali, ne potrebbe ottenere una quantità irrisoria, sufficiente sì e no per se stesso e la propria famiglia.
Mangiare carne non è un reale bisogno ma un’abitudine che si ripete per praticità: è l’abitudine a determinare il bisogno. A un primo sguardo sembra che le alternative siano poche ma non è così: quando ho smesso di consumare derivati animali, “giocando” in cucina con le spezie sono stato colto dalla consapevolezza che diventare vegano non significasse rinunciare a qualcosa ma scoprire qualcos’altro a cui non avevo mai pensato.
Nelle prossime settimane, verranno illustrate alcune ricette di cucina vegana: scoprirete anche voi che queste, oltre a non richiedere sofferenza, sono buonissime! E dunque buon appetito, con rispetto della vita.
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Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.