Le lavoratrici di domani. Riflessioni di una futura insegnante

Nell’ottobre dello scorso anno ho avuto modo di assistere alla conferenza Skill for life: idee per l’empowerment delle ragazze dalla scuola al lavoro, organizzata dall’associazione Room to Read in occasione della Giornata Internazionale delle bambine. Hanno partecipato sia rappresentanti della politica che insegnanti e classi di Istituti liceali e tecnici, insieme per discutere delle strategie da adottare per aiutare le donne di domani a entrare e rimanere nel mondo del lavoro in pianta stabile. Un problema di cui si discute ormai da anni e che la pandemia ha reso ancor più attuale e aggravato: non è certo un mistero che nei momenti di difficoltà le donne sono le prime a essere licenziate e le ultime a essere riassunte; il fatto di poter potenzialmente rimanere incinte induce molti datori e datrici di lavoro a non assumere donne se in età fertile o fidanzate, così da non rischiare di pagare la maternità. Un problema che non si pone per gli uomini perché si sa che il loro contributo principale nel nucleo familiare è quello di lavorare e portare a casa i soldi, che non hanno quel “pulsante genetico” che si attiva quando diventano genitori e che li renderebbe non adatti al lavoro, al contrario delle madri.

Ironie a parte, è evidente che la questione sia soprattutto sociale: ancora oggi intere fette della popolazione non vedono di buon occhio una lavoratrice. Può non essere più così ovvio perché il linguaggio usato per esprimere questa contrarietà non è diretto come un tempo: invece di dire: «Una donna che lavora non potrà mai fare da vera madre», «Se lavori porti vergogna a tuo marito perché vuol dire che non è in grado di mantenerti», «Se sei autonoma vuol dire che non ti fidi della famiglia», oggi si preferisce essere più sottili: «Se lavori troppo ti stressi e non sei trattabile», «Se lavori fuori casa alla fine ti ritrovi a fare due lavori perché tuo marito non ti aiuterà mai nelle faccende domestiche perché lui torna a casa stanco e vuole riposarsi», «Ma quando lo fai un figlio? Ancora pensi alla carriera?». Idee antiquate e inaccettabili anche in quel mondo che i più tradizionalisti vorrebbero ricreare ― ignorando che il modello breadwinner-casalinga non è più replicabile oggi, quando lo stipendio medio basta appena per far sopravvivere una sola persona, figurarsi una famiglia ― e che tuttavia vengono ancora promosse soprattutto a casa, durante l’infanzia e l’adolescenza: relegare le faccende domestiche alle ragazze e lasciare i ragazzi nell’incuria totale al punto che non sanno nemmeno preparare un piatto di pasta da soli; impedire ai ragazzi di giocare con le bambole o strappare dalle loro mani qualunque cosa sia rosa pensando che ciò possa in qualche modo renderli omosessuali o deboli; ostacolare le ragazze nella prosecuzione degli studi paventando barriere economiche che non esistono per i maschi, o trattare quell’educazione come un capriccio da cui poi dovranno però “maturare” per finire a fare le mogli e madri “come è giusto che sia”; scoraggiare i ragazzi a prendersi responsabilità in casa, o a esprimere emozioni che non siano la rabbia; e tanti altri comportamenti che possono risultare all’apparenza innocui se non addirittura comici vista la dissonanza tra questi vecchi ideali di uomo e donna e la realtà e i desideri delle ragazze e dei ragazzi di oggi, e che tuttavia ancora esercitano un’influenza negativa impedendo di fatto di raggiungere una vera parità. Questa situazione viene ancora di più aggravata dal territorio: le differenze fra Nord e Sud si fanno sentire anche in questo campo, con un Sud più conservatore e dove più della metà delle donne in età lavorativa fa volente o nolente la casalinga e un Nord che assorbe la forza lavoro femminile che il Sud rigetta per motivi culturali.

Il doppio standard verso femmine e maschi affligge tutti gli ambienti anche quelli più progressisti: espressioni di violenza fisica e/o verbale sono accettate se non incoraggiate fra gli uomini per creare una gerarchia in cui devono primeggiare per potersi considerare di successo, questioni legate a un modello di mascolinità tossica che solo di recente si sta cominciando a mettere davvero in discussione. Nonostante decenni di riflessioni sia femministe che no, alle donne continua a essere imposto il ruolo di cura: non importa che genere di carriera abbiano scelto o quali siano le loro aspirazioni, si chiederà sempre di essere coinvolte nelle faccende domestiche e familiari, senza alcun aiuto sia preteso con la stessa insistenza da parte dei loro compagni o dei membri maschili della loro famiglia. Questo doppio carico di lavoro costringe molte ragazze e donne a decidere fra carriera/studio e la propria famiglia; molti uomini, soffocati da un modello di mascolinità superato, abbandonano lo studio senza però cercare un’alternativa. Se si guarda ai percorsi accademici Stem, la situazione è ancora più tragica: moltissime ragazze sono attivamente scoraggiate dal perseguire carriere scientifiche dietro la patetica minaccia di non riuscire a trovare un marito, in quanto “agli uomini non piacciono le donne più intelligenti di loro”; se questo non bastasse, e si riuscisse in qualche modo a superare anche il problema della sopracitata “improvvisa” scomparsa di supporto finanziario, una volta terminato il proprio percorso parecchie non riescono a trovare lavoro: numerosi studi e ricerche hanno dimostrato che le donne tendono a non essere assunte a causa dei pregiudizi nei confronti del loro sesso. Scoraggiate da anni di duro lavoro buttati al vento molte giovani vanno ad allargare le file dei neet, coloro che non cercano né vogliono lavorare. Il Covid ha acuito tali problematiche, causando un vero e proprio rigurgito di vecchi stereotipi sui sessi, sulla provenienza etnica e territoriale e sulla propria classe economica che si pensava fossero ormai stati abbandonati da tempo.

Iniziative come Skill for life mirano a cercare soluzioni a questi problemi, instaurando un dialogo fra istituzioni, corpo docenti e corpo studentesco per identificare i problemi delle ragazze e quelli dei ragazzi e trovare soluzioni adeguate. Tre sono le principali aree di intervento: le conoscenze curricolari, che devono essere affinate con adeguati corsi di specializzazione; le competenze della vita, l’acquisizione di conoscenze non accademiche; life deep learning, ossia imparare ad accettare che non si smette mai di imparare e che l’ignoranza non deve essere fonte di vergogna ma di opportunità. I ragazzi hanno bisogno di un maggiore sostegno psicologico, vanno incoraggiati a cercarlo e si deve limitare il ripetersi degli stereotipi di genere maschili; le ragazze vanno incoraggiate a perseguire gli obiettivi – sia nelle materie Stem che non – intervenendo anche sul loro contesto sociale di provenienza, per evitare che ne vengano frenate. È inoltre necessaria una nuova alfabetizzazione digitale: l’Italia è rimasta molto indietro nell’uso delle nuove tecnologie – simbolica è stata la polemica di qualche settimana fa per cui molti parlamentari denunciavano mancate comunicazioni da parte del governo perché i primi si aspettavano di riceverle via mail mentre il secondo le mandava via fax –e le nuove generazioni sono state lasciate allo sbaraglio nell’uso di internet con conseguenze allarmanti sul loro sviluppo. Il contrasto alle disuguaglianze di genere passa soprattutto attraverso la scuola, ed è quindi importante renderla un punto di ritrovo e di riferimento per la gioventù e per la comunità con varie iniziative, come tenerla aperta anche fino a sera se l’alternativa è lasciare ragazze e ragazzi ad annoiarsi per strada; aumentare l’accesso all’istruzione con maggiori borse di studio, riutilizzando il vecchio materiale scolastico e usando internet come supporto all’insegnamento; avvicinare alle materie scientifiche senza lasciare indietro quelle umanistiche; rapportarsi con il terzo settore come opportunità di esperienza lavorativa. Solo così le barriere che precludono alle ragazze l’accesso ad alcune occupazioni di maggior prestigio potranno essere abbattute.

L’Istat ha evidenziato che un titolo universitario diminuisce il rischio di perdere il lavoro

Durante tutta la conferenza risuona molto il ruolo che ha la comunità: tutte le persone che in qualche modo toccano la vita dei/delle giovani contribuiscono alla loro formazione ed è necessario, pertanto, che siano il più in sintonia possibile per garantire un buono sviluppo delle nuove generazioni. Le classi presenti alla conferenza si sono mostrate entusiaste di questi progetti e delle positive intenzioni: durante il dibattitto è emersa la necessità di un maggiore ascolto da parte degli adulti ai loro problemi e alle loro esigenze, senza pregiudizi né sminuire le emozioni che causano.

Da futura insegnante, queste tematiche mi colpiscono particolarmente: un mestiere che in Italia sta venendo sempre più bistrattato, che molti e molte hanno intrapreso non per vocazione o con chiara coscienza ma come terza o quarta scelta, rendendolo fonte di frustrazioni che poi fanno ricadere sulle loro scolaresche. La quarantena ha messo in luce fin troppi episodi sgradevoli: insegnanti che non si fanno problemi a urlare ed umiliare, a canzonare, a punire per un nonnulla, abbassando la testa solo quando vengono scoperti dai genitori che casualmente entrano nella stanza di figli e figlie e si imbattono in queste violenze che dentro l’aula di una scuola non sarebbero mai venute fuori. D’altro lato, proprio i genitori sono spesso il freno di una buona educazione: lo abbiamo visto come spesso trattino diversamente le loro figlie dai loro figli, impedendo alle prime le possibilità di carriera e studio perché “non conviene” che una ragazza prosegua su quella strada; spesso sono i primi a non rispettare la classe insegnante, causando episodi assai sconvenienti come dimostra la lunga lista di ricorsi al Tar per recuperare le bocciature di figli e figlie, interessandosi alla loro carriera scolastica soltanto a fine anno e senza mai chiedersi quali siano le cause profonde di una tale avversione alla scuola e allo studio. Si possono biasimare queste ragazze e questi ragazzi se tanti vivono il periodo scolastico con orrore e tormento, e decidono di abbandonare gli studi nonostante siano consapevoli che ciò impatterà sulle loro vite negativamente?

Vista l’innegabile buona volontà di tali iniziative, penso che la soluzione della comunità educante proposta sia a tutti gli effetti la soluzione migliore, ma solo se ognuno si assume le proprie responsabilità e si ripromette di migliorare, mettendo alla base delle relazioni una comunicazione sincera, nel bene e nel male.

***

Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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