La consegna del silenzio

Più volte mi è capitato di constatare come persista, nell’immaginario di persone di media cultura, la convinzione che la condizione di subordinazione in cui sono state tenute le donne nel mondo occidentale – condizione messa in discussione nell’ultimo secolo dai movimenti femminili e femministi, che a più riprese hanno rivendicato parità di diritti con gli uomini, con qualche parziale successo – sia dovuta alla diffusione e all’egemonia culturale della religione cristiana. Il Cristianesimo, in continuità col racconto biblico – nella versione in cui la donna viene creata in un secondo momento rispetto ad Adamo, dalla sua costola, per essergli compagna – ne avrebbe ribadito il senso, assegnando a Maria il ruolo di sposa e madre esemplare e, soprattutto, immacolata; attributo che, nella vulgata, significa non tanto libera dal peccato originale, quanto pura, cioè esente da ogni contaminazione sessuale.

I più non sospettano affatto che sia stata la Grecità classica, invece – e in particolare la diffusione nel mondo civilizzato del sistema di valori consolidatosi nel corso del V secolo ad Atene, in contemporanea con l’affermarsi del primo regime democratico, da cui si vantano di discendere tutte le moderne democrazie – a inaugurare e a trasmettere al mondo cristiano l’imperativo categorico dell’esclusione delle donne dai diritti fondamentali, primo fra tutti quello di cittadinanza; e, insieme, la dimostrazione teorica, addirittura scientifica, della loro inferiorità “naturale”, che giustifica tale esclusione.

Anche i ragazzi e le ragazze che frequentano il liceo classico e che entrano in contatto con quella cultura – idealizzata, se non addirittura idolatrata, come quella che avrebbe posto le basi del pensiero moderno, individuando e discutendo in modo analitico tutte le questioni fondamentali con le quali l’umanità continua a confrontarsi dopo millenni – raramente sono messi nelle condizioni di cogliere le contraddizioni interne a tale cultura, soprattutto a proposito di due nodi fondamentali del vivere civile: la relazione tra libertà e schiavitù e quella tra uomini e donne. Già prima che Aristotele, nel IV secolo, con rigore di argomentazione scientifica, dimostrasse come il contributo della femmina alla generazione di ogni essere vivente, si limiti a fornirne la materia, mentre il soffio vitale, e spirituale, viene trasmesso dal maschio, è Tucidide, considerato il primo storico nel senso moderno del termine, a mettere in bocca a Pericle parole illuminanti sul ruolo assegnato alle donne per bene nella città il cui nome resta tuttora emblema di democrazia. Nel II libro delle Storie, l’uomo più rappresentativo della democrazia ateniese nel momento del suo massimo splendore, pronuncia un discorso famosissimo – riportato in tutte le antologie scolastiche – allo scopo di commemorare i concittadini morti combattendo in difesa della città, durante il primo anno della guerra nota col nome di Guerra del Peloponneso. È il 430 a.C. Siamo solo all’inizio di un conflitto che per più di ventisei anni vide combattersi all’ultimo sangue Sparta e Atene, le due città più importanti e potenti del mondo greco: dopo decenni di guerra fredda e di brevi scontri circoscritti, fu proprio Pericle, il campione della democrazia, a decidere che era venuto il momento di affrontare la potenza rivale, con cui Atene si era spartita fino ad allora il controllo del mondo civilizzato, per decidere una volta per tutte a chi ne spettasse l’egemonia. Ma Pericle morì l’anno dopo, di peste, e i suoi successori non furono in grado di raccoglierne l’eredità dal punto di vista politico, né di seguirne la strategia militare. Sta di fatto che, se la guerra lascerà dissanguate ambedue le città contendenti, sarà Atene a pagarne il prezzo più alto, trascinando nella sua rovina anche l’esperienza del regime democratico: tutte le città che ne avevano seguito l’esempio, saranno consegnate al governo di “pochi” e nel giro di alcuni decenni finiranno col perdere la libertà per cadere sotto il controllo del regno di Macedonia. È una situazione che per molti versi può ricordare quella in cui si trova l’Europa in questo momento, con una guerra – in cui ancora una volta la posta in gioco è l’aspirazione all’egemonia di due grandi potenze – che dura ormai da quasi un anno e che non accenna a finire.

Ma torniamo al discorso di Pericle e a quel passo che possiamo considerare come la prima testimonianza scritta ufficiale della condanna delle donne all’esclusione dalla vita civile. Dopo un lungo e famosissimo elogio di Atene, e non solo della sua costituzione, ma anche delle peculiarità che differenziano il modo di vivere e il sistema dei valori degli ateniesi da quelli degli altri popoli e anche delle altre città greche – l’apprezzamento della bellezza, per esempio, e non solo della forza; ma anche il riconoscimento della partecipazione al dibattito politico come il più importante contributo che ogni cittadino possa dare alla grandezza della sua città – Pericle rende onore con gli argomenti rituali alla virtù di coloro che hanno dato la vita per la patria, esortando a seguirne l’esempio. Ma, a conclusione del discorso, noto come Epitafio – alla lettera “sulla tomba” – aggiunge queste parole: «Se devo, infine, dire qualche parola anche della virtù di quelle donne che ora si troveranno in stato di vedovanza, lo farò brevemente con un solo consiglio. Ottima sarà la vostra reputazione se non sarete peggiori di quanto comporta la vostra natura e se fra gli uomini si parlerà il meno possibile della vostra virtù o dei rimproveri che vi si possono rivolgere» Storie, II, 45, 2.
Accanto all’invito a non essere “peggiori di quanto comporta la [loro] natura” (di per sé ignobile, sembra di capire), l’imperativo categorico per le donne – che di ogni guerra sono quelle che sopportano il peso e le conseguenze più gravi – è dunque quello di scomparire, letteralmente: non solo devono tacere, ma devono comportarsi in modo da non dare occasione agli altri di parlare di loro, neppure per lodarne eventuali virtù. La regola del silenzio è quella su cui poggia l’esclusione delle donne dalla democrazia, perché il diritto fondamentale che distingue il regime democratico dalle altre forme di governo è proprio l’isegoría, alla lettera “uguale diritto di parlare”. Parlare nell’ekklesía, soprattutto, l’assemblea di tutti i cittadini, il luogo in cui si prendono tutte le decisioni che riguardano la collettività, una sorta di parlamento: nell’Atene del V secolo la democrazia non è rappresentativa, ma diretta, ognuno si esprime votando di persona. L’obbligo del silenzio tuttavia riguarda solo le donne per bene, ovvero quelle che, figlie di un cittadino ateniese, aspirino alla condizione di mogli legittime di un altro cittadino e, in quanto tali, siano abilitate a dare alla luce figli maschi che, per nascita, saranno cittadini e godranno dei diritti e dei privilegi che la democrazia garantisce ai maschi liberi. In un certo senso le donne ateniesi libere non sono soggetto di diritti, ma sono strumento di trasmissione dei diritti ai figli. Le altre donne, per esempio le straniere che per qualche ragione si siano stabilite ad Atene, non potranno aspirare a tanto, ma in compenso godranno di una grande libertà di movimento, di parola e soprattutto di istruzione; e persino della compagnia di uomini importanti come Pericle stesso, e addirittura di Socrate, il filosofo reso immortale dal discepolo Platone, che ne fece il protagonista delle sue opere note col nome di dialoghi.

Quando Tucidide compone i libri giunti, attraverso un percorso non lineare, fino a noi, col titolo di Storie, l’umanità si trova in uno snodo cruciale, quello in cui la scrittura si va affermando, pur tra mille contrasti, come mezzo prioritario di trasmissione della conoscenza e di condivisione del pensiero. Fino ad allora essa era stata una tecnica specialistica riservata a pochi individui, e la trasmissione, anche delle vicende storiche, era stata affidata all’oralità, come è testimoniato ancora per le opere di Erodoto, sostanzialmente contemporaneo di Tucidide.

La parola dunque, e non la scrittura, era stata fino alla fine del V secolo a.C. non solo lo strumento del dibattito, ma anche quello dell’elaborazione e poi della trasmissione di ogni forma di ricerca e di analisi, dello stesso pensiero filosofico, scientifico, politico, poetico: lo strumento attraverso cui si concretizza il progresso dell’umanità. Fino ad allora per escludere le donne era stato necessario vietar loro di prendere la parola, in pubblico, almeno. Da quel momento in poi sarà forse più facile: basterà evitare che imparino a leggere e a scrivere; e che abbiano una stanza tutta per sé, dove appartarsi per farlo.

Cercheremo di ricostruire insieme questa vicenda, con l’aiuto di Santippe, Aspasia, Neera, Frine, e della moglie di Eufileto, il cui nome è taciuto, per salvaguardarne l’onore; rileggeremo insieme Saffo, ma anche le storie di Penelope, di Elena, di Fedra, con sguardo, per una volta, non neutro.

.

***

Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

Lascia un commento

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...